Rifugiati

Ritorno in Kossovo: integrazione o nuove enclaves?

01/02/2002 -  Davide Sighele

Vi sarà prima o poi un Kossovo multietnico? Chi è a favore di un ritorno della comunità serba in Kossovo? Un sintetico sguardo sulla situazione attuale.

BiH: accordi su rientri incrociati ma ... attenzione al budget

18/01/2002 -  Anonymous User

In Republika Srpska si annunciano accordi che favoriscono i rientri delle minoranze. Ma tre parlamentari che rappresentano in RS la comunità musulmana-bosniaca cercano di mettere in luce alcune contraddizioni.

Brcko: o una parcella di terreno edificabile o sarà disobbedienza

01/01/2002 -  Anonymous User

L'Associazione "Ostanak" riunisce il suo comitato direttivo a Brcko. "Non dimenticate le sorti di sfollati e rifugiati che non intendono rientrare nelle loro zone d'origine, altrimenti sarà protesta

Le politiche migratorie in Europa

10/12/2001 -  Anonymous User

Il CeSPI, all'interno del programma MIGRACTION Europa, ha promosso un Bollettino di analisi sulle politiche migratorie in Europa. E' on line il primo numero.

Le ONG croate e il ritorno dei profughi

04/12/2001 -  Anonymous User

L'impegno delle organizzazioni non governative croate nella delicata questione del rientro dei profughi. Un esame delle difficoltà dei rientri, uno sguardo alla situazione attuale e alle attività delle ong presenti sul territorio.
Il problema del ritorno dei profughi nelle zone che fino al 1995 si chiamavano Krajina è uno dei problemi centrali che preoccupa la comunità internazionale. Come è noto i territori dove i serbi rappresentavano, secondo i dati del censimento del 1991 (ma anche secondo dati storici) la maggioranza, dopo l'indipendenza della Croazia proclamarono la Repubblica serba di Krajina. Grazie alla politica dei governi d'orientamento di destra radicale, questi territori vennero più o meno etnicamente purificati tra il '91 e il '95 dove, eccetto pochissime eccezioni, tutti i non serbi furono costretti ad andarsene. Durante le operazioni militari croate "Bljesak" e "Oluja" (le famose azioni Lampo e Tempesta avvenute tra maggio e agosto '95) i territori della Krajina si svuotarono anche della popolazione serba. La maggior parte della popolazione scelse l'esilio - nella Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina e in Serbia - nonostante l'invito ripetuto del presidente Tudjman a restare a casa. Questo invito fu valutato, a ragione, espressione di una profonda ipocrisia. Difatti gran parte degli anziani che raccolsero le garanzie date da Tudjman, vennero assassinati nei giorni seguenti alle azioni militari. Subito dopo la fine dell'operazione Tempesta, Tudjman stesso definì il senso dell'azione dicendo che la Croazia aveva "finalmente risolto il problema doloroso dell'elemento di disturbo", cioè il problema serbo. Secondo la testimonianza di uno studente della Facoltà di ingegneria di Fiume, Kresimir Djakulovic, uno dei comandanti delle unità croate che parteciparono all'azione - Vjekoslav Marinac, residente a Fiume - alla domanda su cosa sarebbe successo nel caso in cui la maggioranza della popolazione locale fosse restata nelle proprie case, rispose "Nessuno sarebbe sopravvissuto".
Sottoposto alla pressione della comunità internazionale, il governo di Tudjman accolse un programma di ritorno di profughi. Ma durante il periodo in cui governò l'HDZ, la realizzazione di questo programma incontrò moltissimi ostacoli. Il ritorno veniva praticamente impedito dalle procedure burocratiche, sempre molto complesse. Alcune migliaia (in primo luogo persone anziane) sono riuscite nonostante tutto a ritornare a vivere nei propri villaggi. Molte volte non ottenendo però il possesso delle proprie case (la cui proprietà era indiscutibile essendo private) perché occupate da profughi croati di Bosnia, ma anche provenienti dal Kosovo. Nonostante la legge sull'amnistia, quasi tutti gli uomini giovani che rientravano venivano processati come criminali di guerra e così il numero di giovani disposti a ritornare era tutt'altro che significantivo. Le persone anziane, spesso senza possibilità di lavorare e assicurarsi i mezzi necessari per la sopravvivenza, rappresentavano un problema sociale enorme del quale non si curavano né gli organi statali né le autorità locale, in principio sotto il controllo del partito di maggioranza o anche della destra estrema.

