(© 8nero/Shutterstock)

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I paesi dei Balcani si stanno avviando alla cosiddetta fase 2, ovvero ad un allentamento delle restrizioni entrate in vigore a seguito dello scoppio della pandemia da COVID19. In questo passaggio è utile fare un primo bilancio di quello che è accaduto durante la prima fase emergenziale

12/05/2020 -  Luka Zanoni

I timori iniziali, che ipotizzavano scenari catastrofici relativi all’impatto dell’emergenza Covid 19 sui sistemi sanitari dei paesi balcanici, alla fine sono stati fugati. Certo, non sono mancati episodi drammatici e scandali, fra tutti la morte del noto epidemiologo sarajevese Šefik Pašagić.

È ancora presto per stabilire il motivo per cui i Balcani se la sono cavata meglio di altri paesi, Italia compresa. Sta di fatto che nessun sistema sanitario di questi paesi è collassato come si temeva. Forse per via di un lockdown anticipato rispetto ai casi rilevati di contagio oppure a causa di un minore numero di casi di contagio o forse ancora perché le vie di comunicazione e quindi di trasmissione da paese a paese sono limitate. Col tempo si riuscirà ad analizzare meglio cosa ha funzionato e cosa no nei vari paesi.

La Serbia è stata il paese più colpito dell’aera balcanica, circa cinque volte più della Grecia e della Bulgaria. La Bosnia Erzegovina, che si temeva non reggesse allo stress delle strutture sanitarie, ha presentato numeri simili a quelli della Croazia che spicca tra i paesi che hanno gestito bene l’emergenza sanitaria.

Quello che si può dire con certezza è che la pandemia, e questo non solo per quanto riguarda i paesi qui presi in esame, ha funto da moltiplicatore dei deficit o dei punti deboli nei sistemi politici dei rispettivi paesi. Non è un caso se l’influente think tank Freedom House ha declassato in piena pandemia, e per la prima volta dal 2003, Serbia e Montenegro a “regimi ibridi”, ovvero sistemi che Predrag Matvejević avrebbe definito come “democrature”.

L’emergenza virus ha spinto i governi ad adottare severe misure di contenimento del contagio, misure che abbiamo visto sono state declinate in dichiarazioni di stato d’emergenza (Serbia, Macedonia del Nord, Albania e Bosnia Erzegovina) e/o in restrizioni dettate dal coprifuoco, limitando la possibilità di uscire in determinate ore del giorno (Montenegro, Albania, Serbia). Misure che in questi giorni sono rientrate in buona parte dei paesi che le avevano adottate.

Il problema, tuttavia non sono state tanto le misure adottate, quanto le modalità d'adozione e di implementazione: in paesi dove lo stato di diritto è ancora fragile, il rispetto dei diritti umani ancora debole, dove in sostanza la democrazia ancora non è matura, la crisi innescata dal virus ha portato in superficie i comportamenti autoritari e autocratici dei governi locali.

A partire ad esempio dal fermo di 48 ore cui è stata sottoposta la giornalista serba Ana Lalić per aver denunciato in un suo pezzo le condizioni pericolose in cui lavorano i medici e gli operatori sanitari del Centro clinico della Vojvodina a Novi Sad. L’episodio si è verificato dopo che il governo serbo alla fine di marzo aveva approvato un provvedimento sull’informazione durante la pandemia, che prevedeva che solo la premier e i soggetti autorizzati dall’Unità di crisi potessero rendere note le informazioni sull’emergenza sanitaria in corso. Sotto la pressione delle associazioni di categoria e delle organizzazioni internazionali il provvedimento è stato subito ritirato.

In Montenegro ci si è spinti anche oltre quando Radovan Rakočević , che è anche membro del partito di opposizione Fronte democratico, è stato fermato per 72 ore per aver postato sul suo profilo Facebook una falsa notizia data dal portale serbo alo.rs, in cui si diceva che il presidente montenegrino Milo Đukanović era gravemente malato.

