Šefik Pašagić (© N1)

Šefik Pašagić (© N1)

Una tragica e triste vicenda quella della morte del noto epidemiologo sarajevese Šefik Pašagić. Una vicenda che ha le sue radici nella malasanità bosniaca. E si è arrivati al paradosso di accusare il defunto della sua stessa morte

21/04/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo

Sono passate ormai quattro settimane da quando in Bosnia Erzegovina sono state introdotte misure straordinarie per contenere l’epidemia di coronavirus, tra cui il divieto di assembramenti nei luoghi pubblici, la chiusura dei centri commerciali e di tutti i negozi tranne quelli che vendono generi di prima necessità, il divieto assoluto di uscire di casa per le persone con più di 65 anni e per quelle con meno di 18 anni. È in vigore anche il coprifuoco: di notte le strade delle città sono completamente deserte.

A giudicare dal numero di contagiati e morti, sembra che la tempestiva adozione delle misure di contenimento dell’emergenza stia dando i suoi frutti: secondo gli esperti, in Bosnia Erzegovina l’epidemia è ancora di dimensioni ridotte, tali da poter essere tenuta sotto controllo. Inoltre, la maggior parte dei cittadini bosniaci rispetta le misure di contenimento. E lo fa per vari motivi, i due principali sono: da un lato che i cittadini sanno quanto il sistema sanitario bosniaco sia impreparato a far fronte a un’emergenza di questo tipo. Dall’altro, nella memoria collettiva sono ancora vivi i ricordi dell’assedio di Sarajevo, quando, dal 1992 al 1995, i sarajevesi, costantemente sotto il tiro dei cecchini, erano costretti a vivere chiusi in casa.

Ma il sistema di solito “crolla” là dove nessuno se lo aspetta. Lo scorso 5 aprile nel Centro clinico di Sarajevo è morto il dottor Šefik Pašagić, noto epidemiologo, collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e membro dell’Associazione americana di epidemiologia. Pašagić è morto nel corridoio dell’ospedale, senza aver mai ricevuto assistenza e cure adeguate, misurandosi la temperatura da solo fino all’ultimo istante. La morte del noto esperto – i cui dettagli drammatici rivelano quanto profondamente il sistema sanitario bosniaco sia invaso da negligenza, corruzione e autocrazia – ha sconvolto molti, soprattutto i sarajevesi che, travolti da pensieri oscuri, si sono chiesti: se una cosa del genere è potuta capitare a un rinomato medico (che qualche mese fa aveva avvertito del rischio di epidemia), cosa ci dobbiamo aspettare noi, semplici cittadini?

Effettivamente, le informazioni riguardanti la morte del dottor Pašagić lasciano davvero sconcertati: emergono l’arroganza amministrativa, la vanità dei funzionari pubblici, l’inerzia del personale sanitario e l’atmosfera che regna nelle strutture sanitarie che rispecchia fedelmente l’attuale situazione in Bosnia Erzegovina.

Sempre più debole, costretto ad aspettare per ore per ricevere del semplice paracetamolo, il dottor Pašagić osservava la danza macabra che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, che da lì a poco si sarebbe trasformata in un requiem, un requiem per lui stesso. Che è anche la più dura denuncia della situazione in cui versa il sistema sanitario bosniaco, e soprattutto il Centro clinico di Sarajevo, guidato da Sebija Izetbegović, moglie del leader del più grande partito di destra (Partito di azione democratica, SDA) e principale rappresentante dell’oligarchia nazionalista senza scrupoli, una mutante post transizione, che spesso la gente paragona a Elena Ceaușescu.

Le due versioni della storia, quella fornita dall’ospedale e quella della famiglia del dottor Pašagić, sono diametralmente opposte.

Ecco i fatti: dopo aver impedito che si facesse l’autopsia sul corpo di Šefik Pašagić, il Centro clinico di Sarajevo ha reso noto, in un comunicato stampa, i dettagli del caso, affermando che il dottor Pašagić sarebbe stato attaccato ad un ventilatore polmonare la mattina presto del 5 aprile scorso (Pašagić è morto nella sera dello stesso giorno).

