Ivo Andrić  © Prachaya Roekdeethaweesab/Shutterstock

Ivo Andrić  © Prachaya Roekdeethaweesab/Shutterstock

È nelle librerie La vita di Isidor Katanić, breve romanzo di Ivo Andrić, tradotto da Alice Parmeggiani, pubblicato per i tipi dell’editore Bottega Errante. Una recensione di Božidar Stanišić, autore della postfazione

17/04/2020 -  Božidar Stanišić

Nel suo breve romanzo La vita di Isidor Katanić (titolo originale è Zeko1, Il coniglietto) Andrić ha compreso il periodo fra le due guerre mondiali e il tempo dell’occupazione tedesca di Belgrado. Il ruolo del protagonista è affidato a Isidor Katanić, un semplice cittadino, un anonimo e insignificante impiegato, che sin dall’infanzia vive a Belgrado, dove ha avuto la disgrazia di incontrare Margita. Nel matrimonio con quella proprietaria di un immobile di abitazione naufragano ben presto anche gli ultimi sogni di gioventù di Isidor Katanić, quando si immaginava di poter diventare pittore, cantante d’opera, forse anche poeta, senza sognarsi che sarebbe stato solo un calligrafo che dubitava anche del proprio dono di una bella scrittura. Reduce dalla Prima guerra mondiale, tornato in patria si scopre non solo marito, ma anche padre di un figlio nato in straordinarie circostanze belliche.

Per Isidor Katanić la situazione senza via d’uscita è l’inferno della sua famiglia, la vita con egoisti di scarso intelletto e dall’anima meschina: la moglie Kobra e il figlio Tigar. L’inferno ha certamente una porta d’entrata, ma Andrić non dimentica che i luoghi più terribili devono avere anche l’altra porta, quella d’uscita. Dopo diversi anni di sofferenze nell’insopportabile ambiente familiare e nel grigiore del suo luogo di lavoro, all’inizio degli anni Trenta, egli scopre a un tratto, introdotto dal suo vecchio commilitone capitan Mika, il fiume Sava e il mondo che vive sulle sue sponde. Otto anni più tardi la sua vita è illuminata da un’altra luce: il trasferimento a Belgrado della famiglia di sua cognata Marija. Nella famiglia di quella donna, per nulla somigliante a sua sorella, e del suo discreto e taciturno marito, l’ingegner Doroški, e soprattutto in compagnia dei loro figli, egli trova tutto ciò che non sperava neppure di poter più trovare nella propria famiglia – una casa, amore, rispetto, gioia e sollecitudine. Un poco alla volta quella famiglia diventa “la sua”. Con i figli di Marija, che accolgono l’idea del comunismo e operano illegalmente prima e durante la guerra, Isidor Katanić, malgrado i suoi dilemmi, aderisce alle idee del movimento di liberazione. A un tratto ha scoperto di non essere davvero irrilevante; falsificando vari documenti e permessi, si rende conto che anche la calligrafia può servire a un obiettivo superiore: la liberazione dagli occupanti. In tempo di guerra, questo personaggio di Andrić, che in tempo di pace si era guadagnato il soprannome di Zeko, Coniglietto, in quelle circostanze straordinarie, si unisce alla generazione dei giovani ribelli e, a dispetto dell’età matura, sembra vivere la sua prima vera giovinezza. Con quelle ragazze e ragazzi risoluti egli diviene un vero protagonista della Storia in Movimento, dalla sua parte più bella e più luminosa.

Con un particolare procedimento narrativo, lo scrittore guida il suo impiegato dell’Ufficio delle onorificenze reali fino a tre spartiacque esistenziali e spirituali: il primo è la scoperta del fiume e del mondo che vive sulle sue sponde, il secondo è il ritrovamento di un diverso, ma per lui unicamente affine, ambito domestico, del tutto opposto alla vita nel suo zoo familiare, il terzo è la consapevolezza dell’importanza di resistere al male e all’oscurità. Dalla rassegnazione di fronte alla sua mala sorte, attraverso l’osservazione, e poi la partecipazione alla vita della gente del fiume egli, gradualmente ma con sicurezza, si appropria di una filosofia dell’agire in cui scopre uno alla volta i mezzi della lotta contro l’assenza di una via d’uscita.