Qui inizia la storia dell'impegno - si può dire senz'altro eroico - delle organizzazioni non governative croate che dal primo momento erano presenti sui territori del ritorno portando aiuti umanitari, assistenza legale e sostegno di questa popolazione povera ed impotente. Questa storia potrebbe rappresentare un importante argomento d'inchiesta, ma che richiederebbe molto spazio e analisi differenti. Hanno operato anche alcune agenzie internazionali e ONG estere, che si sono impegnate nella raccolta e nella distribuzione dell'aiuto umanitario, tra le quali anche differenti organizzazioni italiane. E a questo proposito sono da registrare esempi di grande ed efficiente impegno, ma purtroppo anche alcuni esempi negativi di abusi, manipolazioni delle ONG locali, ecc.
Dopo le elezioni del 3 gennaio del 2000, che ha visto la coalizione di centrosinistra arrivare al governo, l'interesse per il ritorno è più che raddoppiato. Ma le vecchie strutture statali hanno continuato a frenare progressi di rilievo. Così, alle organizzazioni locali è restato l'obbligo di continuare le attività di pura assistenza ed aiuto umanitario. Le condizioni sono naturalmente cambiate: la polizia ha smesso di guardare a vista i soggetti impegnati in questo lavoro umanitario, come esponenti "invisi" al potere. Nonostante ciò l'ostruzione è continuata, portata avanti dalle strutture politiche del vecchio potere sopravvissute al passaggio elettorale, anche grazie alla politica di "non revanscismo" del nuovo governo di centrosinistra.
La situazione è oggi parzialmente cambiata grazie alle pressioni della comunità internazionale, ma soprattutto grazie all'impegno dell'Unione Europea. I cambiamenti sono diventati decisamente evidenti quest'anno, specialmente negli ultimi mesi. Come testimonia Mirjana Galo di Pola, presidente dell'organizzazione non governativa per la Protezione dei diritti umani "HOMO" (cha opera nella zona di Lika dal 1995), subito dopo le elezioni del 3 gennaio l'atteggiamento della polizia locale è totalmente cambiato, tanto da arrivare a dei livelli di cooperazione quasi eccellenti. Ma nei ultimi mesi si registrano anche nuovi atteggiamenti da parte delle autorità locali - inclusi anche i comuni dove l'HDZ possiede tutt'oggi la maggioranza . Sotto la pressione del Governo centrale, in risposta alle pressioni internazionali, il livello di cooperazione
in materia di ritorno è diventato più o meno soddisfacente, se non persino buono, e il numero dei rientranti diventa ogni giorno più rilevante. Così, in alcuni comuni si è di nuovo raggiunta la composizione a maggioranza serba che esisteva prima della guerra. In alcuni luoghi anche la struttura del potere locale rispecchia questa nuova realtà: più di 200 consiglieri comunali di nazionalità serba, alcuni comuni sotto controllo dei partiti di denominazione serba, ecc.
Sussistono però ancora moltissimi problemi.
Da un lato infatti si registra l'avvio di numerosi procedimenti giuridici contro persone rientranti, basate su denunce spesso false (ma in alcuni casi anche fondate su fatti reali) di aver commesso crimini di guerra nel periodo della Repubblica serba di Krajina. Tutti i procedimenti si trovano fin dall'inizio sotto il controllo della Missione ONU per i diritti umani di Zagabria. Come testimonia la funzionaria della Missione impegnata nella sorveglianza dei procedimenti giuridici - Branka Sesto (che da pochi giorni è stata trasferita a Baku, prendendo l'incarico di capo della Missione ONU in Azerbajdjan) - molti processi si sono dimostrati una chiara montatura. Nonostante il fatto che la giustizia infine trionfa, anche se esistono purtroppo eccezioni quando si tratta di procedimenti contro ex-profughi serbi, è evidente che questa prassi non favorisce il processo di ritorno di uomini giovani o che durante la guerra erano in età di servizio militare da "riservista".
Il secondo problema è connesso ai profughi bosniaco-croati, che hanno occupato proprietà private nelle zone del ritorno. Molti di loro non hanno alcun interesse a ritornare in Bosnia Erzegovina, specialmente se provengono da aree che oggi ricadono nell'entità della Repubblica Srpska. Qui, ancora oggi non emerge alcuna volontà politica di garantire il processo di rientro dei profughi, in primo luogo per responsabilità del Partito democratico serbo, che continua a perseguire le idee del suo fondatore ed ex-presidente - Radovan Karadzic. Il Governo croato si è quindi impegnato, dopo la svolta politica e specialmente negli ultimi mesi, nel lavoro di sistemazione di queste persone in abitazioni costruite ad hoc. Ma non c'è posto per tutti e negli ultimi mesi, attraverso procedure legali, si è intensificata la tendenza a scacciare questi profughi dalle abitazioni occupate per assicurare ai rientranti serbi di riottenerne il possesso.

Sul lungo periodo però questa non rappresenta certo la soluzione del problema, insostenibile senza un sentito cambiamento politico in Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, dove si dovrà cominciare a mettere in pratica le leggi che tutelano i rientranti croati e musulmani. Sembra che la comunità internazionale non sia disposta ad accettare la necessità di imporre misure dure contro gli esponenti dell'idea di una entità Serba etnicamente purificata per l'eterno. Negli ultimi mesi la giurisprudenza croata ha mostrato d'altra parte un netto miglioramento nella tutela della proprietà privata, ma anche rispetto al diritto di ritornare in possesso delle abitazioni statali: molte persone nelle zone urbane come Knin o Petrinja hanno ottenuto infatti il diritto all'alloggio.
Nei confronti del lavoro realizzato dalle organizzazioni non governative locali impegnate nell'assistenza legale ed umanitaria nelle zone di rientro, è unanime la valutazione eccellente che ne viene fatta. In questo senso gode della stessa fama una sola organizzazione straniera, l' "Aiuto umanitario" norvegese con sede a Sisak, che si occupa di rientri nella zona di Banija. Sempre a Banija, ma anche a Kordune e specialmente in Slavonia occidentale, è alquanto attiva anche un'organizzazione di supporto alle persone di nazionalità serba - il "Forum democratico serbo" - con sede a Zagabria. Questa organizzazione deve i suoi risultati anche al fatto di avere sedi a Banja Luka (in Republika Srpska) e a Belgrado, attraverso le quali è in grado di offrire assistenza legale ai profughi esiliati ancora in quei paesi.
Le altre organizzazioni sono in prevalenza croate, ma molte di loro mostrano una struttura etnica mista tra gli attivisti. Il lavoro di rientro viene comunque gestito soprattutto da ong locali: l'organizzazione "HOMO" di Pola come già detto è molto attiva nella Lika, il "Comitato per i diritti umani" di Karlovac è impegnato nel Kordun, dove opera con un certo rilievo anche il "Comitato civico per i diritti umani" con sede a Zagabria e il cui presidente è Zoran Pusic. La zona di Knin è coperta soprattutto dal "Comitato dalmata per i diritti umani" e dal "Comitato dalmata di solidarietà", ambedue con sede a Spalato. Il noto "Comitato di Helsinki per i diritti umani" è impegnato in diverse aree, ma specialmente in Dalmazia, mentre il "Comitato per i diritti umani e la nonviolenza" di Osijek copre la regione della Slavonia incluse le zone di Vukovar e della Baranja. Va sottolineato che lì la situazione è un po' differente, perché il lavoro principale non è per il rientro dei serbi, che almeno parzialmente sono rimasti nelle loro abitazioni dopo la reintegrazione pacifica della Slavonia realizzata sotto il controllo delle truppe ONU, ma di assistenza legale ed umanitaria della popolazione che ha scelto di restare. Nell'area esistono altre organizzazioni che si occupano di assicurare il rientro dei profughi croati, soprattutto a Vukovar, Ilok, Baranja, che altrettanto meritano una nota di merito per il lavoro fin qui fatto.

