Sarajevo, 2011, edifici distrutti durate il conflitto degli anni '90 - © akturer/Shutterstock

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Dayton, Bruxelles, Tuzla. Tre luoghi da cui parte l'analisi di Roberto Belloni sul dopoguerra nell'ex Jugoslavia e sulla presenza, spesso fallimentare, della comunità internazionale. Una recensione

28/03/2022 -  Arianna Piacentini

In seguito al tragico collasso della Jugoslavia di Tito, gli attori internazionali si cimentarono in una serie di interventi di peacebuilding. Inizialmente promettenti e volti a ricostruire stati e società ex jugoslavi secondo il modello di ‘pace liberale’, presto si rivelarono fallimentari. Ad oggi i Balcani Occidentali, e soprattutto stati quali la Bosnia Erzegovina e il Kosovo, risultano bloccati in istituzioni solo formalmente democratiche, in preda a una classe politica fortemente nazionalista ed incapace di fare sostanziali passi in avanti, e dunque si ergono a testimonianza del fallimento del peacebuilding internazionale.

Al fine di comprendere le ragioni profonde e l’eredità di tale fallimento vanno considerati sia l’incapacità degli attori internazionali di adempiere alle promesse fatte, quanto la fallacia dell’atteggiamento paternalistico e compiacente dell’Europa. Tanto la presenza capillare e sempre più radicata di reti clientelari locali, quanto gli effetti deleteri delle crisi in atto - sia quella economica iniziata nel 2008 e mai giunta al termine, sia quella sanitaria legata alla pandemia di Sars-Cov2 - stanno infliggendo il colpo di grazia alle già zoppicanti istituzioni dell’area.

Scritto da uno studioso con lunga esperienza di lavoro e ricerca nella regione, "I Balcani dopo le guerre" è un volume che, al contrario degli attori coinvolti nelle opere di peacebuilding nella regione, fa esattamente ciò che promette: guarda all’evoluzione della ricostruzione post-bellica negli ultimi due decenni, analizzando il divario crescente tra ciò che era stato promesso e ciò che (non) è stato realizzato. E lo fa facendoci compiere un viaggio che parte da Dayton - località dell’Ohio in cui, nel 1995, vennero firmati gli accordi di pace che portano alla risoluzione del conflitto in Bosnia Erzegovina - passa per Bruxelles - capitale di una Europa paternalista, simbolo di un iniziale ottimismo poi sfumato in frustrazione e scetticismo -e approda a Tuzla, cittadina bosniaca protagonista dei primi movimenti di protesta contro l’etnopolitica.

Il volume è suddiviso in tre parti e si compone di un totale di nove capitoli. Nei primi due capitoli, Belloni introduce il tema del peacebuilding concentrandosi sull’attuazione della ‘governance sperimentale’ in relazione al principio kantiano di ‘pace liberale’. Ci spiega, dunque, come l’attuazione di tale modello abbia visto la compartecipazione e l’interazione tra vari attori - politici e non - e a diversi livelli, nazionale e internazionale. E come, nel corso degli ultimi 25 anni, i diversi attori e fattori progressivamente entrati in campo abbiano innescato dinamiche e processi non sempre favorevoli alla ricostruzione e alla transizione democratica, talvolta delegittimando e minando l’effettiva credibilità delle stesse.

Nella "Parte Prima - Dayton", i capitoli 3 e 4 guardano alla prima fase del peacebuilding ed analizzano conseguenze, effetti e dinamiche del progressivo intensificarsi dell’intervento internazionale nei Balcani Occidentali. Focalizzandosi principalmente sull’operato dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante della Comunità Internazionale in Bosnia Erzegovina e sull’Unmik in Kosovo, Belloni riflette sui benefici e i costi di tali interventi ‘massivi’, notando come, al netto di una presunta stabilità raggiunta, ‘coercizione e assertività esterna abbiano portato alla creazione di istituzioni interne poco efficienti e con scarsa legittimità locale’, nonché alla legittimazione di un sistema clientelare e di corruzione ormai diventati endemici.

La "Parte Seconda - Bruxelles" (capitoli 5 e 6) è, invece, focalizzata sull’Unione Europea, protagonista indiscussa della seconda fase di attuazione del peacebuilding. A partire dagli anni 2000 infatti, l’UE ha giocato un ruolo determinante, confidando che il suo ‘potere d’attrazione' esercitasse un’influenza positiva e riformatrice in tutta la regione. Sfortunatamente, i tentativi volti a stimolare le riforme dall’interno - ristrutturando le istituzioni politiche, economiche e giudiziarie secondo i principi e i valori della democrazia liberale - sono risultati fallimentari, e ostacolati - tra l’altro - dal pericoloso connubio tra ingenti aiuti economici alla ricostruzione da un lato, e una rete capillare di corruzione e clientelismo dall'altro. Attraverso queste pagine, Belloni ci spiega in maniera chiara e precisa come e perché l’approccio dell’UE si sia dimostrato inadeguato tanto nel ‘fornire ai leader nazionali incentivi sufficienti per sposare il processo di democratizzazione [quanto nel] coinvolgere in modo significativo i cittadini’.

Giungiamo così alla "Parte terza - Tuzla" del volume (capitoli 7 e 8), che ci conduce per le strade, tra la gente, nel cuore dei movimenti di protesta sorti nell’ultimo decennio. Belloni ricostruisce il punto di vista dei cittadini, ci spiega le cause dell’euroscetticismo dilagante, della crescente sfiducia nelle istituzioni e nella politica, nonché le opinioni e re-azioni popolari davanti alla fallacia di un interminabile processo di pace. Il tentativo dell’UE di rilanciare una prospettiva di allargamento credibile, mantenendo tuttavia lo status quo etnonazionale, ha difatti finito con l’esacerbare il malcontento: cittadini già insoddisfatti e disillusi si son fatti (finalmente) protagonisti di una terza fase del peacebuilding - quella del suo declino, caratterizzata dai movimenti civili di protesta contro la classe politica - tanto quella locale, corrotta e nazionalista, quanto quella internazionale, distante, indifferente e compiacente. Si pone l’accento su come i vari peacebuilders si siano destreggiati in una ‘governance sperimentale […] nel tentativo di gestire la realtà esistente invece che trasformarla’. Nelle conclusioni poi Belloni riflette su come la tanto promossa ‘resilienza’, accompagnata dalla preoccupazione dell’UE per la stabilità, e dunque la passiva accettazione dei regimi etnonazionali locali, abbiano condotto allo svilupparsi di ‘stabilitocrazie’ e ‘etnocrazie’ - dove immobilismo e illiberismo la fanno da padroni, sancendo dunque il definitivo fallimento del processo di peacebuilding stesso.

Gli effetti di tale fallimento sono sempre più visibili, e spaziano dalle continue spinte separatiste promosse da Milorad Dodik in Bosnia Erzegovina, al dilagante euroscetticismo - ulteriormente acuitosi in seguito alle irrisorie risorse destinate all’area con il Next Generation EU, che non faranno altro che aumentare la distanza tra paesi membri e aspiranti tali. Mai come in questo momento storico, le riflessioni proposte ne "I Balcani dopo le guerre" risultano fondamentali per comprendere al meglio sia i sintomi e le conseguenze profonde del fallimento internazionale della ricostruzione post-bellica (nei Balcani Occidentali ma non solo), sia la sempre più palpabile crisi della democrazia, delle sue istituzioni, e del modello liberale più in generale - che spinge un crescente numero di stati a guardare sempre più verso Est e meno verso Ovest - dove Russia, Cina e Turchia attendono a braccia aperte.

 

 

Il libro


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