Il protagonista del romanzo, ricordiamolo, ritrova se stesso sul fiume Sava, che scopre del tutto casualmente, come se davvero non l’avesse mai visto e ancor meno percepito, anche se, come per tutti i belgradesi, è sempre stato a portata di mano. Quindi, il Caso, come un re, interpreta il suo ruolo guidando Isidor Katanić non solo verso l’acqua, ma anche verso la gente che vive accanto al fiume e del fiume. Sono uomini ai margini della società, ma per lui più autentici dei cittadini che in gran parte vivono la propria routine, e spesso la propria ipocrisia. Come stesse dietro l’obiettivo della macchina da presa, Andrić nota ogni particolare essenziale della vita e dei caratteri della gente della sponda della Sava. Una dietro l’altra si susseguono, detto con il linguaggio della pittura, miniature di persone e di destini. Per la sua eccezionalità, anche la famiglia di Marija a suo modo è vicina al mondo autentico del fiume, ma i suoi figli sono molto più vicini al Fiume della Storia; ma non vogliono solo osservarlo, bensì anche tuffarvici. Leggendo di quel fiume, siamo testimoni dei sacrifici che affrontano, ma anche di quello di Isidor, alla fine del romanzo, nel fiume reale, sul quale era riuscito a ritrovare se stesso.

Sono rari gli scrittori slavi meridionali che hanno sperimentato una sorte postuma2 analoga a quella di Ivo Andrić nella sua (ex) patria, e questo malgrado il fatto che si tratti di un narratore appartenente alla pleiade dei Nobel che non sono stati dimenticati e le cui opere ancor oggi si pubblicano e si leggono in tutto il mondo. In ogni caso, lasciamo che questa volta ciò rimanga ai margini. Penso sia più importante rivolgere l’attenzione al cosiddetto discorso postcomunista nella ricezione dell’opera di Andrić, in cui non manca la proverbiale ricerca del pelo nell’uovo. In quel discorso anche questo romanzo breve ha trovato il suo posto. Nelle critiche in genere non si nega la validità narrativa dell’opera, ma, forse per l’ormai consueta abitudine di sputare sul passato di un paese che non esiste più sulla carta d’Europa (nel quale, a quanto pare, vivevano solo questo scrittore e pochi altri con lui!), non si fa a meno di sottolineare la presunta concessione di Andrić alle richieste dottrinarie dell’ideologia dominante del tempo. Forse sbaglio, ma finora non mi sono imbattuto in un’analisi più dettagliata di questo aspetto. Quindi, manca una risposta alla domanda più semplice, a quel perché? che ciascuno di noi dovrebbe indirizzare ai critici. Soprattutto per il fatto che il “morto” Andrić è continuamente sottoposto a strani, spesso anche grotteschi “microscopi”, mentre autori “vivi”, definiti “grandi” e “importanti” nei giudizi della critica servile, nel calderone della mistura attuale di sottocultura e pseudo letteratura ex-jugoslava si godono la loro posizione. Tuttavia, voglio credere che il tempo sia il miglior giudice e che la posizione di quelle mediocrità sia del tutto precaria.

Le immagini di Andrić della Belgrado durante la guerra sono fra le più convincenti della letteratura serba. È convincente anche quando presenta delle variazioni dei suoi antichi motivi, fra i quali vale la pena di ricordare almeno quello della ricerca di isolamento del suo Isidor Katanić. Il piccolo terrazzo sul quale egli riflette sul mondo e su se stesso corrisponde perfettamente al motivo della prigione del bellissimo racconto Il ponte sulla Žepa, dove il suo visir Jusuf, deposto dal potere, per la prima volta nella sua vita ricerca la verità su di sé e sugli altri. Penso che anche in Zeko Andrić rimanga il narratore che si aspettano i lettori delle sue opere più note. Ed è così fino alla penultima frase del romanzo, nel quale questo grande osservatore di personaggi, ambienti e storie, a dispetto di quel punto scadente, neppure questa volta ci ha tradito.

