Il ritorno di Filip Latinovicz

 

È nelle librerie la terza edizione italiana, pubblicata dalla casa editrice Bottega Errante, di "Il ritorno di Filip Latinovicz" di Miroslav Krleža. Un libro in cui si pensa per immagini. Recensione

06/06/2022 -  Anna Sofia Smorlesi

Dopo due traduzioni che risalgono ai passati decenni (Studio Tesi, 1983; Zandonai, 2009) è stata recentemente pubblicata la terza edizione italiana del capolavoro di Miroslav Krleža Il ritorno di Filip Latinovicz, uscito in originale nel 1932. Questa nuova versione del romanzo (Bottega Errante 2021) è frutto di una collaborazione, quella tra Silvio Ferrari, il traduttore ufficiale di Krleža in italiano, e la studiosa Marija Bradaš.

In copertina l’ormai famoso giudizio di Sartre sul romanzo di Miroslav Krleža: “Il suo Latinovicz è un vero romanzo esistenzialista, che lei ha scritto prima e meglio di me”. Queste parole sarebbero state indirizzate a Miroslav Krleža dal filosofo francese durante una conferenza a Zagabria nel 1960, e l’autorevolezza del suo ruolo nel sistema intellettuale dell’epoca ha giustamente favorito l’interpretazione di quest’opera come ‘romanzo esistenziale’, anche grazie allo spazio che l’autore riserva alle riflessioni sulla morte, sul suicidio, e sull’inutilità dell’esistenza.

Il ritorno di Filip Latinovicz 
di Miroslav Krleza (Autore)
Marija Bradas (Curatore)
Silvio Ferrari (Traduttore)
Bottega Errante Edizioni, 2021

Questo parallelismo con l’esistenzialismo di Sartre viene posto in evidenza in tutte le edizioni italiane, ma la complessità dell’opera di Krleža non si esaurisce nel confronto con il filosofo francese; una lettura ‘vergine’ rivela altre possibilità di analisi, e consente di riattribuire allo scrittore croato una posizione di sorprendente unicità nel contesto della narrativa tra le due guerre.

Krleža scrive questo romanzo dopo il ritorno da Vienna, dove ammira Bruegel e Schiele, e dopo aver scritto un saggio su Grosz, del quale viene allestita una mostra a Zagabria proprio nel 1932. Da queste esperienze scaturisce un’interessante corrispondenza tra lo scrittore di finzione letteraria e lo scrittore di saggi, che ci aiuta a comprendere la scelta di incentrare il proprio romanzo su un pittore, un artista della visione, e non della filologia storica, come il protagonista de La Nausea di Sartre.

Filip, di ritorno da Parigi, giunge alla stazione di Kaptol all’alba, nello stesso momento in cui l’aveva lasciata ventitré anni prima. La visione dei luoghi della propria infanzia scatena una crisi identitaria legata all’impossibilità di riconoscere la tomba del padre: addirittura pensa di essere figlio del canonico Lovro, poiché la madre Regina non gli ha mai svelato il mistero della sua nascita. La crisi non riguarda solo la sua identità, ma anche la sua creatività: “I colori, questa sorgente viva delle sue emozioni più calde, avevano cominciato ad ingrigire ai suoi occhi”. La narrazione è sviluppata attraverso l’incontro del protagonista con vari personaggi, tutti uniti dal fil rouge dell’ambiguo rapporto con la madre, il cui nodo verrà sciolto alla fine del libro, rapporto al quale si intreccia la relazione con una donna passionale e spregiudicata, che subirà un tragico destino.

Tutto il romanzo è disseminato di riferimenti figurativi, che danno prova dell’eterogenea cultura artistica di Krleža: nella vecchia casa dove Filip aveva trascorso l’infanzia ci sono vecchie incisioni e litografie ritagliate dalle riviste; nella testa di Filip, quando pensa alla città, campeggiano le visioni infernali di Hieronymus Bosch o di Bruegel; a casa del prefetto di prima classe Silvije Liepach, borioso compagno della madre, ci sono un quadro di Palma il Vecchio, e una riproduzione di un’opera di Gyula Benczur; nell’appartamento della giovane Ksenija Bobočka Ráday domina un’opera di Hans Makart. È proprio a Bobočka che Filip confida il suo grande desiderio di voler dipingere la figura di Cristo come “un nudo titano michelangiolesco, corazzato, marmoreo”. Quest’immagine nasce nel protagonista dopo l’ebrezza della notte di San Rocco, animata da una festa popolare che, ancora con un riferimento a Michelangelo, egli vorrebbe dipingere come una “massa di trombe, una massa di luci, una massa di colori, come sulle pareti della Sistina”. Nel corso di una discussione con lo spavaldo Sergej Kyriales, emblema del perbenismo borghese, che considera l’arte semplice espressione della fisicità corporea, sono le opere di Rembrandt, Ronda di notte e L’incontro di Emmaus, che Filip utilizza per dimostrare come dall’opera d’arte irradi un magnetismo che nulla condivide con la natura materiale della tecnica pittorica.

Filip cerca di rendere animato qualsiasi elemento, ricordo o contingenza con vivide descrizioni che appaiono come vere e proprie ecfrasi e con riferimenti alla propria cultura visiva, in una rutilante germinazione di immagini: sopra il carro funebre di un funerale ebraico ondeggia lo striscione azzurro pastello di una réclame di latte sterilizzato, in quello che sembra quasi un fotomontaggio dadaista degli anni ’30. In accordo con questa germinazione visiva, la scrittura di Krleža procede con ritmo incalzante, apparentemente privo di logica, con una sintassi complessa, talvolta spezzata, talvolta a spirale, ma estremamente avvolgente, con un lessico ‘meticcio’ metafora dello sradicamento del protagonista, che prende avvio dall’ambiguo rapporto con la madre.

Anche la nozione di tempo che ritroviamo in Filip Latinovicz non sembra confrontabile con la linearità del diario che Antoine accuratamente redige ne La nausea: il tempo di Krleža è un tempo circolare, dove passato presente e futuro rifluiscono, quasi senza soluzione di continuità, in una spirale che include l’esperienza nell’Europa ‘civilizzata’ e l’immersione nella Pannonia ‘barbarica’, in un confronto continuo tra Occidente e Oriente che dà voce ad uno dei motivi peculiari della letteratura croata.

Infine, dobbiamo osservare come Filip individui il proprio fallimento nell’impossibilità, per un artista, di essere organico alla società senza subirne, allo stesso tempo, le limitazioni: un tema che era molto dibattuto all’interno del movimento comunista nei primi anni ’30 dagli studiosi di estetica, che si chiedevano inquieti a che cosa dovesse servire l’arte. Krleža nel ’33 scrive un saggio, tradotto in italiano con il titolo di Bellezza, arte, e tendenza politica, dove si occupa anche della questione della creatività e dell’espressione artistica, che dovrebbero essere totalmente scevre da qualsiasi ideologia. Come ha acutamente osservato Silvio Ferrari, Krleža cerca un terzo percorso tra l’inadeguatezza dell’idealismo borghese e l’opportunismo del materialismo volgare.

In collaborazione con Venezia legge i Balcani , presentiamo da oggi una serie di recensioni di opere letterarie di autori serbi, croati e bosniaci, classici o contemporanei. Gli articoli sono frutto del laboratorio di scrittura di recensioni tenuto a Ca’ Foscari dalla giornalista ed editor Cecilia Zecchinelli.


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