Molte delle persone impegnate nelle attività menzionate ripetono sempre le stesse parole: il problema centrale è quello di natura economica. Nelle zone di ritorno non esistono attività produttive di rilievo, non sono stati fatti investimenti in questo senso, e non esiste alcuna prospettiva per le giovani generazioni. Per cui ad oggi, nonostante la svolta e i miglioramenti visibili, le zone di rientro sembrano destinate a rimanere terre semideserte.

Croazia: ancora reazioni al filmato sui crimini dell''Operazione Tempesta'

A Dubrovnik si discute di cooperazione transfrontaliera

Bosnia-Erzegovina: fra rientri e volontà di partire

Comitato di Helsinki

Ci sarà il ritorno? Alcuni giorni con i profughi dal Kossovo

20/11/2001 -  Anonymous User

La voglia di rientrare, la paura di farlo. Alcuni giorni passati in Serbia tra i serbi originari del Kossovo. Un racconto di Livio Vicini.

Profughi: il villaggio dove tutti sono tornati

10/11/2001 -  Anonymous User

Il caso particolare e ben augurante della cittadina di Busovaca, in Bosnia centrale, dove tutti i cittadini fuggiti a causa della guerra sono rientrati.

Bosnia-Erzegovina: fra rientri e volontà di partire

09/11/2001 -  Anonymous User

Sfollati e rifugiati serbi rientranti nella Bosnia centrale saranno assistiti da un nuovo ufficio aperto dalla Republika Srpska a Tuzla. Ma intanto il 70% dei giovani dell'entità bosniaca vorrebbe lasciare il suo paese.

Croazia-BiH: notizie sui rifugiati

18/10/2001 -  Anonymous User

I rifugiati serbi originari della Croazia hanno tempo fino al 31 dicembre per consegnare la richiesta per accedere ai programmi di ricostruzione delle proprie case in Croazia. Secondo il Governo croato questo termine ultimo deve essere rispettato essendo definitivo. L'Alto Commissariato per i Rifugiati ha ribadito che possono accedere ai diversi programmi coloro i quali risiedevano in Croazia nel 1991 e che lì possiedono un immobile. Possono accedervi inoltre anche le persone garantite da particolari contratti di affitto.
Le richieste possono essere consegnate in appositi uffici in Croazia, presso le sedi consolari e diplomatiche del Governo croato o negli uffici dell'UNHCR. Al modulo per la richiesta vanno allegati documenti che attestino le intenzioni della famiglia a risiedere nell'immobile ricostruito, che non si siano ricevuti altri aiuti e crediti per la ricostruzione dello stesso e che non si possiedano altri immobili in Croazia (iRADIO, 07.10).
Per quanto riguarda i ritorni delle minoranze interessanti notizie arrivano anche dalla Bosnia-Erzegovina. Le agenzie internazionali che si occupano di questa tematica hanno fatto sapere che, in base ai dati raccolti nell'agosto 2001, in sei mesi la percentuale dei casi risolti di reclami di ex-proprietari per ritornare in possesso di proprietà dovute abbandonare in seguito alle vicende di pulizia etnica durante la guerra è aumentata.
L'indice preso in considerazione da OSCE, OHR ed UNHCR viene calcolato in base alla percentuale di reclami accolti dai tribunali locali ed alla percentuale di proprietà ritornate effettivamente in mano ai legittimi proprietari in seguito a decisioni in tal senso degli organi giudiziari.
In generale è da notarsi un incremento dei casi risolti positivamente dell'11% in tutto il Paese. Come in passato le nuove leggi sulla proprietà, approvate su forti pressioni internazionali nell'ottobre del 1999, trovano più difficoltà ad essere implementate con successo in Republika Srpska che non in Federazione. Infatti in quest'ultima sono stati risolti il 42% dei casi di reclami su proprietà abbandonata mentre la percentuale scende al 22% per quanto riguarda la Republika Srpska.
I miglioramenti nell'implementazione delle leggi sulla proprietà sono costanti ma troppo lenti, affermano le Agenzie internazionali. Per questo propongono ulteriori emendamenti alle leggi stesse in modo da diminuire le fonti di resistenza ed attrito rispetto ad un pieno ritorno delle minoranze e degli sfollati. La maggior parte degli emendamenti riguarderanno in particolare la diminuzione dei diritti di chi ha occupato illegalmente un immobile. Solo le famiglie più vulnerabili verranno tutelate potendo rimanere nell'immobile occupato fino a quando un'alternativa credibile è disponibile.

IDPs nel sud della Serbia

11/10/2001 -  Anonymous User

The outcome of the conflict over Kosovo reversed the flood of refugees in the opposite direction. The horror the international public felt over the scale of the exodus of Kosovo Albanians and the relief generally felt upon the return of most of them to Kosovo left little room for sympathy for those who had to leave Kosovo after the Albanians returned. These people, generally termed non-Albanians, in practice mostly Serbs and Romany started leaving Kosovo as soon as the war ended. Although they have been advised to stay and promised protection by KFOR and UNMIK, the fact that (apart from some places in northern Kosovo such as the town of Mitrovica), they had to live in virtual ghettos, made many choose departure. The statistics justify this decision. Upon KFOR's arrival, in the period June 1999 - December 2000 at least 932 non-Albanians were found missing or proven kidnapped. In the year 2000 alone in Prizren 121 non-Albanians were missing; in Gnjilane 120 persons; in Pristina, the figure is 142.(1) Importantly, and unlike in the villages, Serbian violence against the Albanians was minimal in these bigger towns. Therefore the kidnappings do not seem to be the righteous revenge of the victims; rather, they are a part of a planned intimidating action with the single message: "Leave!"
Those Serbs who have left are not termed refugees but 'internally displaced persons'. But their fate is equal to or worse than the fate of those coming from Bosnia or Croatia. According to UNHCR there is a total of 211,300 registered IDPs (the Serbian authorities claim about 50% more, other humanitarian organizations mention the number of 230,000), out of which 60,000 are Roma(2), whereas the rest are mostly Serbs. This totals to more than 700,000 refugees and IDPs altogether, which makes Serbia a host to the most refugees in Europe. The urgent requirements for IDPs for this year only are over $20 million.

