Stanišić e Simatović (Foto ICTY)

Stanišić e Simatović(Foto ICTY)

La Corte di Appello dell'Aja impone di rifare il processo ai due ufficiali serbi, ribaltando la giurisprudenza precedente e riaprendo la discussione sulle responsabilità di Belgrado per i crimini commessi in Bosnia Erzegovina e Croazia

18/12/2015 -  Caterina Bonora Sarajevo

Uno dei casi che aveva sollevato aspre critiche sull’operato del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ) nel 2013, il processo degli ufficiali dei servizi segreti serbi Jovica Stanišić e Franko Simatović, ha preso una piega inaspettata il 15 dicembre scorso. In questa data, la camera d’appello del Tribunale ha emesso una sentenza che non solo capovolge quanto stabilito dalla Corte di prima istanza nel 2013, ma richiede addirittura che i due imputati vengano nuovamente processati.

Il caso e il suoi effetti collaterali

I due membri dei servizi segreti serbi (Državna Bezbednost) erano stati assolti nel dicembre 2013 dalle accuse di omicidio, persecuzione, deportazione e trasferimento forzato di persone ammontanti a crimini contro l’umanità, non tanto perché questi crimini non potessero essere provati - il Tribunale aveva infatti stabilito che i crimini erano stati commessi, con l’aggravante di un chiaro intento discriminatorio nei confronti delle popolazioni non serbe di Croazia e Bosnia Erzegovina; quanto perché tali crimini non potevano essere attribuiti a Stanišić e Simatović, il cui ruolo sarebbe stato solo quello di contribuire a formare e ad appoggiare finanziariamente e logisticamente le unità militari speciali che si erano poi rese colpevoli dei crimini summenzionati.

Ovvero, nonostante i manifesti legami degli imputati con le unità speciali, dimostrati ad esempio dalla loro presenza in addestramenti ed incontri in cui avevano pubblicamente lodato i traguardi militari conseguiti dalle unità speciali, il Tribunale aveva ritenuto che Stanišić e Simatović non si fossero resi responsabili per i crimini commessi perché non avevano esplicitamente ordinato alle unità speciali di commetterli.

Questo era il terzo di una serie di casi (dopo il caso Gotovina/Markač e il caso Perišić), in cui il Tribunale aveva respinto accuse di crimini importanti sulla base di interpretazioni piuttosto restrittive del diritto che secondo alcuni esperti si discostavano in modo significativo dalla sua precedente giurisprudenza sulle stesse questioni (tuttavia altri sostengono che queste interpretazioni non siano nuove ma risalgano addirittura al caso Tadić).

Le critiche

Nel 2013, queste decisioni avevano scatenato un acceso dibattito in cui alcuni esperti ed attivisti avevano per la prima volta apertamente criticato l’operato del Tribunale e persino in alcuni casi messo in dubbio la sua imparzialità. Altri, invece, avevano difeso la Corte invocando il diritto dei giudici alla discrezionalità giudiziale.

La disputa aveva assunto toni cospirativi quando uno dei giudici del TPIJ, Frederik Harhoff, aveva accusato in una lettera l’allora presidente del TPIJ, Theodor Meron, di aver esercitato pressioni sui giudici perché assolvessero gli imputati in tutti e tre i casi menzionati.

Secondo chi credeva alle accuse di Harhoff, questa pressione sarebbe stata esercitata perché, se questi ufficiali fossero stati effettivamente giudicati responsabili dei crimini di cui erano accusati, commessi in un paese diverso dal loro, si sarebbe creato un pericoloso precedente nel diritto internazionale che avrebbe potuto essere potenzialmente utilizzato nel caso d’interventi militari internazionali di potenze occidentali.

Queste speculazioni avevano poi indotto un gruppo di attivisti ed intellettuali dell’ex Jugoslavia ed internazionali, tra cui importanti ONG locali come il Centro per il Diritto Umanitario di Nataša Kandić e l’Iniziativa dei Giovani per i Diritti Umani, ad inviare una lettera al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, chiedendogli di aprire un’inchiesta sul ruolo di Meron in queste vicende. Tuttavia, non solo la richiesta non venne ascoltata, ma Meron venne riconfermato presidente del TPIY nell’ottobre 2013.

Direzione specifica

Teorie cospirative a parte, le riserve degli esperti sul contenuto di queste tre decisioni sono giustificate. In particolare, l’interpretazione del concetto di complicità proposto dalla camera d’appello nel caso Perišić, e poi ripresa dalla camera di prima istanza nel caso Stanišić e Simatović, era cosi’ restrittiva che per poter affermare la complicità di un imputato non presente sulla scena del crimine si sarebbe dovuto dimostrare la presenza di chiare istruzioni dell’imputato agli esecutori di commettere i crimini. Questo risulta chiaramente più difficile in contesti in cui non vi sono chiare gerarchie nell’impartire ordini e vi è il coinvolgimento di gruppi armati non proprio ufficiali.

In questo senso, la giurisprudenza del TPIJ era stata sempre molto avanzata, promuovendo dottrine, come quella dell’azione criminale associata (joint criminal enterprise), pensate proprio per facilitare l’attribuzione della responsabilità nelle cosiddette nuove guerre, dove la presenza di gruppi paramilitari e altri attori non direttamente riconducibili ad uno stato rendono molto più complesso il risalire la catena di comando.