I maldestri tentativi di combattere le fake news riguardanti la pandemia sono stati al centro di un acceso dibattito tra presidente e premier della Bulgaria. Le misure draconiane volute dal premier Boyko Borisov si sono scontrate con il veto del presidente Rumen Radev che ha rigettato quindi le multe salate (fino a 25mila euro) e il carcere (fino a 5 anni) per chi diffonde fake news contenute nella prima bozza di misure del governo di Sofia, e che il premier stesso voleva rimanessero in vigore anche dopo l’emergenza Covid19. Ciò che è rimasto invece è la norma che consente alla polizia, senza mandato della magistratura, di richiedere e ottenere i dati telefonici e internet relativi alle comunicazioni private tra cittadini.

Ancora il Montenegro si è distinto per mancanza del rispetto alla privacy, quando nei primi giorni dell’epidemia era stata pubblicata dal governo una lista con i dati delle persone in auto-isolamento, seguita dalla motivazione di voler disciplinare maggiormente i cittadini.

“L'organismo nazionale di coordinamento per le malattie infettive inizierà da stasera a pubblicare l'identità delle persone in auto-isolamento: che ogni cittadino sappia quale dei suoi vicini e concittadini lo sta mettendo in pericolo con atteggiamenti indisciplinati” recitava il comunicato ufficiale del governo montenegrino. Un comportamento analogo è stato adottato senza grandi remore anche dalla Bosnia Erzegovina.

In paesi come la Serbia o l’Albania abbiamo visto inoltre aumentare la cosiddetta personalizzazione del potere. Tendenze già presenti, ma che hanno subito un’accelerazione e un’ulteriore drammatizzazione con la crisi pandemica: accentramento del potere e sua concentrazione in una figura sola, minimizzazione delle forze di opposizione, qualificate come non democratiche ed esclusivamente orientate al rovesciamento del governo in carica.

Rientrata l’emergenza sanitaria, che si spera non abbia un’ondata di ritorno, la crisi economica e le conseguenze del lockdown assurgono ora al rango di priorità.

La Croazia, con un’economia improntata prevalentemente sul settore turistico e quindi fortemente dipendente dagli spostamenti di persone provenienti dall'estero (Austria, Germania, Italia, Polonia, ecc.), si trova in una situazione drammatica. Nel 2018 il settore turistico pesava da solo per il 20% del PIL. Anche vi fosse una accorta riapertura, è molto difficile attenuare le conseguenze sul turismo delle restrizioni di movimento e contatto sociale. C’è quindi un forte rischio che i punti deboli dell’economia croata non facciano che acuirsi. Motivo per cui l’esecutivo di Zagabria ha avviato una serie di misure sul breve periodo per far fronte alla crisi. Da non dimenticare che Zagabria proprio all’inizio della pandemia è stata colpita anche da un violento terremoto che ha causato ingenti danni alla capitale croata.

Anche la Serbia, nonostante un’economia più diversificata e decisamente meno dipendente dal turismo, inizia a ipotizzare scenari economici carichi di incertezza. “Se il calo del PIL nel primo e nel secondo trimestre di quest'anno è stato in totale del dieci percento, e l'epidemia prosegue fino alla fine di maggio, il calo del PIL sull'intero anno potrebbe essere del cinque percento, ma data l'elevata percentuale di servizi sulla produzione totale della Serbia è probabilmente che sia una stima ottimistica, e quindi un calo del dieci percento non sarebbe una sorpresa”, ha dichiarato l’economista Vladimir Gligorov all’agenzia Beta .

Se sino ad ora i paesi del sud est Europa sono riusciti a far fronte alla crisi sanitaria, saranno certo maggiori le difficoltà a fronte di quella economica, difficoltà che per altro riguarderanno la maggior parte dei paesi del globo. In questo contesto sarà ancora più necessario, a partire da questa fase 2, tenere monitorata la tenuta dei principi democratici rispetto alle spinte autoritarie e autocratiche, verificando ad esempio se le norme volte alla sorveglianza, spesso in contraddizione con il rispetto alla privacy, rientreranno o meno con il cessare dell’emergenza. In questo un ruolo fondamentale dovranno averlo le istituzioni europee, sia per i paesi coinvolti nell'allargamento sia, Ungheria docet, per gli stati membri.


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