La moschea distrutta nel 1993 - Fotografia fornita per gentile concessione dell'ICTY

La moschea distrutta nel 1993 - Fotografia fornita per gentile concessione dell'ICTY

Dopo la sentenza di assoluzione di Ante Gotovina e Mladen Markač emessa dal Tribunale dell’Aja nel 2012, e soprattutto dopo l’adesione all’UE nel 2013, la Croazia ha completamente rimosso i crimini commessi dai membri dell’esercito e della polizia croata, e del Consiglio di difesa croato, compreso il crimine di Ahmići

18/04/2023 -  Ivica Đikić

(Originariamente pubblicato sul portale Peščanik , il 15 aprile 2023)

All’alba del 16 aprile 1993 i membri della polizia militare e dell’unità speciale Jokeri del Consiglio di difesa croato [HVO, esercito croato-bosniaco] attaccarono il villaggio di Ahmići, nei pressi di Vitez, nella Bosnia centrale. Nel villaggio vivevano circa ottocento bosgnacchi. Nelle ore di orrore che seguirono, vennero uccise oltre cento persone, perlopiù civili: donne, anziani, bambini. La vittima più giovane aveva tre mesi, quella più vecchia ottantun anni. Furono distrutte e date alle fiamme più di centocinquanta case e stalle, furono anche minate due moschee del villaggio. L’immagine di una delle moschee, spezzata dall’esplosione come se fosse una penna, fece il giro del mondo. Nel frattempo, tutte le persone condannate per il crimine di Ahmići sono uscite dal carcere, compreso Dario Kordić, durante la guerra padre padrone di una parte della Bosnia centrale controllata dai croati, condannato dal Tribunale dell’Aja a venticinque anni di reclusione. In carcere – dove, come da lui stesso affermato, per ben due volte gli apparve Gesù Cristo – Kordić si è lasciato completamente andare al fanatismo religioso, tanto che, una volta tornato in libertà, è diventato un ospite benvisto delle manifestazioni cattoliche e dei monasteri di tutta la Croazia e la Bosnia Erzegovina.

A distanza di trent’anni dalla strage di Ahmići, i croati in Bosnia Erzegovina, come anche in Croazia, non sono riusciti a trovare la forza morale e mentale per fare i conti con la verità su uno dei più efferati crimini perpetrati durante le guerre degli anni Novanta. Anche ammettendo che il massacro fosse stato conseguenza della follia di alcuni individui carichi di odio, di quella spirale di malvagità e vendetta che nel 1993 aveva inghiottito sia l’HVO sia l’Armija BiH nella Bosnia centrale, dove entrambi gli eserciti terrorizzavano e barbaramente uccidevano la popolazione locale, resta il fatto che la Repubblica di Croazia – insieme ai rappresentanti politici dei croati di Bosnia Erzegovina – si è sforzata di nazionalizzare il crimine di Ahmići, ossia di addossare ad un’intera nazione la responsabilità di un’atrocità commessa da un gruppo di soldati dell’HVO assetati di sangue. A quella nazione non sono bastati nemmeno trent’anni per imparare ad affrontare i propri peccati in modo responsabile, maturo e autoriflessivo. Lo stesso vale per i crimini commessi dall’esercito croato contro i serbi dopo l’operazione Oluja: ciò che le autorità statali fecero – o non fecero – dopo essere venute a conoscenza di omicidi, distruzioni e rapine, dimostrò chiaramente che non si era trattato di incidenti e atti di vendetta isolati, bensì sostanzialmente di azioni compiute con la tacita approvazione del potere, così come le misure amministrative adottate dopo Oluja confermarono che lo scopo di quell’operazione, oltre alla liberazione del territorio, era di ridurre in modo drastico e permanente la popolazione serba della Croazia.

Negli anni Novanta, la leadership politica croata, guidata da Franjo Tuđman, in un primo momento cercò di presentare il crimine di Ahmići come un raggiro ai danni dei croati o come una messinscena orchestrata dai membri delle forze di pace britanniche che per primi denunciarono il massacro. Successivamente, furono avanzate delle ipotesi secondo cui il villaggio di Ahmići sarebbe stato un legittimo obiettivo militare in quanto roccaforte dell’Armija BiH, volendo così suggerire che, anziché essere finalizzata al compimento di un crimine pianificato, quella operazione sanguinosa fosse conseguenza della perdita di controllo [del territorio]. Dario Kordić e alcuni dei principali mandanti ed esecutori diretti del crimine godevano di una protezione politica, venendo persino insigniti di varie onorificenze statali, fino a quando, nella seconda metà degli anni Novanta, le pressioni internazionali su Zagabria non divennero insopportabili. Nel 1997 Tuđman organizzò la consegna di Kordić e dei suoi compagni all’Aja. Parallelamente però i servizi di controspionaggio militare e i servizi segreti civili, questi ultimi all’epoca guidati da Miroslav Tuđman, il figlio primogenito di Franjo, avviarono un’operazione finalizzata a ostacolare le attività del Tribunale dell’Aja, selezionando attentamente i documenti [da consegnare al Tribunale] con l’intento di addossare la responsabilità a persone a cui il regime di Tuđman non teneva tanto quanto a Kordić e la sua cerchia. Le famiglie dei “prigionieri dell’Aja” furono materialmente sostenute a spese dello stato. Allo stesso tempo, in Croazia, fino all’autunno del 2000 sotto falsa identità vivevano alcune persone legate al crimine di Ahmići, in una casa dello stato e godendo della protezione dei servizi segreti militari. Questa congiura di stato venne svelata soprattutto grazie agli sforzi di Anto Nobilo, avvocato zagabrese che davanti al Tribunale dell’Aja difese Tihomir Blaškić, generale dell’HVO al quale Zagabria e Mostar cercarono di attribuire il ruolo dell’unico militare di alto rango responsabile dei crimini commessi dall’HVO nella Bosnia centrale.