E mentre scrivo queste righe, mi pare di vedere lo scrittore mentre si tormenta per scrivere la fine e si china sul manoscritto, chiedendosi se rinunciare alle parole che, gli sembra, non riescono ad uscire: Quell’estate continuarono a sviluppare e ad ampliare la loro azione, seguendo le indicazioni che ricevevano, sempre più rapidamente e arditamente, e a contribuire alla liberazione generale che si avvicinava. Sì, quella è la concessione ai tempi che corrono, un momento di conformismo, nel quale tuttavia c’è dell’implicita ironia.

È vana la critica che attraverso le figure dei giovani comunisti, dei partecipanti alla resistenza, Andrić si accattivava i favori del nuovo potere. Se solo analizziamo quei ritratti, troveremo motivi validi per pensare il contrario. Nel ritratto della figlia di Marija, Jelica, dal cui volto, non appena ha abbracciato l’ideologia comunista, è sparito il sorriso, riconosceremo il rigorismo dei futuri vincitori e dei commissari, inflessibili nella loro volontà di “cambiare” definitivamente il mondo e di creare l’uomo nuovo. In ogni caso, Andrić, al quale nulla sfugge dal proprio campo visivo, in quei giovani della resistenza vede l’unica speranza nella lotta contro il male.

C’è forse qualcosa di artificiale nella metamorfosi di Isidor Katanić? Non è forse vero che così tanti cosiddetti uomini comuni, non solo in Serbia e a Belgrado, ma in tutta la Jugoslavia occupata, risposero al male di quei tempi bui con un’attiva resistenza? Zeko è solo uno fra i tanti che non poterono, davanti alla visione quotidiana degli impiccati nel centro di Belgrado, restare indifferenti e, per parafrasare lo scrittore, continuare a bere e a mangiare nei caffè non lontano da quelle scene. E l’indifferenza – lo sappiamo, ma è meglio ricordarlo – uccide gli interrogativi sul nascere, e anche l’interrogativo forse più grande, quello sul Bene e sul Male, dal quale non ci salva neppure la fuga nell’oblio. Pusillanime oblio, dice lo scrittore.

Alla fin fine, dal momento che Zeko ha “meritato” tante critiche, possiamo “criticare” Andrić perché con questa opera ci ha lasciato anche riflessioni tristemente profetiche sulle divisioni fra i popoli della Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale e i miserabili governi collaborazionisti. A questo punto, “critichiamolo” anche per l’intera tragedia del collasso della Jugoslavia, delle guerre fratricide e dei pessimi rapporti politici ed etnici postbellici, dei quali, soprattutto nel triangolo Zagabria-Belgrado-Sarajevo, neppure oggi si vede la fine.

Infine, solo una piccola aggiunta: in questo breve romanzo Andrić è ciò che è: uno scrittore che segue la sua strada, fedele all’immagine della realtà che vede e al frutto della sua ponderazione sulla Storia, ma anche all’autocritica3 della propria disperazione e della propria angoscia.

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Due frammenti:

La finestra aperta della cucina dava su un terreno ripido sul quale era stata costruita la casa vicina, in alto, con la facciata su via Kneza Miloša. Si mise a fissare quella parte scoscesa coperta di erbacce che chiudeva la vista, ma anche questa vibrava della sua stessa irrequietudine.

In lui nacque l’idea di uscire e di andare di nuovo a Terazije, il centro da cui si irradiava quell’inquietudine con cui si potevano fare i conti solo là, alla fonte. Ma anche quell’idea era solo parte integrante di quell’inquietudine, un pensiero impotente non in grado di farlo agire e di condurlo a una via di uscita. E come avrebbe potuto farlo, così solo, in quell’agitazione che lo tormentava e lo spingeva da un posto all’altro, senza dire o risolvere nulla?

Sì, non c’è né via d’uscita né soluzione, e tutta la sua coscienza è inondata da ciò che ha visto a Terazije. Ammazzano uomini! Ne ammazzano alcuni, mentre gli altri se ne stanno seduti davanti ai caffé e mangiano e bevono, lì sotto le forche, si occupano dei propri affari o si rifugiano in casa, per non vedere, non sentire, non sapere. Anche lui è così, ma ora ha visto con i suoi occhi, e da ciò che ha visto non potrà più prendere le distanze né liberarsi. Ora tutto ciò è dentro di lui, insopportabile, ma ineluttabile. Così, cercando una via d’uscita, guardava dalla finestra della cucina un profondo canale sotto di lui e il ripido terreno che si alzava davanti alla finestra, verticale come un muro, a causa del quale la cucina era una stanza buia senza sole.

