Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franjo Tuđman durante gli Accordi di Dayton

Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franjo Tuđman durante gli Accordi di Dayton (foto dominio pubblico)

Ricorre in questo periodo il venticinquennale dell'Accordo di Dayton con il quale si pose fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. Quell'accordo fu un successo? Secondo alcuni analisti sì, ha evitato per questo quarto di secolo che ci fosse la guerra. Ciò non significa però che la Bosnia stessa sia un paese di successo

23/11/2020 -  Elvira Jukić-Mujkić Sarajevo

L’accordo di pace che mise fine alla guerra in Bosnia Erzegovina 25 anni fa ancora oggi viene considerato come un successo della comunità internazionale. Quanto la Bosnia Erzegovina di oggi possa essere considerata un paese di successo è tutta un’altra questione, piuttosto complessa. Se da un lato le posizioni delle parti coinvolte nel conflitto degli anni Novanta su alcune questioni storiche e politiche chiave non sono cambiate considerevolmente negli ultimi venticinque anni, dall’altro lato il carattere e l’intensità della presenza degli attori internazionali in Bosnia Erzegovina nel frattempo sono cambiati, così come è cambiata, per molti versi, anche la situazione negli Stati Uniti, in Europa e anche nella stessa Bosnia Erzegovina e nei paesi vicini.

L’Accordo quadro generale per la pace in Bosnia Erzegovina fu raggiunto il 21 novembre 1995 nella base militare di Wright-Patterson, in Ohio, e fu ufficialmente firmato il 14 dicembre a Parigi. L’allora presidente della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegović, e i suoi omologhi croato e serbo, Franjo Tuđman e Slobodan Milošević, alla presenza dell’allora presidente statunitense Bill Clinton e di altri 50 leader mondiali, firmarono il documento che sancì l’inizio della fine del conflitto durato tre anni e mezzo.

La Bosnia Erzegovina è ancora oggi un importante oggetto di studio che attira l’interesse di politologi, sociologi e altri scienziati sociali focalizzati sui temi legati ai conflitti, alla giustizia di transizione e alle relazioni internazionali. Tuttavia, molti problemi che ostacolano il progresso della Bosnia Erzegovina restano irrisolti per mancanza di volontà politica.

Nel frattempo, per centinaia di migliaia di cittadini bosniaco-erzegovesi la Bosnia Erzegovina è diventata un luogo tutt’altro che piacevole in cui vivere.

Serve un cambio di prospettiva

Le posizioni dei rappresentanti delle tre parti contraenti degli Accordi di Dayton, cioè dei tre principali gruppi etno-nazionali presenti in Bosnia Erzegovina, non sono sostanzialmente cambiate negli ultimi venticinque anni. Ciò che è cambiato sono i mezzi usati dai leader politici per raggiungere i loro scopi. L’ostruzionismo e il condizionamento politico, una retorica incendiaria e nazionalista, l’insistenza sulle divisioni sono alcuni dei mezzi di lotta a cui oggi ricorrono i rappresentanti del potere politico in Bosnia Erzegovina.

La funzionalità della Bosnia Erzegovina e la qualità della vita dei suoi cittadini non sono questioni prioritarie per la maggior parte di quelli che sono alla guida delle istituzioni statali, anche a livello locale. La campagna elettorale per le elezioni amministrative tenutasi lo scorso 15 novembre è stata contrassegnata dalla promozione delle politiche che guardano al passato, dagli inviti all’unità delle comunità etno-nazionali e dalla rievocazione delle divisioni belliche, nonché dalla tendenza di molti candidati alle elezioni a ricordare il loro contributo eroico alla difesa del proprio popolo.

“La Bosnia Erzegovina è un paese consociativo con un sistema di governo molto decentrato. I nazionalisti ignorano la generale tendenza al decentramento, negando anche alcuni vantaggi della diversificazione del potere. I cittadini [bosniaco-erzegovesi] possono soddisfare i loro interessi, almeno in teoria, all’interno delle loro comunità locali, cioè potrebbero soddisfarli se lo stato funzionasse. L’Italia, la Spagna e la Gran Bretagna – pur essendo formalmente democrazie consociative – hanno trasferito notevoli poteri ai livelli di governo inferiori. In Bosnia Erzegovina si parla solo di unificazione (i nazionalisti bosgnacchi) o di divisione (i nazionalisti serbi, a cui sempre più spesso si uniscono quelli croati). Nessuno parla dei vantaggi del decentramento di alcune funzioni di governo né della necessità di ricentralizzare alcuni poteri. Manca un dibattito razionale, mentre sovrabbondano le passioni”, afferma Neven Anđelić, docente di relazioni interazionali e diritti umani alla Regent’s University di Londra.

