Sarajevo 1996, una bambina con lo sguardo triste tiene in braccio una bambola senza capelli, sullo sfondo la città in macerie - foto © Mario Boccia

Sarajevo 1996 foto © Mario Boccia

Il 18 novembre 1990 in Bosnia Erzegovina si tennero le prime elezioni democratiche dopo la Seconda guerra mondiale. Saranno anche le ultime, prima della dissoluzione dalla Jugoslavia. Lo scrittore Božidar Stanišić ripercorre quei giorni, fatidici per le sorti della Bosnia Erzegovina

18/11/2020 -  Božidar Stanišić

Comincio ricordando brevemente che in Bosnia Erzegovina i partiti di stampo etno-nazionale iniziarono ad assumere una concreta rilevanza politica durante la primavera, l’estate e l’autunno del 1990. Prima vennero costituite alcune sezioni locali dell’Unione democratica croata (HDZ) sulla scia di quanto stava accadendo in Croazia (la filiale bosniaca dell’HDZ fu ufficialmente fondata nell’agosto del 1990); poi nel maggio 1990 fu fondato il Partito di azione democratica (SDA) e nel luglio dello stesso anno il Partito democratico serbo (SDS). La Lega dei comunisti della Bosnia Erzegovina si trasformò in Partito socialdemocratico. L’allora premier della Jugoslavia Ante Marković – all’epoca l’unico leader politico ad avere un chiaro programma economico e a proporre soluzioni nonviolente alle dispute tra Belgrado, Zagabria e Lubiana – fondò l’Unione delle forze riformiste di Jugoslavia (SRSJ).

Sostengo tuttora che l’unico obiettivo dei tre partiti etno-nazionali (HDZ, SDA e SDS) era quello di rovesciare il socialismo e il sistema monopartitico. I loro programmi? Una pura retorica focalizzata sul futuro del paese; un continuo lamentarsi dei presunti pericoli a cui sarebbero stati esposti l’identità etnica e i valori religiosi e culturali e bla bla bla… (ai lettori sospettosi di questa mole di ricordi dell’anno 1990, un anno fatidico soprattutto per la Bosnia Erzegovina, dico che non sono mai stato membro dell’unico Partito della Jugoslavia, cioè della Lega dei comunisti).

Primavera, estate e autunno del 1990

Ormai da molto tempo ho l’impressione che i bosniaco-erzegovesi, a prescindere dal fatto che ancora vivano o che siano sparsi per il mondo, ricordino malvolentieri la primavera, l’estate e l’autunno di quel fatidico 1990. Lo dico sulla base della mia esperienza personale, senza però voler mettere in dubbio le esperienze altrui. Ritengo che la memoria selettiva di molti bosniaco-erzegovesi abbia un denominatore comune: la disillusione nei confronti dei propri cari e l’incredulità, mai sopita, riguardo al fatto che alle prime elezioni democratiche tenutesi nel novembre del 1990 la stragrande maggioranza dei cittadini della Bosnia Erzegovina fosse caduta nella trappola del nazionalismo e dello sciovinismo, aprendo così la strada alle divisioni etniche, culturali e linguistiche.

Molto tempo fa, in una città della Germania settentrionale provai a parlare di questo tema con un mio connazionale, il quale reagì come se si fosse scottato. “Ormai da tempo ho chiuso quel capitolo”, mi disse. Avevo sentito affermazioni simili anche a Milano, Zagabria, Lugano, Maribor, Klagenfurt, Subotica, Roma, Sarajevo, Praga, Fiume, Strasburgo, Doboj, Lubiana, Nancy… Uno dei miei interlocutori mi rispose laconicamente: “Loro hanno vinto, noi abbiamo perso…”. Un altro mi disse: “Spettava forse a me colmare le lacune della democrazia? È forse colpa di noi due se il voto di un essere pensante non vale cento o mille voti di quei nostri [concittadini] irragionevoli? Con chi abbiamo convissuto? Perché non li abbiamo riconosciuti prima del 1990?”