Nell’aprile del 2010, l’allora presidente della Croazia Ivo Josipović si recò ad Ahmići per inchinarsi davanti al monumento in memoria delle vittime del massacro. Insieme a Josipović si inchinò anche il cardinale di Sarajevo Vinko Puljić, il quale in precedenza per ben due volte aveva visitato Kordić nella città di Graz, in Austria, dove quest’ultimo stava scontando la pena comminatagli dal Tribunale dell’Aja.

“Secondo un’etica troglodita, le vittime altrui non sono degne di alcuna attenzione né compassione, la cosa più facile è ignorarle, in realtà, queste vittime non sono mai esistite, sono frutto di menzogna e propaganda, ma anche se fossero esistite, sarebbe stato un perfido fattore esterno ad attribuirle a noi, un fattore potente, perennemente impegnato in una cospirazione contro di noi. Tante volte abbiamo visto questo tipo di etica concretizzarsi nell’opinione pubblica croata relativamente alla strage dei musulmani ad Ahmići a cui sono legate l’imputazione e la condanna a carico di Kordić: non furono ‘i nostri cavalieri’ a farlo, fu una fregatura ideata dai britannici, i nostri vecchi nemici, con l’intento di demonizzare il popolo croato… Simili dichiarazioni non contengono mai alcuna riflessione sulle vittime, sulle loro sofferenze, sull’empatia nei loro confronti”, scrive il letterato Ivan Lovrenović nel suo testo Gesù ad Ahmići , che è anche il titolo di una sua raccolta di saggi pubblicata nel 2015. “Gesù come lo conosciamo dai Vangeli, negazione viva e radicale dell’etica tribale dei nostri ‘eroi’ e dei loro sacerdoti cattolici, rivolto agli essere umani in quanto tali e alla loro sofferenza, dimostrerebbe interesse per i bambini, le donne, le persone che furono uccise in nome della giustizia di Dio e lasciate giacere nelle case e nelle mahale di Ahmići. Lo possiamo concepire con certezza. Non credo che tale Gesù possa comparire nelle visioni degli ‘eroi della Guerra patriottica croata’”.

L’atto di Josipović non ha lasciato alcuna traccia profonda nella società croata. Dopo la sentenza di assoluzione di Ante Gotovina e Mladen Markač emessa dal Tribunale dell’Aja nel 2012, e soprattutto dopo l’adesione all’UE nel 2013, la Croazia ha completamente dimenticato i crimini commessi dai membri dell’esercito e della polizia croata, e del Consiglio di difesa croato, compreso il crimine di Ahmići. Negli ultimi anni, anche gli scontri politici tra croati e bosgnacchi della Federazione BiH hanno contribuito affinché i fatti di Ahmići cadessero nell’oblio. Non c’è alcuna indagine, alcun procedimento penale, non ci si impegna a nessun livello a sviluppare una consapevolezza collettiva del fatto che anche la “nostra” parte ha commesso crimini terrificanti; non c’è alcuna strada né piazza intitolata alle vittime di Ahmići, non ci sono libri, film, discussioni… Come se nulla fosse accaduto. E il fatto che tutti i popoli e le correnti dominanti di tutte le società coinvolte nelle guerre post-jugoslave degli anni Novanta si comportino più o meno allo stesso modo non porta alcuna consolazione, tutt’altro!

Società civile

Il 15 aprile a Zagabria in piazza Ban Josip Jelačić le associazioni Centro per le donne vittime di guerra - ROSA, Centro per il coraggio civile, Associazione per la ricerca sociale e la comunicazione (UDIK) di Sarajevo, Documenta - Centro per affrontare il passato, Indirizzo regionale per l'azione nonviolenta (RAND), Sense - Centro per la giustizia di transizione di Pola, Centro per gli studi sulle donne, Zagabria e la Rete delle donne della Croazia hanno ricordato il crimine di Ahmići. Le associazioni hanno chiesto al presidente della Repubblica di Croazia e al primo ministro di "prendere pubblicamente le distanze dai crimini di guerra commessi in nostro nome e fermare la sistematica politica di relativizzazione, negazione e minimizzazione dei crimini di guerra". Inoltre chiedono "scuse chiaramente formulate e l'intitolazione di una piazza a Zagabria alle vittime di Ahmić. Solo quando il crimine di guerra ad Ahmići entrerà a far parte del sistema educativo croato potremo dire che siamo sulla strada della giustizia, della responsabilità e della costruzione della pace. La colpa per un crimine è individuale, ma la verità sui crimini di guerra è una responsabilità collettiva, nostra", concludono. (Fonte H-Alter )


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