The city of Nis, which hosted a moderate number of refugees from Bosnia and Croatia (much fewer than Belgrade or Novi Sad) is now virtually flooded with people from Kosovo. A casual look at licence plates on cars during the rush hours shows a substantial presence of vehicles from Kosovo. The cars with plates from Pristina, Gnjilane, or Prizren themselves differ - from new Audis to battered old Yugos. And here the story of the different conditions of the IDPs begins.
The total figures for IDPs show that around 50% of the refugees have their own accommodation or live in rented flats (96,801 of the registered IDPs)(3) . In more precise numbers, according to a recent survey "most of IDP families in Serbia (37%) live in rented accommodation, 31,5% in collective centres, 24% with friends and relatives and 6,4% at home" (4). Among them, a minor proportion is very rich. The richer ones had fewer problems accommodating. These people have sold their property in Kosovo at very high prices to the Albanians, and now they live in Serbia as members of the upper class. A glance through the window as this text is being written reveals a Golf 4 and an Audi A8 with the licence plates 'Pristina'. The family also owns a comfortable five-room flat. Such examples, though relatively rare, breed contempt in many locals. This is especially so given that most of the richer newcomers were avid supporters of Milosevic's policy and senior officials of his party in Kosovo. The same policy and the same party that initially caused all the trouble. Once the trouble began - they fled, with the money. And, to make the situation worse, they retained the excessive pride of being Milosevic supporters and they still boast about it on the street.

The rest of the group living on their own are the former Kosovo Serb middle class. These people live in rented flats, and try to make ends meet every month. Their situation is not desperate - since most younger ones have found jobs here and they at least have something to eat: about 61% of Serbian IDPs work in state firms and they are on a payroll: the explanation is easy - most of them used to work in state firms in Kosovo, and upon their arrival to Serbia proper they remained officially employed. But they hardly get any pay cheques in reality, so they try to manage themselves. Nobody knows their exact number since they are reluctant to register as IDPs. But their real problem is how to fit in the new environment. They stick together, as if in clans, and they seldom mix up with the locals. The locals, on the other hand, are also reluctant to remain friends with their compatriots from the south. In downtown Nis, the once immensely popular café known as 'The Pyramid' is now rented by Serbs from Kosovo. Hardly any local ever visits the place anymore. Even more so after a recent shooting incident involving gangs formerly based at Pristina, now stationed in Nis. Distrust at the Kosovo Serbs is all-present, as they are widely (and often unfairly) seen as stern Milosevic supporters who thus contributed to the entire poverty that befell the country. Nobody seems to care - neither the international community nor their own people.
The worst is, naturally, in the camps. Most of them are located on the ends of the roads, in deserted hostels, schools and gyms, far away from the eyes of the local population. Even those nearer big cities are still quite distant from the eyes of the locals. On the outskirts of Avala mountain, near Belgrade, there is an old mountaineers' rest home turned into a camp. Its capacity is 40, but 150 people with 57 children from the Kosovo village of Suva Reka use it as a shelter. In the beginning, they were often visited by members of the Serbian Orthodox Church, Serbian Refugee Committee, even by politicians. Now, hardly anyone comes. Each of them gets a quarter of a loaf of bread and a cooked meal for lunch. For anything more, such as social aid and employment opportunity, they have to manage themselves.(5) Near Kraljevo, about 300 people were put up in an elementary school last summer, only to be literally thrown out in September, since they angered the local parents who wanted the building to be used for its intended purpose.(6) Some good ideas come from international organizations. In Kragujevac, for example, ACT (Action by Churches Together) put up greenhouses near a collective centre. They have been tilled by IDPs, and the deal was that those who worked could retain 50% of the income (about $50 a month, which is close to the average monthly salary in Serbia), whereas 50% was used to provide food to the rest of the IDPs in the camp.

In south Serbia, IDPs are sometimes settled in the places already occupied by Bosnia and Croatia refugees, provided there is some room left. Such is the case in Nis, where some are put up in old hotels 'Park' and 'Serbia'. There are also new facilities, occupied exclusively by IDPs, such as 'Sport centre' Vranje, motel 'Atina' Leskovac, motel 'Spring' Bujanovac, The New Kindergarten Bujanovac, Collective Council Zitoradja etc. When these were filled up, the newcomers were put up even in some battered roadside barracks, which had once been temporary facilities for the workers on the roads.
The condition of these people is a bit different from those from Croatia or Bosnia. On one hand, they are not technically refugees, and their original and present locations are formally in the same country. Therefore, for purely political reasons, they are treated as if they were just about to get back to Kosovo any moment, so they are denied even the right to another employment, the right 'real' refugees have.(7) As for social aid, it is practically nonexistent. Those in collective centres get poor meals daily (provided by Serbian Refugee Committee, financed by foreign NGOs), whereas those living in private arrangements get humanitarian packages monthly. The criteria for getting these have been drastically changed lately, so that today only those younger than 18 or older than 60, as well as those with the proof of disability may continue receiving those packages. The brighter side of the story of IDPs from Kosovo, especially ethnic Serbs, is their overall vitality and ability to self-organize. Contrary to, for example, many Croatia refugees in collective centres, some of whom have not stepped on the urban territory for 5 years, ex-Kosovo Serbs are well organized, loud and determined to fight for their rights. They have many associations, and they organize joint actions, especially when negotiating with the Government or foreign NGOs. Such is the Association for the Search for Missing and Kidnapped Persons from Kosovo, based in Nis.