(Una volta messa in moto, la Storia avanza a passo accelerato. Quando prese il via questo processo nel caso della dissoluzione [ma anche della creazione] della Jugoslavia? Lascio agli storici, quelli seri, il compito di risolvere questo dilemma. A dire il vero, gli storici seri sono pochi, ma questo non è un problema mio né vostro. Tuttavia, questo ricordo è, in un certo senso, anche la mia risposta a tutti gli pseudo-storici e analisti geopolitici nella regione dell’ex Jugoslavia, in Italia e in Europa, accomunati dalla tendenza a menzionare solo en passant l’esito delle elezioni tenutesi in Bosnia Erzegovina in quell’ormai lontano novembre 1990. Tutti loro hanno sminuito l’importanza di quelle elezioni, che di fatto gettarono le basi delle future divisioni, belliche e post-belliche. Per non parlare degli orrori della guerra – non c’è guerra più terrificante di quella fratricida. Questo ricordo è anche una risposta a tutti quegli italiani con cui, a partire dal 1992, avevo partecipato a numerose conferenze “sul tema”, e soprattutto a quei militanti che, dopo lo scoppio della guerra in Bosnia, non vollero discutere di nessun altro argomento che della guerra, e non vogliono farlo nemmeno oggi. Proprio così, come se la guerra fosse caduta dal cielo, come una banana fradicia. Una cosa non voluta, che però cade direttamente nel piatto, per non usare un’espressione più volgare.)

In quel lontano 1990, a dare ritmo alla marcia della Storia furono le parole caratterizzanti le tre demagogie di stampo etnico.

All’epoca ero , vivevo in una città bosniaca. Ascoltavo, con queste stesse orecchie, quelli che tenevano discorsi ai comizi dei vari partiti politici che si svolgevano sempre all’aperto. (Chissà perché non si era mai abbattuta una pioggia durante uno di questi comizi. Nemmeno un fulmine, né un tuono!) In quei mesi, le parole, perlopiù slogan, che uscivano dagli altoparlanti con il volume al massimo, giungevano fino al balcone del mio appartamento.

In quel periodo tutti e tre i partiti etno-nazionali si scagliarono contro il comunismo. La parola komunjare [termine spregiativo per indicare i comunisti] riecheggiava ovunque. Venivano invocate “democrazia” e “libertà”. Quelli che avevano combattuto contro il fascismo venivano bollati come partizanija [spregiativo di partigiani] e come asserviti al totalitarismo. Le persone presenti ai comizi, vere e proprie folle, spesso applaudivano incitate dagli organizzatori. Riecheggiava la frase: “Basta, andatevene!”, accompagnata da uno slogan che ancora oggi trovo molto curioso: “Siamo arrivati noi”. Noi – quelli che da un giorno all’altro divennero anti-comunisti e anti-partigiani di professione. Conoscevo la maggior parte di quelli che tenevano discorsi ai comizi – bosgnacchi, croati o serbi che fossero – , tra i quali ve n’erano anche alcuni ex membri della Lega dei comunisti. Andava di moda anche lo slogan che prometteva che la Bosnia sarebbe diventata la Svizzera dei Balcani. Bastava far cadere il comunismo!

Anche nei luoghi di lavoro si parlava di politica. Durante una di queste conversazioni affermai che, secondo me, nessuno, tranne il partito di Ante Marković e l’SDP, sarebbe stato in grado di imporsi seriamente su una scena politica sempre più infuocata e di togliere le castagne dal fuoco. Uno dei miei colleghi mi chiese ironicamente se avessi deciso all’improvviso di unirmi agli “ex”. Già allora mi era chiaro che ogni discussione su questo tema sarebbe stata inutile. Tuttavia, chiesi al mio collega quale fosse il valore della memoria per qualcuno che viveva solo nel presente. Fino a poco tempo prima era uno di quelli che sventolavano la tessera rossa, invocando gli ideali dei titoismo, poi si era schierato dalla parte del suo popolo! Pardon, dalla parte del suo partito.

Quel mio collega non mi aveva mai perdonato quelle parole. Poco prima dello scoppio della nostra guerra “inevitabile”, quando ormai ero diventato membro attivo di un’organizzazione pacifista, mi chiese: “E ora che fine faranno le persone come te? Sapete qual è il vostro posto?”.

“Le persone a cui ti riferisci non si uniranno a voi che sapete dov’è il vostro posto…”, gli risposi. E lui, invece di una replica, mi rivolse un sorriso sprezzante.

Ho sentito dire che durante la guerra quel mio ex collega aveva occupato “il proprio posto”, quello “giusto”. Dopo la guerra si è trasferito in un paese nordico. Avrà finalmente capito qualcosa su quel “posto giusto” che aveva occupato in passato?

Questi sono solo alcuni tasselli dei miei ricordi del periodo immediatamente precedente le elezioni del 1990.