Un dibattito razionale è proprio quello di cui c’è bisogno per assicurare una migliore qualità di vita ai cittadini della Bosnia Erzegovina, dove è ancora in corso un processo di normalizzazione post-bellica, sorvegliato dalla comunità internazionale, mentre mancano un sistema e un dialogo politico maturo.

“La divergenza di opinioni, come ad esempio quella che si era verificata negli anni Novanta, non è necessariamente insuperabile. [I leader politici] cambiano le loro posizioni, ma con esse cambiano anche gli argomenti di cui parlano. Quindi, non vi è alcuna continuità dei principi e degli ideali che sovrastino gli interessi particolaristici di ogni gruppo [ento-nazionale]”, spiega Jasmin Hasić, dottore in scienze politiche e uno dei curatori del libro “Vanjska politika Bosne i Hercegovine nakon nezavisnosti” [La politica estera della Bosnia Erzegovina dopo l’indipendenza].

“Ed è per questo che [i politici] non sono in grado di realizzare riforme istituzionali con una velocità adeguata, è per questo che manca la solidarietà transgenerazionale, per cui anche i giovani che non hanno partecipato alla formazione delle idee e delle posizioni [dominanti] negli anni Novanta continuano la lotta di quelli che hanno partecipato a quegli eventi”, aggiunge Hasić.

Le circostanze politiche e sociali in Croazia e in Serbia sono per molti versi cambiate rispetto al 1995, anni in cui furono firmati gli Accordi di Dayton, e oggi la Croazia e la Serbia hanno altre priorità. Negli ultimi 25 anni in Bosnia Erzegovina sono cresciute le nuove generazioni nate in tempo di pace, sono state adottate diverse politiche volte a favorire l’integrazione euro-atlantica del paese e sono apparentemente cambiate le relazioni tra i paesi dei Balcani occidentali e le potenze mondiali, ma il miglioramento della situazione generale in Bosnia Erzegovina è lento e molte persone hanno deciso di lasciare il paese.

Interessi internazionali

Nel corso degli anni l’intensità della presenza degli attori internazionali in Bosnia Erzegovina è cambiata ed è progressivamente diminuita. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante in Bosnia Erzegovina nell’immediato dopoguerra, per poi lasciare spazio all’Unione europea e agli altri attori internazionali.

“È chiaro che il principale attore internazionale [in Bosnia Erzegovina] è l’Unione europea che ha raggiunto certi risultati nella regione, ma ha perso rilevanza rispetto ad altri attori [internazionali]. Ci sono vecchi e nuovi attori: ad esempio la Russia è stata presente, in una certa misura, [in Bosnia Erzegovina], e da qualche tempo è presente anche la Cina. Poi ci sono gli Stati Uniti che per molto tempo sono stati un attore cruciale in Bosnia Erzegovina. Oggi gli USA sembrano di nuovo dimostrare un maggiore interesse per la Bosnia Erzegovina, ma non credo che possano diventare un attore cruciale in grado di indicare alla Bosnia quale strada intraprendere. Penso che ci sia un’intesa [tra gli Stati Uniti e l’UE], perché la Bosnia fa parte dell’Europa, si trova in Europa, e l’UE dovrebbe diventare un attore chiave capace di spingere la Bosnia verso la strada che quest’ultima desidera intraprendere. Vi è anche la Gran Bretagna che finora si è dimostrata piuttosto coerente con la posizione dell’UE”, afferma Jessie Barton Hronešová, dottoranda in scienze politiche e ricercatrice presso l’Università di Oxford.

La Bosnia Erzegovina non rappresenta più una minaccia per la sicurezza, nel senso che non c’è il rischio di una nuova guerra o di una nuova ondata di rifugiati, e questo aspetto – secondo molti analisti – è ciò che conta di più per gli Stati Uniti e per l’UE, che quindi non sentono la necessità di impegnarsi più attivamente per favorire i cambiamenti in un paese dei Balcani occidentali che ha intrapreso la strada delle riforme e dell’integrazione europea.