There are many NGOs dealing with IDPs in south Serbia. The programmes are usually those of integration, such as the current ICS project (52% of ICS' funds are aimed at refugees, and 48% at IDPs). These projects are further divided into psychosocial ones, and 'economic' ones. The former deal with mental recuperation and workshop-based activities for young people, whereas the latter offer small loans for starting up business (some pilot programs currently offer small loans amounting to 1.000 DEM)(8). The Danish Refugee Council (DRC) is currently offering the 'quick impact' programme. IDPs are offered 10 chickens per family so that they could start up small poultry farms. There are too many interested, so this offer is limited to families with more than 6 members. For those intending to stay, COOPI (Cooperazione Internazionale) is offering building material. The deal is as follows: the host gets free material to finish his or her house, on condition he or she is willing to host an IDP family in the house for the next two years. This is similar to what International Rescue Committee from USA has been doing all these years. Many are apparently interested.
As for repatriation programmes, there are virtually none as yet. The rumour is that from September onwards, International Relief and Development (IRD) from USA will start 'go and see visits' similar to what UNHCR has done in Croatia lately. The idea is that IDPs should be allowed free trips to their places of origin, where they will be able to see for themselves what condition their homes are in. Some might decide to stay. However, having the overall situation in Kosovo in mind, this is still more fiction than reality.

Obviously, the condition of internally displaced persons in Serbia is not pleasant. They are neglected by their Government for political reasons, they are often scorned by their compatriots for their defiance and excessive pride, they are hated to death by Kosovo Albanians, and they seem to be at the end of UNMIK's and KFOR's priorities. For the time being, all they have is their own wit and some help of international relief organizations. We can only hope this will change soon.


Note:

1 The figures are given courtesy of Fund for Humanitarian Law, Belgrade. Complete listings with personal information are available on request.
2 According to Mr. Dejan Markovic, the Union of Roma Students, for the year 2000.
3 Figures courtesy of ICS Nis.
4 Source: International Federation of Red Cross and Red Crescent, Serbia section.
5 Data taken from the authoritative weekly "Nin".
6 Data from CNN, September 2000.
7 Swiss Agency for Development and Cooperation has recently published a booklet advising refugees and IDPs of their rights, with specific reference to the right to employment. Available on request.
8 Courtesy of Tamara, ICS Nis.

Il ritorno dei profughi in Croazia

11/10/2001 -  Anonymous User

I dati

I dati sui profughi rientrati in Croazia forniti da UNHCR e ODPR (rispettivamente, l'ufficio dell'Alto Commissariato per i Rifugiati e il Dipartimento governativo per i rifugiati e gli sfollati) parlano di circa 125 mila persone in totale. Sulla base di un'indagine compiuta tra i rappresentanti della comunità serba e tra le organizzazioni nongovernative che si occupano dei profughi rientranti o ritornati (Milorad Pupovac, Presidente del Consiglio nazionale serbo di Croazia, Jovica Vejnovic, segretario generale del Consiglio nazionale serbo - SNV e Ljubo Manojlovic, segretario generale del Forum democratico serbo) le cifre riportate sono abbastanza corrispondenti al dato formale, ma vanno prese con riserva: infatti un quarto circa dei profughi - in massima parte cittadini croati di nazionalità serba - torna soltanto per ottenere i documenti croati, vendere la proprietà e partire per altri paesi o sistemarsi nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina o talvolta nella stessa Serbia. Dunque, rispetto alle cifre presentate, il ritorno effettivo riguarda il 75% dei casi.
La maggior parte dei rientrati proviene dalla Federazione Jugoslava, soprattutto dalla Serbia. Molto minore invece è il numero di quanti arrivano dalla Bosnia ed Erzegovina, dove i rifugiati possono ancora vivere praticamente indisturbati nelle case della popolazione di nazionalità musulmana o croata. Questo fatto si spiega con le differenti politiche attuate dal nuovo governo della federazione bosniaca e dal governo della Repubblica Serba di Bosnia, caratterizzata quest'ultima da inerzia ed indifferenza. Il governo centrale bosniaco - a composizione socialdemocratica e civica - favorisce una politica del ritorno molto attiva, come mi hanno confermato anche Jadranka Milicevic ed altri dirigenti del Centro per il ritorno dei profughi di nazionalità serba e musulmana in Bosnia orientale, durante una visita a Gorazde alla fine di giugno. Le garanzie di legge sono dunque diventate realtà nelle zone sotto il controllo delle autorità centrali di Sarajevo, mentre in quelle controllate dal governo di Banja Luka ancora non c'è un ritorno rilevante. Pochissimi sono poi i profughi fuggiti che ritornano dai paesi occidentali, a parte rari casi di persone che hanno perso lo status di rifugiati e non sono riusciti a trasferirsi in Canada o Australia.

Le difficoltà del rientro

Un primo problema di rilievo collegato al ritorno sono le procedure burocratiche molto complicate e lente richieste dalle ambasciate e dagli uffici consolari croati nei paesi di rifugio, specialmente a Belgrado. Un secondo problema che rallenta il ritorno è quello delle denunce contro molti rientrati di essere criminali di guerra, denuncia che fa scattare il procedimento abituale di arresto ed il conseguente processo penale che spesso si conclude con una condanna. E' molto difficile definire il grado di fondatezza delle accuse, ma pare che oltre il 50% si basino su denunce false.
I costi del ritorno sono pagati in gran parte dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Il governo croato partecipa alla ricostruzione delle case distrutte della popolazione serba rientrante, specialmente in Slavonia orientale, ma con un finanziamento in percentuale insignificante. La ragione di questo atteggiamento è spiegata con le difficoltà finanziarie in cui si trova tutto il sistema statale. Un ulteriore problema molto grave è legato alla presenza dei profughi croati provenienti dalla Bosnia, e in misura minore anche da Vojvodina e Kosovo, che vivono nelle case dei serbi rientranti. Spesso le autorità tollerano questa occupazione delle case, e così molti profughi ritornati non possono riavere le loro proprietà e vivono in case di familiari o prese in affitto.