(…)

La maestria calligrafica di Zeko si dimostrò molto utile. Egli riproduceva abilmente documenti, copiava firme su carte di identità e certificati, portava a termine tutti i lavori per cui era richiesta quell’arte e una particolare coscienziosità e pazienza.

Iniziò con gli attestati di esonero dal “Servizio di lavoro obbligatorio”. Quando il cosiddetto Governo serbo, su ordine dell’occupante e nel suo interesse, organizzò quel servizio e iniziò a reclutare tutti i giovani, si sviluppò un’intera azione per liberarli da quella vergognosa prestazione. Lo si faceva in vari modi. Uno dei modi era il seguente.

Il reclutamento avveniva presso il Comando dei Vigili del fuoco in via Bitoljska. In una grande sala attorno a un tavolo era seduta la commissione con il medico. I giovani erano allineati su una lunga fila, che dal corridoio attraversava l’intera sala, passava davanti a un altro tavolo, fino al medico che eseguiva la visita, tutti uno dietro l’altro. Uno o due compagni si inserivano in quella fila e quando si trovavano davanti al tavolo dove c’erano i moduli su cui la commissione scriveva i certificati di idoneità o non idoneità, essi si appropriavano di nascosto di quanti più moduli potevano e poi, come casualmente e temporaneamente, uscivano dalla fila e si dileguavano all’esterno.

Quei moduli vuoti venivano compilati con i nomi dei compagni che non erano registrati in comune e che altrimenti non avrebbero potuto circolare né vivere in città, poiché la polizia arrestava qualsiasi giovane che non avesse il documento che attestava il suo svolgimento del servizio oppure la sua non idoneità.

Su quei moduli, copiando da un originale, Zeko imitava abilmente le firme del medico e del presidente della commissione.

Quando eseguì per la prima volta quel lavoro, Zeko appoggiò la penna e rimase assorto davanti al documento falsificato. Rimase così seduto a lungo, con la mano destra sul tavolo. Guardava la sua mano, come se la vedesse realmente per la prima volta in vita sua. Mai, da quando disegnava e scriveva, quella mano era stata usata in modo più giusto e più utile, e il certificato falso sotto di essa era la prima cosa davvero utile e buona che avesse compiuto. Gli piaceva stare così con la mano sopra il suo piccolo lavoro; e avrebbe voluto continuare a creare fino allo sfinimento quei buoni e onesti documenti falsi.

 

Note:

1. Anche se ha tutte le qualità del romanzo breve, lo scrittore considerava quest’opera un racconto lungo. Fu pubblicato nel 1948, secondo molti un anno poco felice nella vita e nell’opera di Andrić. E davvero quell’anno, dando il suo “contributo” al rinnovamento e alla costruzione della nuova Jugoslavia, pubblicò i suoi racconti più scadenti: Dedin dnevnik, Elektrobih, Sjeme iz Kalifornije – scritti nello spirito del realismo socialista. Consapevole di quel fallimento, Andrić non volle inserirli nelle sue opere scelte. Neppure oggi sono rari i critici che, senza alcun reale fondamento, e ripetendosi in genere fra loro, a questi racconti associano anche Zeko.

2. A lui aggiungo Danilo Kiš e Miroslav Krleža, ricordando che le sconfessioni sul conto di Ivo Andrić, soprattutto in Bosnia, non escono dall’ordine del giorno dei nazionalisti bosgnacchi.

3. Secondo Dušan Puvačić si tratta di un’autocritica specifica per il fatto che Andrić non partecipò alla resistenza armata. Puvačić sostiene che Isidor Katanić è un alter ego di Andrić: il suo nome e cognome sono l’anagramma di isti kao Andrić, ossia “lo stesso di Andrić, identico ad Andrić” (The echoes of the Second War in Ivo Andric’s Prose, Serbian Studies, vol. 4, n. 4, 1988, pp. 5-21).


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