Il giorno dopo si è fatta sentire la moglie di Šefik, Elna Pašagić, che ha spiegato, in una lettera inviata ai media, che suo marito è stato attaccato a un respiratore solo nel pomeriggio del 5 aprile, senza prima essere sottoposto ad alcun esame per capire eventuali rischi che un’anestesia generale avrebbe potuto comportare per un organismo così debole.

La matassa della vicenda ha continuato a dipanarsi e alla fine è emerso che il dottor Pašagić non è stato nemmeno attaccato ad un respiratore perché è stato stroncato dall’anestesia, che gli è stata somministrata nonostante i potenziali rischi, uno scenario che lo stesso Pašagić, ben consapevole perché esperto del settore, temeva.

Dal momento che alcuni medici, colleghi del dottor Pašagić, hanno cominciato a criticare pubblicamente l’operato del Centro clinico di Sarajevo, Sebija Izetbegović ha dovuto reagire. In un comunicato stampa, emesso dall’Ordine dei medici di Sarajevo – che funge da portavoce della Izetbegović – la direttrice del Centro clinico ha respinto qualsiasi possibilità che il “suo” personale avesse commesso degli errori e ha affermato che il dottor Pašagić è morto a causa di cure domiciliari “inadeguate”, sottolineando che bisogna appurare le responsabilità di chi ha curato Pašagić a casa.

Il sarcasmo di Sebija Izetbegović aveva uno scopo ben preciso, quello di screditare Zehra Dizdarević, medico di grande reputazione, ex direttrice della Clinica pneumologica di Sarajevo e professoressa emerita presso la Facoltà di Medicina di Sarajevo, che vanta un importante curriculum scientifico. La sua colpa sarebbe quella di aver parlato con il dottor Pašagić che, negli ultimi giorni della sua vita, l’aveva chiamata per un consulto.

Non avendo ricevuto cure adeguate nelle strutture sanitarie, il dottor Pašagić voleva consultarsi con i suoi colleghi che riteneva sufficientemente competenti per potergli fornire consigli su come combattere il coronavirus. Šefik Pašagić, purtroppo, non è riuscito a vincere la sua battaglia contro il coronavirus, e la dottoressa con cui si è consultato è finita nel mirino per aver più volte criticato l’operato di Sebija Izetbegović, che evidentemente ha ambizioni che superano di gran lunga le sue capacità.

E a pagarne le spese – come dimostra il caso del dottor Pašagić – sono i cittadini della Bosnia Erzegovina.

Possiamo solo intuire l’epilogo di questa tragica vicenda, ma una cosa è certa: vivere oggi in Bosnia Erzegovina, sperando di sopravvivere, significa essere doppiamente isolati.

I cittadini bosniaci vivono nella paura di ammalarsi, perché sanno che, se dovessero finire in ospedale, le cose finirebbero male, vista la situazione in cui versa il sistema sanitario. La seconda paura, oltre ad avere l’odore della morte, ha anche il sapore del nonsenso: la paura di essere lasciati soli a morire e poi accusati di essere responsabili della propria morte. Esattamente come è accaduto al dottor Pašagić.

Tuttavia, la sua tragica morte probabilmente non basterà per spingere i cittadini di Sarajevo ad alzare la voce e chiedere le dimissioni di Sebija Izetbegović, che sarebbe l’unico logico epilogo della vicenda.

Ma non accadrà. Finché la narrazione mafiosa e nazionalista continuerà a costituire l’ossatura della retorica dell’élite al potere, i cittadini bosniaci saranno colpevoli di tutto. E continueranno a morire, sotto lo sguardo della direttrice del Centro clinico di Sarajevo, che scaricherà sempre la colpa sugli altri, chiederà agli altri di assumersi la responsabilità penale, senza mai porsi domande sulle proprie responsabilità.

Su queste premesse poggia il totalitarismo in cui viviamo oggi, ai tempi della pandemia.


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