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Un quadro delle trasformazioni del finanziamento alla politica italiana, dall'introduzione del finanziamento pubblico diretto ai partiti nel 1974 alla sua abolizione e alla regolamentazione della trasparenza negli ultimi anni

12/11/2019 -  Daniela R. Piccio*

Dare conto delle trasformazioni del finanziamento alla politica italiana non è impresa semplice, specie considerato il fatto che siamo tra i paesi in Europa che hanno modificato più frequentemente la normativa in materia. Si pensi che solo negli ultimi quindici anni, l’Italia ha adottato otto leggi di riforma sul finanziamento ai partiti politici, mentre è rimasta ancora inattuata la previsione di un testo unico in cui riunire e coordinare le norme vigenti.

Provando a semplificare e cercando di individuare quali sono gli snodi normativi che hanno più significativamente impattato le modalità attraverso le quali gli attori politici sono finanziati nel nostro paese e la quantità di risorse economiche effettivamente a loro disposizione, ci soffermeremo su due momenti di passaggio principali. Il primo è definito dall’introduzione del finanziamento pubblico diretto ai partiti, con la legge 195/1974, a partire dalla quale (e in seguito all’adozione di ulteriori provvedimenti di riforma), lo Stato sarebbe diventato la principale fonte di sostentamento dei partiti politici italiani andando progressivamente prima a integrare fino poi a sostituirsi dal punto di vista del quantitativo di risorse a forme di autosostentamento e a finanziamenti di tipo privato. La normativa sul finanziamento introdotta nel 1974 non fissava requisiti vincolanti ai quali i partiti avrebbero dovuto ispirarsi né regolamentava i loro assetti organizzativi interni. A questo vanno aggiunte l’assenza di un affidabile sistema di controlli preposti alla salvaguardia della legalità delle entrate dei partiti e misure di trasparenza a dir poco limitate. Nel complesso, in questa prima fase, il partito politico è stato opportunamente descritto come un “principe indisciplinato”, che beneficia di privilegi senza dover restituire nulla in cambio.
L’esito referendario del 1993, come noto, non cambiò la sostanza delle cose. Nonostante l’abolizione del finanziamento diretto per le spese ordinarie, le disposizioni introdotte a partire da quell’anno si inseriscono in un contesto di continuità con la fase precedente in particolare per quanto riguarda l’incremento dell’ammontare del finanziamento pubblico e il sistema di controlli ancora assai lacunoso.

A partire dal 2008 il legislatore italiano attua invece un significativo cambio di passo. Entreranno infatti in vigore a partire da quest’anno correttivi legislativi volti a ridurre l’ammontare del rimborso per le campagne elettorali, che culmineranno con due riforme radicali della normativa: la prima, introdotta con la legge 96/2012 ha dimezzato l’ammontare complessivo dei contributi pubblici destinato ai partiti politici, mentre la seconda, la legge 12/2014, ha azzerato ogni forma di finanziamento pubblico diretto, restando i partiti destinatari di sole forme di finanziamento pubblico indiretto. La figura riportata qui a seguire mostra, a titolo esemplificativo, quali sono stati gli effetti della decurtazione del finanziamento pubblico sulle entrate del Partito Democratico precisamente in questo ultimo decennio. In seguito al taglio dei rimborsi per le spese elettorali, divenuto effettivo a partire dall’anno 2017, rimangono come entrate derivanti dal finanziamento pubblico (indiretto) solo i proventi della destinazione volontaria del 2x1000 IRPEF, di portata considerevolmente ridotta se paragonata alle entrate degli anni precedenti.

 

Accanto alla decurtazione delle entrate provenienti da fonti di finanziamento pubblico, hanno trovato per la prima volta attuazione proprio all’interno delle due suddette leggi di riforma le prime disposizioni riguardanti la disciplina giuridica del fenomeno partitico. I partiti rimangono associazioni private non riconosciute disciplinate dal Codice Civile e mantengono pertanto gran parte della loro autonomia organizzativa ma si sono dovuti dotare di statuti redatti per atto pubblico conformi a “principi democratici di vita interna” i cui contenuti minimi sono espressamente esplicitati dalla normativa. Devono inoltre sottoporre i bilanci dei partiti al giudizio di società di revisione esterna, pubblicare i documenti contabili sul sito proprio istituzionale e sottostare al controllo di un nuovo organo di controllo preposto alla rendicontazione annuale, la ‘Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici’.

Che il legislatore italiano abbia introdotto un sistema di regole orientate a disciplinare l’organizzazione interna dei partiti politici (seppur in modo ancora poco penetrante) e che questi ultimi abbiano dovuto rinunciare alla riservatezza della loro gestione economica, rendicontando i loro bilanci finanziari ad autorità competenti e rendendo accessibili al pubblico le loro principali fonti in entrata e in uscita proprio quando si è andati a decurtare il finanziamento pubblico, è apparso come un fatto paradossale a molti. In effetti, nelle esperienze di altri paesi europei le ingerenze rispetto all’autonomia organizzativa dei partiti politici da parte dello Stato hanno trovato giustificazione nell’introduzione del finanziamento pubblico e non certamente nella sua abolizione. Nel contesto italiano, invece, invertendo la rotta rispetto alle posizioni storicamente reticenti rispetto all’introduzione di una disciplina dell’ordinamento interno dei partiti politici, il “principe”, ormai screditato e impoverito, sembra ora doversi orientare all’interno di un’ambiente notevolmente più regolamentato.

*Università degli Studi di Torino

 

 

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto ESVEI, co-finanziato da Open Society Institute in cooperazione con OSIFE/Open Society Foundations. La responsabilità dei contenuti di questa pubblicazione è esclusivamente di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. 


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