La precedente giurisprudenza del TPIJ aveva quindi adottato un’interpretazione della complicità secondo cui l’accusato doveva essere considerato responsabile per un crimine se l’assistenza prestata aveva contribuito sostanzialmente alla commissione del crimine stesso (actus reus) e l’accusato era consapevole del rischio che in questo modo il crimine avrebbe potuto essere commesso (mens rea). L’assistenza prestata, per esempio tramite supporto finanziario o logistico, era considerata sostanziale se senza di essa il crimine non avrebbe potuto essere portato a termine nello stesso modo. Ma con le sentenze Perišić e Stanišić/Simatović, era comparso un criterio aggiuntivo, cioè che l’assistenza prestata fosse specificatamente diretta alla commissione del crimine. Questa “direzione specifica” si concretizzava, come si è visto sopra, solo nel caso in cui l’imputato emettesse istruzioni specifiche che i crimini venissero commessi.

Sierra Leone

Ma questa svolta conservatrice del TPIJ non era destinata a durare a lungo, anche a causa della natura volatile del diritto internazionale, dove decisioni passate non costituiscono un precedente obbligatorio per giudizi futuri.

Infatti, già nell’autunno del 2013, un altro Tribunale internazionale, la Corte Speciale per la Sierra Leone (CSSL), nel valutare la responsabilità dell’ex presidente liberiano Charles Taylor per la complicità nei crimini commessi nel conflitto civile della Sierra Leone, rigettò esplicitamente il criterio della direzione specifica stabilito dal TPIJ nei casi Perišić e Stanišić/Simatović.

La difesa del presidente liberiano aveva infatti utilizzato il criterio della direzione specifica coniato dal TPIJ per sostenere che il sostegno prestato da Taylor ai ribelli sanguinari della Sierra Leone, famosi nel mondo per le pratiche di reclutare bambini soldato e mutilare gli “oppositori politici”, non era stato diretto alla commissione di quei terribili crimini. Ma nel settembre 2013 la camera d’appello della CSSL confermò la responsabilità di Taylor, rigettando l’interpretazione di complicità del TPIJ e rendendo Charles Taylor il primo capo di stato condannato da un Tribunale internazionale dai tempi di Norimberga— tra l’altro per crimini commessi in un altro paese.

In un clamoroso dietrofront, forse incoraggiato dalla decisione del CSSL, o più probabilmente per via dell’arrivo di nuovi giudici al tribunale, anche il TPIJ ritrattò in due casi successivi (Sainović e Popović) la sua precedente posizione sul criterio della direzione specifica, tornando ad un’interpretazione più ampia del concetto di complicità. La decisione di questo 15 dicembre nel caso Stanišić e Simatović è quindi la terza in cui il TPIJ conferma questa ritrattazione.

L’importanza della decisione in appello nel caso Stanišić e Simatović

Quindi perché la decisione di questo dicembre nel caso Stanišić e Simatović è così importante?

Anzitutto, questa decisione sembra decisamente segnare la fine di un pericoloso precedente: l’interpretazione restrittiva del concetto di complicità nel diritto internazionale. Con questa sentenza, infatti, ci sono ormai precedenti sufficienti per guidare le Corti internazionali verso un’interpretazione più ampia del concetto di complicità, facilitando l’attribuzione di responsabilità anche in contesti ambigui dal punto di vista legale, tipici delle guerre contemporanee.

In secondo luogo, il caso aveva assunto un valore simbolico insieme ai casi di Gotovina e Perišić. In questi ultimi, gli ufficiali processati (rispettivamente, un famoso generale croato sospettato di essere coinvolto nella pulizia etnica effettuata durante l’operazione Tempesta, e un ufficiale dell’esercito jugoslavo accusato di essere complice nei crimini commessi dall’esercito serbo-bosniaco in Bosnia Erzegovina) avevano evitato pesanti condanne del Tribunale grazie alle decisioni di appello che, seguendo una diversa interpretazione della legge, li avevano scagionati da tutte le accuse. Molti ora stanno già commentando che Stanišić e Simatović non sono stati così fortunati, poiché potrebbero essere condannati in seguito alla riapertura del processo.

Questa oscillazione del Tribunale tra soluzioni giuridiche piuttosto diverse tra loro dimostra la presenza di un elemento di arbitrarietà nelle decisioni delle Corti, e ribadisce il fatto che nemmeno loro sono completamente immuni da motivazioni politiche.

Ma il punto forse più importante è che, come ricorda l’esperto del Tribunale internazionale Marko Milanović, questo è l’ultimo caso del TPIJ in cui la responsabilità di ufficiali serbi per crimini commessi da serbi di Croazia e di Bosnia Erzegovina potrebbe essere stabilita, avendo il Tribunale finora fallito in casi precedenti, ad es. in quello Milošević e nel già menzionato Perišić.

Se Stanišić e Simatović fossero giudicati colpevoli nel corso del nuovo processo, infatti, verrebbe stabilito il legame tra Belgrado e i crimini commessi in Croazia e in Bosnia Erzegovina durante la guerra, sanzionando cosi legalmente il diretto coinvolgimento dello stato serbo nei conflitti degli anni 1990 in quei paesi.


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