L'atteggiamento verso i profughi rientrati

Ci sono infine i problemi politici del contesto ambientale in cui si ritorna. Non sono stati raccolti dati precisi sull'atteggiamento della maggioranza croata verso i profughi rientranti di nazionalità serba. Ma secondo quelli disponibili si può dire che gli atteggiamenti prevalenti siano l'indifferenza, e in misura minore - ma molto più forte nelle zone del ritorno - l'avversione in quanto elemento di disturbo. Le opinioni raccolte su questo punto sono discordanti: Pupovac, durante un colloquio del 12 luglio, mi dice che il problema non sta nell'atteggiamento della popolazione croata che vive nelle zone di ritorno, ma nella passività e nella mancanza di azioni concrete da parte delle autorità statali. Al contrario per il sindaco di Vojnic Branko Eremic - membro del SDP, anch'egli profugo tra il 1995 e il 1997 - i problemi maggiori ai rientranti li creano una parte dei croati residenti nelle zone del ritorno, a loro volta spesso rifugiati da altre terre. Si tratta secondo Eremic di cittadini facilmente manipolati da parte della destra radicale croata, che credono nel HDZ e nel HSP e rifiutano la convivenza. Il futuro però sta solo nella ricostruzione della fiducia interetnica e della sicurezza, condizioni necessarie per il ritorno della vita nelle zone della ex-Krajina (Vjesnik, 6.7).
Un ragionamento simile lo fa anche il presidente del partito popolare serbo (SNS) e sindaco di Donji Lapac, Milan Djukic; per lui la convivenza è l'unica via d'uscita. I serbi hanno imparato la lezione della storia, specie di quella recente, e non c'è più spazio per l'esclusivismo nazionale e per una nuova omogeneizzazione etnica. Ma il problema più serio resta la politica del governo croato verso queste aree: non si fa niente per riattivarne l'economia e la vita sociale. E vittime di questa passività non sono soltanto i serbi, ma anche i cittadini croati del posto. Le autorità ad esempio non vogliono spiegare a questi croati che devono liberare le case serbe. Per via di tutti questi motivi non è possibile dire quanti profughi ci si può aspettare che tornino nel prossimo futuro: forse non tornerà più nessuno, conclude Djukic (sempre da Vjesnik, 6.7).

Vedi anche:

UNHCR Croazia

Gorizia oltre il confine

08/10/2001 -  Davide Sighele

Gorizia, una città sul confine che finalmente si ferma per riflettere di migranti, immigrati e dello sconfinare.

Migranti e rifugiati:preoccupazione delle associazioni italiane

04/10/2001 -  Anonymous User

E' stato convocato per venerdì 12 ottobre a Perugia un incontro per riflettere e dibattere sulle recenti proposte di legge sull'immigrazione e l'asilo. In particolare l'ICS in un documento fa sapere di ritenere il recente disegno di legge allarmante ed ispirato da una cultura dell'intolleranza e del rifiuto, con il rischio di affossare ogni concezione di società aperta e multietnica.All'inconro, che si terrà nell'ambito della marcia Perugia-Assisi, sono invitate tutte le organizzazioni e persone interessate.
L'appuntamento è per le 17.30 presso la Casa dell'Associazionismo in via Viola n. 1.

Campagna d'informazione per uscire legalmente dal Kosovo

12/09/2001 -  Anonymous User

Per prevenire l'immigrazione illegale da parte almeno da parte degli albanesi del Kosovo e soprattutto cominciare a scardinare il traffico di persone che lucra sopra, la sede di Pristina dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha indetto una campagna di informazione per tutto il Kosovo. Lo scopo è istruire gli abitanti sul modus operandi per una emigrazione legale. Secondo un recente sondaggio Oim, infatti, il 70 per cento della popolazione, non conosce le procedure per ottenere un visto valido per l'espatrio. Per il> 78 per cento invece è più facile lasciare il paese illegalmente. L'Oim quindi ha ha deciso di girare per i vari municipi di tutta la regione, organizzando degli incontri e diffondere dei "radio show" con un vademecum sui canali legali con cui raggiungere i paesi europei. La campagna punta a istruire in particolare le persone tra i 16 e i 30 anni, ovvero la fascia d'età più disposta a lasciare il paese in cerca di fortuna e quindi capaci di pagare somme esorbitanti a trafficanti e scafisti per uscire dai confini. Recentemente è stato pubblicato il rapporto sui rientri e la reintegrazione in Kosovo.

I rifugiati macedoni in Albania

09/08/2001 -  Anonymous User

Albania: rifugiati macedoni alle porte?Da Valona, Elidon Lamani.

L'escalation della violenza etnica in Macedonia, nei primi mesi del 2001 ha innescato l'ennesimo esodo di profughi secondo un meccanismo ormai tristemente usuale nella regione. I giornali albanesi del 16 marzo riportavano la notizia dei primi 25 profughi albanesi provenienti dalla Macedonia, che avevano attraversato il confine a Qafe Thane, nei pressi del lago di Ohrid. Nei giorni immediatamente successivi il numero dei profughi aumentava in modo esponenziale: 287 il 18 marzo, circa 400 il 19 marzo. Tra i profughi vi erano e vi sono soprattutto donne e bambini, ma quasi tutti continuano il loro viaggio in direzione del Kosovo.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), insieme all'Ufficio per i Rifugiati (OFR) e alle numerose organizzazioni non-governative ed associazioni albanesi presenti sul territorio, si sono immediatamente mobilitati per monitorare la situazione, valutare le capacità di ognuno ad assistere il Governo nell'eventualità di un nuovo massiccio flusso di profughi, e costituire un'unità di crisi in grado di affrontare ogni emergenza.