Domenica, 18 novembre 1990

Quella mattina andai con mia moglie alla sede del municipio, in cui fu allestito il nostro seggio elettorale. La coda per entrare era talmente lunga che, scoraggiati dalla sola idea di dover aspettare a lungo, tornammo subito a casa. Pensavamo che nel pomeriggio non ci sarebbero state code. Ma avevamo torto. Tornammo di nuovo a casa, sperando di trovare meno gente più tardi. Macché! Una volta ritornati alla sede del municipio, ci imbattemmo in una coda ancora più lunga. I seggi chiudevano alle 22, per cui decidemmo di votare verso sera… Ma a quell’ora c’era una coda ancora più lunga! Riuscimmo ad entrare, o meglio a spingerci all’interno dell’edificio municipale pochi minuti prima che chiudessero le porte. Chi era riuscito a entrare poteva votare. Notammo che lungo il corridoio e sulle scale c’erano alcune persone a noi totalmente sconosciute. Successivamente abbiamo saputo che quelle persone erano attivisti di diversi partiti, venuti per “assistere” gli elettori più anziani, perlopiù analfabeti, durante la votazione. Quasi tutti si firmavano con la x.

Se la memoria non m’inganna, i risultati delle prime elezioni democratiche in Bosnia Erzegovina furono resi noti nella serata del 20 novembre 1990. Alle urne si era recato quasi l’80% degli aventi diritto (cito questo dato per evitare eventuali equivoci, soprattutto quelli di carattere statistico). I partiti di stampo etnico ottennero poco più del 70% dei voti. L’unica forza politica realmente riformista, cioè il partito di Ante Marković, conquistò appena il 9% dei voti. Dalle elezioni amministrative [tenutesi insieme a quelle politiche] emersero risultati più o meno identici in tutti i comuni, compreso il nostro.

Ricordo ancora il volto serio del giornalista della tv Sarajevo Aleksandar Vujisić e la pesante parolaccia che avevo pronunciato una volta appreso l’esito del voto, qualcosa di simile a un aperitivo amaro prima di cena (un dettaglio che ho inserito in uno dei miei racconti); ricordo anche di aver ricevuto una telefonata da un mio caro amico. Un komunjara, ma uno di quelli onesti. “Eravamo immersi in un sonno pesante, è arrivata la punizione. Ma questi non arriveranno lontano – non si rendono conto di aver cominciato a segare il ramo su cui siede la Bosnia!”. Anche il mio amico era del parere che quelle elezioni fossero un vero e proprio “censimento della popolazione su base etnica” e che avessero reso incerto il futuro della nostra repubblica alla vigilia dell’ormai imminente dissoluzione della Jugoslavia. Avevamo ragione già allora?

Ad ogni modo, credo che, se i nazionalisti fossero stati all’opposizione, non avrebbero potuto influire sul destino della Bosnia come uno stato laico, mentre un’eventuale alleanza tra l’SDP e il partito di Marković (per il quale avevo votato) sarebbe stata sufficientemente forte da poter salvare la Bosnia dal rischio di cadere vittima dello strabismo politico di Belgrado, Zagabria e di alcune capitali dei paesi islamici.

Il giorno dopo le elezioni… nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze, più o meno ovunque si assisteva a una vera e propria commedia in cui molti si dicevano sorpresi dall’esito del voto.

“Hanno vinto? Loro, i nazionalisti? Non è possibile!”

A quanto pare, quel giorno nella maggior parte di quelli che avevano contribuito con il loro voto a quel censimento della popolazione, esclusi i nazionalisti più ottusi, si era risvegliato un seme della vergogna.

Quello fu il penultimo autunno di pace in Bosnia.

Quel giorno di novembre trent’anni dopo

Nella Bosnia Erzegovina post-Dayton, l’esito delle elezioni del 1990 è uno dei pochi fatti su cui concordano tutti i protagonisti della guerra fratricida, “gli eroi” delle pulizie e omogeneizzazioni etniche. Non si litiga su quel “celebre” risultato elettorale e su quella “celebre” vittoria sul comunismo! Fu una “vittoria” storica. Lo direbbero senz’altro anche gli asini di Demostene, perché allora non potrebbero dirlo anche i nostri nobili vincitori? Ma non dimentichiamo alcuni fenomeni ritenuti del tutto normali da parte dei vincitori di quelle elezioni: una sfacciata privatizzazione [delle aziende pubbliche] avviata dopo la guerra, la tendenza ad assegnare gli incarichi politici ed economici secondo una logica feudataria e, come conseguenza dei due fenomeni appena citati, l’emigrazione dei giovani bosniaco-erzegovesi che ormai da anni se vanno dall’estero in cerca di una vita migliore. Sarebbe meglio se non allargassimo il discorso su tutta una serie di fenomeni, tutt’altro che positivi – come l’assurda insistenza sulla purezza linguistica, la tendenza a sottolineare l’importanza dei simboli religiosi, la presenza di tre versioni diverse della storia nei programmi scolastici – che hanno influito in modo decisivo sulla percezione della Bosnia Erzegovina da parte delle giovani generazioni in entrambe le entità in cui è diviso il paese (Republika Srpska e Federazione BiH), fenomeni che hanno già trovato il loro posto in diversi studi europei sul postcomunismo.

