Museo Musa Dagh - Carta d'imbarco per Armenia 1948 foto di Paolo Martino

Museo Musa Dagh - Carta d'imbarco per Armenia 1948 foto di Paolo Martino

Vartuhi è partita da Beirut nel 1946, per raggiungere l'Armenia sovietica a bordo della nave "Pobeda". Nella terra di Stalin, però, i sopravvissuti al genocidio hanno visto il sogno di una patria trasformarsi in incubo. In viaggio verso il Caucaso sui sentieri delle migrazioni, quarta puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

20/07/2012 -  Paolo Martino

“Per superare la censura del regime sovietico creammo dei messaggi in codice. 'Il pane è buono' voleva dire che si soffriva la fame. 'L'anta dell'armadio è rotta' significava persecuzione, prigionia. Se in una foto comparivano persone sdraiate, qualcuno era morto. E così via.” Nel suo appartamento al centro di Anjar, tremila anime armene tra i monti libanesi, Angel ripercorre il filo di memorie familiari che risalgono a più di sessant'anni fa, quando sua sorella Vartuhi lasciò il Libano per trasferirsi nell'Armenia sovietica. “Fin nelle prime lettere si parlava solo di pane e armadi, e pian piano arrivarono anche le foto. Capii che l'Armenia non era il paradiso che i russi volevano farci credere. E che non avrei più rivisto mia sorella.”

I profughi sono

le lacrime della guerra

Anonimo palestinese

All'indomani della Seconda guerra mondiale la diaspora armena si trovò di fronte all'ennesima sfida. L'Unione sovietica, decisa a riequilibrare il vuoto demografico lasciato dai milioni di morti della guerra, promosse imponenti campagne di ripopolamento. Le comunità armene americane, europee e mediorientali, ansiose di trasferirsi finalmente in una “patria” tutta loro, aderirono in massa. A partire dal 1946 treni, navi, convogli con la stella rossa trasportarono migliaia di figli della diaspora armena a Yerevan, nell'Armenia sovietica. Il 70% degli abitanti di Anjar, tremilacinquecento su cinquemila, scelse di partire. Tra questi c'era Vartuhi, la sorella di Angel.

“I primi tempi furono duri. Gli armeni libanesi erano abituati a spostarsi, a leggere il giornale, a dire quello che pensavano, perciò finirono subito sotto l'occhio spietato del regime. Molti furono spediti in Siberia, nei campi di concentramento.” La memoria di Angel si muove fluida in stagioni lontane, spaziando nella smisurata geografia della diaspora come se nessun angolo al mondo fosse alieno. “Ma gli armeni di Anjar hanno la pelle dura. Piano piano si sono costruiti una vita, una casa, perfino un villaggio, vicino a Yerevan.” Interrompo il racconto. “E questo villaggio esiste ancora?” Angel sorride: “Certo, si chiama Musa Dagh, come la nostra terra natale. Mia sorella vive lì.” Rapita dai ricordi, l'anziana ripercorre gli anni della giovinezza, delle scelte irreversibili, mentre nella mia mente un'idea dai contorni sfumati si fa sempre più nitida. Salutando Angel alla libanese, con tre baci sulla guancia, le faccio una foto e una promessa: “tornerò a trovarti presto, con una sorpresa.”

Dal mio diario. 3 novembre

Il flusso di memoria che lega il Caucaso al Medio Oriente scorre appena sotto la superficie della quotidianità. Gli abitanti di Musa Dagh che nel 1939 lasciano la Turchia per trasferirsi in Libano, otto anni dopo si mettono in viaggio per l'Armenia. Percorsi a senso unico, decisioni senza appello, ma ogni spostamento segna il terreno, tracciando una pista che dal Caucaso porta a Beirut, e viceversa. Vakif, l'unico dei sette villaggi di Musa Dagh che scelse di restare sotto autorità turca, tuttora abitato da armeni; Anjar, il gioiello armeno nella valle della Bekaa, oasi pacifica in una delle zone più conflittuali del pianeta; la nuova Musa Dagh nella periferia di Yerevan, ricovero per chi nel 1946, dopo tanta miseria, pensava di aver trovato finalmente la via del Sol dell'Avvenire. Schegge che si perdono nella tragedia del genocidio, nei giochi tra potenze, nelle macerie delle guerre del Medio Oriente e del Caucaso. L'unico modo per risalire all'elemento umano, per capire le scelte delle tante Vartuhi e Angel di questa storia, è camminare sui sentieri di quelle migrazioni, misurarle col metro dei passi, della pioggia, degli orizzonti monotoni dell'altopiano e del deserto.