Unità di crisi: per evitare gli errori del passato
Secondo il responsabile dell'UNHCR in Albania - Terry Pitzner - l'unità di crisi dovrebbe lavorare in stretto coordinamento con le autorità albanesi, il cui coinvolgimento deve essere decisivo sia nella fase della pianificazione di un piano d'emergenza, che in quella della sua realizzazione sul terreno. I referenti istituzionali dell'unità di crisi a livello locale sono stati individuati nella Prefettura e nella Municipalità.L'analisi dell'esperienza drammatica vissuta durante la crisi dei rifugiati kossovari del 1999, ha offerto diversi spunti critici e occasioni di confronto. Obiettivo dell'unità di crisi è quindi ottimizzare le risorse e le capacità disponibili in loco, creare un piano di emergenza in grado di offrire adeguate risposte ad ogni possibile situazione critica, ed evitare così gli errori fatti durante la crisi del 1999, spesso dovuti all'impreparazione, ma anche al mancato coordinamento tra le forze in campo.
La filosofia che sottende tutto il piano d'intervento è quella che predilige la partecipazione della società civile locale nella gestione dell'assistenza ai rifugiati. A capo di tutto rimarrà l'Ufficio del Governo albanese per i Rifugiati in coordinamento con l'UNHCR, mentre alla guida dei settori specifici (minori, sanità, alimentazione, ecc.) vi saranno le principali organizzazioni internazionali specializzate nell'emergenza (CARE International. ICMC, CRS, OXFAM, ecc.), mentre le organizzazioni locali albanesi rivestiranno il ruolo di "implementing partner" delle attività specifiche.

Profughi: solo di passaggio per il Kosovo
Già alla fine di marzo del 2001, 400 persone avevano attraversato Qafe Thane per ritornare in Macedonia, ma i lavori di preparazione del coordinamento sono comunque andati avanti. Sono stati identificati tre settori di intervento (approvvigionamento idrico e misure igieniche, salute, servizi alla comunità) e le rispettive "lead agency" che avranno il compito di coordinarne l'organizzazione decentrata. E' stata inoltre sottolineata l'esigenza di garantire un approccio basato sulla gestione partecipata dei bisogni, attraverso un metodo di coinvolgimento democratico degli stessi rifugiati, chiamati ad esprimere una propria leadership.In ogni caso, il territorio albanese ha visto un massiccio passaggio di profughi diretti verso il Kosovo, tra i quali solo un piccolissimo numero ha chiesto lo status di rifugiato. Inoltre, i movimenti degli albanesi macedoni hanno seguito l'andamento della crisi, e sono stati in molti a rientrare non appena giungevano segnali di stabilità provenienti dalla zona di Tetovo.
Attualmente nella zona di Podragec (che abbraccia il lato ovest del lago di Ohrid, confine naturale tra Albania e Macedonia) sono solo 5 le persone che hanno lo status di rifugiati, mentre nella municipalità di Korça (sempre vicino al confine macedone, ma più a sud rispetto a Podragec) non si registra alcun caso di rifugiato ufficialmente riconosciuto come tale.

Crisi in Macedonia: la situazione dei profughi

29/06/2001 -  Anonymous User

L'alto Commissariato per i rifugiati ha dichiarato il 22 giugno scorso a Skopje di aver registrato 48.000 cittadini che dall'inizio della crisi in Macedonia hanno trovato rifugio nel Kosmet e nella Serbia del Sud. La Croce Rossa macedone ha registrato più di 30.000 persone sfollate in Macedonia. Di questi, 16.000 persone sono venute a Skopje dalle regioni intorno a Kumanovo, da Skopska Crna Gora, da Aracinovo e dai villaggi vicini. 10.000 persone si sono trasferite dai posti vicini alla città di Kumanovo, pensando che sarebbero più sicuri in città. Più di 3.000 cittadini hanno lasciato Tetovo. Fin dal inizio degli scontri, una parte della popolazione di nazionalità albanese ha lasciato la Macedonia ed è partita per Turchia, Albania ed altri paesi dell'Europa dell'ovest, ma il loro numero è ancora sconosciuto. Mentre gli Albanesi dalla Macedonia vanno in Kosmet, in Macedonia, secondo i dati ufficiali, ci sono ancora 7.000 dei loro compaesani entrati in Macedonia durante il bombardamento della NATO. Nelle famiglie, con i loro parenti e amici, ce ne sono 3.300, circa 2.000 sono accomodati in vari campi e per 1.800 non c'è informazione rispetto al loro alloggio, ma ricevono aiuti dall'UNHCR. Gli Albanesi che lasciano la Macedonia, si registrano solamente all'UNHCR, mentre i Macedoni ed i Serbi alla Croce Rossa locale.

Articolo

29/06/2001 -  Anonymous User

La portavoce del Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), a Belgrado, Maki Sinohara ha dichiarato ieri che la FRY si trova al primo posto in Europa per il numero delle persone rifugiate.
"Da queste persone circa 390.000 sono profughi dalla Bosnia ed Erzegovina e dalla Croazia, mentre 230.000 persone sono sfollati dal Kosovo. Secondo i dati più recenti, dopo la ripetuta registrazione dei profughi in FRY, il totale è 600.000 persone rifugiate e sfollate sul territorio della FRY", ha dichiarato ieri (20 giugno) la portavoce alla conferenza stampa, organizzata in occasione della Giornata mondiale dei profughi.
Ha poi aggiunto che paragonato con i dati da 1996, il numero dei profughi in FRY si è ridotto del 30%.
"Del totale delle persone registrate, il 60 % ha dichiarato che vorrebbe rimanere in FRY", ha detto la portavoce dell'UNHCR aggiungendo che solamente il 5.3% vuole ritornare a casa, mentre il 25% è ancora indeciso.
Sinohara ha poi detto che l'afflusso di profughi dalla Macedonia nella FRY si è ridotto rispetto alla settimana precedente, quando UNHCR ha registrato circa 700 persone che hanno attraversato la frontiera ogni giorno, ma ha aggiunto che l'UNHCR è pronto ad agire nel caso di un grande afflusso di profughi dai paesi di confine.
L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha fissato il 20 giugno come giorno per ricordare il coraggio, la perseveranza ed il talento delle persone rifugiate da tutto il mondo. Questo giorno è stato celebrato ieri per la prima volta.