Chiunque sia minimamente realista dovrebbe chiedersi: perché i protagonisti della guerra degli anni Novanta e la loro “prole” politica non celebrano l’esito delle elezioni del 1990 – che loro ritengono una vittoria, nonostante i risultati desolanti della “democratizzazione” della Bosnia Erzegovina che si inscrive all’interno di una transizione ormai infinita – come una nostra sconfitta? Sì, parlo della sconfitta, anche se so che alcuni bosniaco-erzegovesi che vivono all’estero continuano a ricordare certi aspetti positivi della loro vita passata in Bosnia, così come alcuni di quelli che sono rimasti non rinunciano alle loro speranze riguardo alla possibilità di una vera rinascita democratica. E lottano, per quanto possibile, contro i padroni dei tre feudi – bosgnacco, croato e serbo – e contro i loro entourage. Lottano pur sapendo che a nessuno può essere torto nemmeno un capello senza il consenso del Padrone della situazione, a partire dalle amministrazioni comunali, e pur sentendosi impotenti di fronte al fatto che il paese è governato dal cosiddetto governatore internazionale. (“In nessun altro posto avrebbe uno stipendio così alto, perché mai lui e il suo entourage dovrebbero essere infastiditi dai leader locali propensi al litigio?” Ho sentito più volte questa affermazione quando ritornavo, da turista, nel mio paese d’origine. E anche questa: “È facile dire: lo speriamo, ma la nostra generazione probabilmente non vivrà abbastanza a lungo per assistere a cambiamenti radicali... Quelle stesse persone che hanno iniziato la guerra siedono ancora sulle loro poltrone”.)

I padroni stanno bene, stavano bene anche durante la guerra. Ora, naturalmente, stanno meglio. Forse dovrei citare i nomi di queste persone, dei loro clan e gruppi di interesse, dal mondo della politica a quello dell’economia? Non posso assolutamente, perché provo un reale senso di nausea. Dopo la guerra hanno esercitato un’influenza decisiva sul demi-monde dei “manager” (leggi: traditori locali dell’eredità economica dei propri padri e nonni), cioè sui trafficanti di beni pubblici. Sui metodi di consolidamento del potere politico potrebbe essere scritto un corposo studio sociologico, ma qui mi limito a citare una riflessione di un mio amico che è rimasto in Bosnia: “Prima del 1990 c’era un partito dominante, oggi ce ne sono tre. Un tempo chi non aveva la tessera rossa con falce e martello non poteva ottenere un incarico dirigenziale, mentre oggi è diventata quasi una prassi comune dover dimostrare di avere la tessera di uno dei tre partiti [etno-nazionali] o votare per loro per poter ottenere un lavoro qualsiasi…”.

Credo che i lettori di questo articolo si porranno una domanda del tutto logica: questo è un soliloquio, un lamento, un atto di accusa o che altro? Semplicemente, a cosa serve? Lascio a voi questo dilemma, sperando che il caso dell’ex Jugoslavia e della Bosnia possa essere compreso anche come una lezione per l’Europa. Concludo sollevando un’ulteriore domanda: cosa accadrebbe se un giorno la maggior parte dei cittadini europei decidesse di dare il proprio voto ai demagoghi populisti con una coscienza politica retrograda?

Dossier

Nel novembre 1995, con l’Accordo di Dayton, veniva posto fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. La soluzione adottata - con le sue contraddizioni tra cui il riconoscimento de facto della pulizia etnica - nasceva come frutto del compromesso per ottenere la pace. Ora, in un paese vittima di una continua emorragia di giovani che emigrano in cerca di futuro, appare evidente che senza una sua riforma la Bosnia Erzegovina rischia di restare uno stato disfunzionale che non riuscirà a procedere verso l’integrazione europea. Un nostro dossier


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