“Vado a Yerevan, ho già il biglietto.” Seduto come sempre davanti alla saracinesca della fabbrica di scarpe, Rafi soffia il fumo denso del narghilè senza scomporsi. “Me l'aspettavo che saresti partito un giorno o l'altro. Sei caduto nella paranoia di cercare una logica razionale nella storia del mio popolo. Col tempo imparerai che non ne vale la pena.” Rafi urla qualcosa in armeno a un ragazzino che in un minuto ci serve arak, liquore all'anice allungato con acqua e ghiaccio. Un dollaro di mancia e il ragazzino sparisce, inghiottito dal caos di Burj Hammoud, il quartiere armeno nella pancia di Beirut. “Che vai a fare in Armenia?” Mentre nel vicolo scende la notte, Rafi ascolta la storia di Angel e Vartuhi, le sorelle separate dalla Pobeda, la nave che trasportò nel 1946 migliaia di armeni libanesi oltre la Cortina di ferro. “Voglio ripercorrere quei fatti, sentire la parte mancante del racconto.”

Rafi ordina altro arak. “Metti a fuoco questo principio: in Medio Oriente contano i punti di vista, non i fatti.” Burj Hammoud ora è vuota, e le parole di Rafi schioccano come pietre. “La storia della Pobeda, per esempio, ha smesso di esistere da tanto tempo. Al suo posto rimangono i punti vista di chi aveva interesse che gli armeni partissero e di chi, al contrario, voleva che restassero. E sopra tutto questo, l'Unione sovietica.” L'allusione di Rafi non lascia dubbi. “Vuoi dire che anche la comunità armena libanese fu spaccata dalla guerra fredda?” Rafi è al terzo bicchiere di arak: “fu una guerra fratricida, che uccise centinaia di persone proprio tra questi vicoli. A nessuno piace ammetterlo, ma la scia di sangue arriva fino ai giorni nostri.”

Mentre mi allontano tra i vicoli deserti di Burj Hammoud, il rosario dei muri crivellati si sgrana sotto i miei occhi. Penso alle parole di Rafi, all'ambiguità irrisolta delle guerre civili, al monito che sembra arrivare dalle pallottole piantate nei muri: “Non è stato l'occupante straniero ad aprire il fuoco, ma il vicino di casa, non dimenticarlo mai.” Una scritta fatta con vernice spray pilota le riflessioni: “PKK”, il partito dei lavoratori curdi. Il movimento nato in Turchia negli anni '80 si batte per l'indipendenza del Kurdistan turco, regione che coincide con l'antica Armenia occidentale. In nome del rancore anti-turco, i figli della diaspora armena sostengono la causa curda, pur rivolgendo agli stessi curdi l'accusa di complicità con l'esercito ottomano durante il genocidio. Il labirinto di questi vicoli è metafora della storia intrigata di chi li abita.

L'aereo decolla puntuale sul tappeto di cemento di Beirut sud, dove i quartieri sciiti riempiono ogni spazio fino a lasciar posto al primo verde sui contrafforti della Montagna. Dal pacco di appunti, e-mail e carte geografiche che ho stampato in fretta prima di partire sbuca la risposta che il professore dell'università armena di Beirut, Adakessian, mi ha inviato poche ore fa:

Dear Paolo,

I wish you the wisdom you need to discern the fine line and make things better understood. Find the contact of Dr. Demoyan, the director of the Armenian Genocide Research Insitute in Yerevan. This is the Middle East, and the Genocide issue is one of the central ingredients of this intriguing complex.

Regards, A.

Saggezza, discernimento, intrighi complessi. Dove sto andando esattamente? La notte passata a organizzare il viaggio mi ha lasciato più dubbi che risposte. E mentre l'immenso blu del cielo e del mare libanese lascia il posto a paesaggi plumbei, la testa improvvisamente si svuota e il corpo si rifugia in un sonno profondo.


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