» Fonte: © Glas

Banja Luka: i disordini si potevano evitare

08/05/2001 -  Anonymous User

Gravi disordini oggi 7 maggio, ndr a Banja Luka, la capitale della entità serba di Bosnia Erzegovina. Tutto era pronto per la prevista cerimonia per la posa della prima pietra della moschea Ferhadija, costruita nel XVI secolo durante la dominazione ottomana nella regione e rasa al suolo durante la guerra di Bosnia in quella che è stata la follia della pulizia etnica. Qui l'undici percento della popolazione era di origine musulmana. Oggi al loro posto profughi e sfollati serbi. Più di cinquantamila.
Troppo rumore per questo evento. I più importanti rappresentanti delle forze internazionali operanti nella regione e le massime autorità di Bosnia e di Repubblica Srpska erano presenti: l'ambasciatore americano Thomas Miller, il responsabile delle missione ONU Jaques Klein, il presidente dell'entità serba di Bosnia Sarovic ed il primo ministro Ivanic, il ministro degli affari esteri della Repubblica di Bosnia Erzegovina, il bosniaco Lagumdzija.
E quindi tanta gente. Bosniaci arrivati in pullmann dalla Federazione dove vivono come profughi e da dove sperano di poter rientrare nella propria città di origine, così come gli accordi Dayton sanciscono. E con loro i profughi e gli sfollati serbi, originari dalla Croazia e dal centro Bosnia. Molti di loro dovranno lasciare le abitazioni in cui hanno trovato rifugio durante questi anni di guerra e dopo guerra, per restituirle giustamente ai bosniaci che intendono rientrarvi.
Gli accordi di Dayton sanciscono che tutti i profughi e gli sfollati della guerra di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di scegliere se rientrare nella aree di origine o restare dove attualmente stanno vivendo. Ma una politica definibile perlomeno miope della comunità internazionale sta di fatto aiutando solo chi intende rientrare. Così la maggior parte di quei cinquantamila serbi di Banja Luka sono abbandonati a se stessi. Non hanno né lavoro né assistenza, e vivono con l'incubo di essere sfrattati. L'unica scelta è tornare, ma questo è un percorso difficile sia da un punto di vista pratico - ad esempio per trovare lavoro o riavere la propria abitazione - sia da un punto di vista psicologico-emotivo. C'è paura.
Gente, bosniaci e serbi, quindi stanca e sotto pressione da troppi anni di difficoltà e di traumi: la guerra, la fuga, la vita senza una casa sicura, senza il lavoro, senza i servizi di base, senza un passato e con un futuro incerto. E così, ieri, è scoppiato il peggio. "Le tensioni accumulate in questi anni sono esplose" dice Zoran Baros, giornalista e responsabile delle pubbliche relazioni nel comune di Prijedor, a cinquanta chilometri da Banja Luka, seconda città della Republika Srpska e luogo simbolo per il rientro di musulmani e croati. E' stata impedita la manifestazione con il lancio di sassi e uova: contro gli internazionali, contro i politici, contro i bosniaci.
La polizia ha reagito cercando di fermare la folla, mentre il contingente militare internazionale (lo SFOR) è stato soprattutto a guardare. Per alcune ore gli ospiti internazionali e bosniaci sono rimasti bloccati nell'edificio di cultura islamica, fino a quando il presidente della Repubblica Srpska Sarovic ed il primo ministro Ivanic in persona sono andati tra la folla per permettere ai "prigionieri" di essere liberati.
Un comportamento che esplicita la gravità di questo episodio e delle sue conseguenze sull'immagine della Republika Srpska, della Bosnia e di questa regione agli occhi della comunità internazionale. Qui c'è bisogno di pace, di sicurezza, di fiducia. C'è bisogno di investitori internazionali che credano in uno futuro di normalità per questo paese. E questo evento è un passo indietro. "Nessuno aveva bisogno di questo evento" dice la sindaca di Prijedor Nada Sevo.
Doveva essere evitato e non lo si è fatto. Chi doveva evitarlo è soprattutto la comunità internazionale, che ha quantomeno sostenuto un'iniziativa così spettacolare nella capitale serbo-bosniaca. La convivenza non si impone con la forza ma va costruita "con la politiche dei piccoli passi", come dice Sead Jakupovic responsabile della associazione "per il ritorno e il rinnovamento di Prijedor 98".
Poteva essere evitato. Lo dimostra la realtà di Prijedor, città con cui da anni ormai coopera un coordinamento di associazioni ed enti locali del Trentino. Qui un quinto della popolazione non serba cacciata durante la guerra è già rientrato. E a Kozarac, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, sono state ricostruite senza incidenti ben quattro moschee. Il luogo scelto si è dimostrato intelligente, perché non troppo vicino al centro di questa municipalità che in passato è stata triste simbolo della pulizia etnica. Anche i tempi sono stati quelli giusti, perché la ricostruzione è iniziata dopo oltre un anno dall'inizio del processo di rientro dei musulmani. "Se l'obiettivo è il rientro", dice ancora Sead Jakupovic, "è importante porre attenzione ai sentimenti della gente, dare agli amimi il tempo di calmarsi".
"Creare occasione di incontro tra chi rientra e chi vive a Prijedor, creare luoghi di discussione pubblica, coinvolgendo i rappresentanti politici locali, i leader religiosi, gli intellettuali della comunità, le associazioni, la scuola. Fare informazione corretta." Ecco come promuovere la convivenza secondo le associazioni di donne di Prijedor riunitesi proprio in questi giorni per programmare le attività di sostegno al rientro in collaborazione con la Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor, sostenuta dalla Comunità Trentina, dalla città spagnola di Cordoba e dal Consiglio d'Europa.
Chi ora paga la scelta affrettata compiuta dalla comunità internazionale a Banja Luka sono tutti i cittadini che sperano in un futuro di convivenza: i bosniaci, che ora devono relazionarsi a questo ulteriore trauma; i serbi, che si sono macchiati di un ulteriore "crimine" agli occhi del mondo.
Qui in Bosnia Erzegovina vivono persone. Cittadini che vogliono pace e futuro. Uomini e donne che stanno provando a vivere la propria esistenza. La strofa di una canzone recita: "non so perché né per cosa né come ma sono stanco". C'è bisogno di serietà e di intelligenza. Di una solidarietà matura.




Da Prijedor, a 300 chilometri dai confine dell'Unione Europea
Annalisa Tomasi, delegata della Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
© Osservatorio sui Balcani;