Una veduta di Gabicce Mare (© Massimo Campanari/Shutterstock)

Una veduta di Gabicce Mare (© Massimo Campanari/Shutterstock)

A piedi e in bicicletta lungo il promontorio che va da Gabicce a Pesaro, tra i profumi dell'Adriatico e di un giugno molto particolare. Continua la nostra esplorazione del mare che accomuna

30/06/2020 -  Fabio Fiori

L'incedere delle stagioni rinnova il nostro amore per il paesaggio.

“Furioso fumoso verde di giugno / tradimento del possibile - / fedeltà e dono di tutto l'impossibile”, ha scritto Andrea Zanzotto. Un verso di “HAIKU For a season | Per una stagione”, il libro che mi accompagna in un giorno di giugno trascorso a pedalare e camminare, per strade e sentieri sul promontorio che va da Gabicce a Pesaro, da qualche anno Parco Naturale del Monte San Bartolo. Una ventina di chilometri di falesie d'arenaria a picco sul mare, il primo incontro tra l'Appennino e l'Adriatico. Ma anche un incontro ravvicinato tra il mondo peschereccio e contadino, almeno fino alla metà del Novecento. Promontorio stretto a nord e a sud dalla morsa edilizia balneare, di cui Gabicce Mare è archetipo nel bene e nel male del boom, mentre Pesaro è specchio di un difficile ma affascinante connubio tra architetture differenti.

Parto dalla palata, dal molo di levante costruito alla fine dell'Ottocento sulla foce del torrente Tavollo che segna il confine amministrativo tra Romagna e Marche. Un confine regionale che inaspettatamente s'era chiuso nelle lunghe settimane di lockdown. Perciò sembra ancora più fresca l'aria di queste prime giornate di giugno. I turisti sono praticamente assenti, mentre c'è un tardivo fervore prestagionale. Una barista lava sedie e tavolini, un albergatore pulisce la vetrata della sala, un bagnino imbianca una cabina. Ha il sapore degli anni Cinquanta questa incerta stagione balneare che ci attende.

Un'atmosfera che si fa musicale, fuori dalla porta sbarrata di quello che era l'“Eden rock”, night club, che ha fatto la storia delle spensierate notti adriatiche del dopoguerra, mentre da una persiana semichiusa lì vicino sento la voce di un giovanissimo Peppino Di Capri cantare: “Tu sei l'orizzonte / Senza nuvole / Tu sei l'infinito / Della musica / Unica ragione / Della vita mia / Dai respiro / A tutti i sogni miei”. Le ceramiche delle colorate case che si stringono nel borgo antico di Gabicce Monte ricordano l'età delle vele al terzo, nomi e soprannomi di un'antica genia di pescatori. Uscendo in bici o a piedi, dopo aver fatto il giro dell'orizzonte, nell'omonima via, si deve senza meno prendere lo stretto viottolo del Turco, per entrare nel modo più suggestivo nella Strada Panoramica Adriatica, un capolavoro viario. Un tortuoso, spettacolare su e giù sulla falesia, dove lo sguardo si perde tra le azzurrità adriatiche a levante e le verdità appenniniche a ponente, nelle mille sfumature dei coltivi rimasti e delle selvatichezze ritrovate, nell'ultimo mezzo secolo. Se il colore e l'odore del selvaggio è in questi giorni quello delle ginestre, il colore e l'odore del coltivo è invece quello del coriandolo. Un'afrore d'oriente, che rende ancora più struggente la luce bizantina di questo pomeriggio di giugno. Poco prima di Casteldimezzo, lascio la bici sul bordo della strada per salire al “Tetto del Mondo”, un pianoro da cui si vede tutto il promontorio e ben oltre, in ogni direzione. Da lassù, guardando il mare verso ponente anche io cerco qualche traccia della mitica Conca “città profonda”, un'altra variante locale del mito atlantideo. Chiamata anche Crustumium o Valbruna ha una letteratura e addirittura una cartografia che risale al tardo medioevo. Ma se la leggenda rimane avvolta da un alone di mistero, l'erosione costiera da cui potrebbe aver avuto origine è da quassù un fatto indiscutibile e ancora vivissimo.