Tuttavia, negli ultimi anni gli Stati Uniti, l’UE e la Gran Bretagna sembrano aver focalizzato i loro sforzi sul rafforzamento della pubblica amministrazione in Bosnia Erzegovina, sul tentativo di imporre alcuni principi inerenti allo stato di diritto, sulla promozione dell’idea di uguaglianza e dei diritti delle minoranze e sull’insistenza sull’importanza di elezioni eque e sulla lotta alla corruzione. Questo dimostra che la Bosnia Erzegovina non è lasciata solo nelle mani dei leader politici locali.

Oltre ai governi di diversi paesi, anche molti scienziati si interessano alla Bosnia Erzegovina. Secondo Jessie Barton Hronešová, l’interesse degli scienziati deriva dal fatto che quello della Bosnia Erzegovina è un caso emblematico di come porre fine a una guerra.

“La Bosnia ancora oggi è oggetto di studi comparati in quanto l’esempio di un efficace processo di costruzione della pace. So che alle persone che vivono in Bosnia può sembrare strano che quello bosniaco sia considerato come un caso di successo per quanto riguarda la costruzione della pace, ma è davvero così. Se guardiamo agli altri paesi, come il Libano o alcuni stati post-sovietici, il caso della Bosnia Erzegovina è un successo per quanto riguarda il mantenimento della pace, che dura ormai da anni, pur all’interno di una democrazia disfunzionale, e il paese è tornato a una certa normalità. Ovviamente, la situazione economica [del paese] è un’altra questione, il livello di corruzione è un’altra questione, ma la Bosnia viene ancora considerata come un caso di successo”, spiega Barton Hronešová.

Ricordando gli anni Novanta, Neven Anđelić spiega che in quel periodo ci fu un gran bisogno di pubblicare diversi studi sulla Bosnia, sulla Jugoslavia e sui Balcani, e il risultato fu caotico, apparvero anche alcune pubblicazioni inopportune, ma oggi la situazione è diversa perché ci sono molti progetti istituzionali e alcuni autori locali sono riusciti a imporsi sul mercato mondiale dell’editoria scientifica.

“La Bosnia Erzegovina come modello di pace, una società post-conflittuale, un intervento internazionale a basso rischio per la sicurezza, per questi temi la Bosnia rappresenta un ottimo caso di studio, partendo dal quale si cercano soluzioni [per risolvere i conflitti] in altre parti del mondo. Anche Joe Biden nel 2007 aveva citato il caso della Bosnia Erzegovina come un possibile modello per l’Iraq”, spiega Anđelić.

Emigrazione

Le statistiche dicono che tra il 2013 e il 2019 dalla Bosnia Erzegovina sono emigrate circa 530mila persone, e secondo alcune stime attualmente la Bosnia Erzegovina conta meno di 3 milioni di abitanti. Di fronte alla pessima situazione economica, la corruzione, le politiche etno-nazionali e la mancanza di prospettive, negli ultimi anni intere famiglie hanno deciso di lasciare il paese, e a partire sono soprattutto le persone giovani e istruite.

“Questa emigrazione dei giovani è un tema di cui parlo malvolentieri perché non vedo più alcuna ricetta, alcun concetto teorico che potrei usare per spiegare a me stesso questa situazione. L’unica cosa che posso dire è che è una situazione triste, un fenomeno che avrà ripercussioni anche sulla situazione demografica, sull’economia, sull’ambiente e su altre cose che non teniamo in considerazione quando parliamo dell’emigrazione dei giovani”, afferma Jasmin Hasić, che ormai da anni è direttore di un’organizzazione non governativa dedicata ai giovani denominata “Humanity in Action”.

“È inevitabile che i giovani se ne vadano, che cerchino una vita migliore, è una cosa naturale. L’emigrazione c’è sempre stata, anche durante l’epoca jugoslava, non è certo un fenomeno nuovo, ma il nostro paese non può sopportare tutte queste migrazioni. Potremmo permetterci che i giovani emigrino se trovassimo un modo per compensare tale perdita, ma al momento non siamo in grado di farlo, perché il tasso di natalità è molto basso, ma possiamo impegnarci ad esempio per promuovere la migrazione circolare. Qui si parla solo di estremi: tenere i giovani nel paese o lasciarli andare, ma non si prendono in considerazione le vie di mezzo”, spiega Hasić, concludendo che le conseguenze dell’emigrazione di massa dei cittadini bosniaco-erzegovesi devono ancora arrivare.

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