Lotta ancestrale tra la terra e il mare che ha tragicamente dato un secondo significato anche al toponimo Casteldimezzo. Infatti se in origine il nome lo si lega alla sua posizione intermedia tra Fiorenzuola e Gabicce o tra Fiorenzuola e Gradara, comunque a metà di una linea difensiva consolidatasi nei secoli, l'originario Castello si è poi dimezzato nel Seicento. Dell'antico splendore militare rimane solo una minima parte della cinta muraria. Intatta è invece la forza del Santuario del Santissimo Crocifisso, nella sua austera semplicità. Il piccolo prato esterno invita ad un riposo ristoratore e meditativo, prima di entrare per recarsi al cospetto del crocifisso quattrocentesco. Capolavoro d'arte veneziana, attribuito allo scalpello di Antonio di Buonvicino e al pennello di Iacobello del Fiore, icona di una lunga storia di ardimentose navigazioni e tragici naufragi. Perché il crocifisso venne ritrovato in riva e conteso tra gli abitanti di Casteldimezzo e Fiorenzuola; fu una coppia di buoi a risolvere la diatriba. Dello stesso periodo è la preziosa pala d'altare, raffigurante la Madonna col Bambino affiancata dagli originari santi a cui la chiesa era dedicata: S.Apollinare e S.Cristoforo, che ha in spalla un altro bambino aureolato, un secondo Gesù? I due si guardano e mi interrogano sulla possibile dualità della fede e su quella certa della vita. Con fedeltà laica a Cristoforo, santo dei viaggiatori, mi rimetto in sella verso Fiorenzuola di Focara, che già nel toponimo rimanda a un antichissimo mondo mediterraneo, quando su porti, punte e promontori s'accendevano fuochi utili e sacri ai naviganti. Il borgo e le mura che lo stringono sono più grandi di quelli di Casteldimezzo, ma anche qui i crolli hanno segnato la storia. La Torre dell'Orologio, nel punto più alto, è stata costruita rimaneggiando il rudere del campanile della Chiesa di Sant'Andrea. Mi fermo a mangiare due albicocche e qualche mandorla sui gradini del sentiero che scende al mare. Il cigolio del segnavento sulla torre è foriero del verso dantesco dedicato al temibile vento della Focara.

Lungo la strada che va verso la frazione di Santa Marina Alta nuovi vigneti s'alternano a campi di grano e orzo, di coriandolo, erba medica e maggese, rinnovando una lunga tradizione contadina. Passata Santa Marina Alta, dopo un belvedere che allarga lo sguardo sul porto di Pesaro e verso sud lungo tutta la costa marchigiana sino al Conero, appare il Faro di San Bartolo, ricostruito dopo la distruzione tedesca perpetrata alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Se si lascia la strada principale, si scende verso Pesaro per la stradina dei Cipressi che diventa di San Bartolo. Un viottolo di campagna che tocca l'ex-Convento dei Girolamini e Villa Imperiale, due luoghi legati alla importante storia rinascimentale della città e della sua capitale: Urbino sede del governo ducale per secoli.

“Niente più confini tra Romagna e Marche”, titolano le locandine dei quotidiani locali. E quale miglior luogo per festeggiare la ritrovata libertà adriatica del lungo, nuovo molo di levante di Pesaro? Una piazza acquea, una sciabola bianca stretta questa sera nel ceruleo adriatico, vivacizzata da uno spensierato andirivieni feriale. Mi siedo sulla scogliera e riapro il libro. A matita mi permetto di sostituire una sola parola, in un altro luminoso haiku di Zanzotto: “Chi pedala così lentamente la bici raggiante / nei vasti sentieri [prati] lontani, là sui confini? / Forse cercava pepite, forse sapeva”. Chiudo gli occhi, il libro e il viaggetto, “Risentendo le parole di giugno / come se fossero le mie stesse parole / come se fossero le parole di un altro giugno”, in riva al mare.

Il dossier

Sono trascorsi vent'anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d'Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell'Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell'Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall'idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l'Adriatico non è ancora un mare d'Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo - grazie alla collaborazione con Fabio Fiori - il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai al dossier


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