Beirut, calzolaio - foto di Paolo Martino

I passi lenti del professor Adakessian nei corridoi dell'università armena di Haigazian, Rafi e la sua fabbrica di scarpe nel centro di Beirut, il presente che si rifà vivo nelle foto d'epoca della Pobeda, nave russa che trasferì migliaia di armeni libanesi nell'Armenia sovietica. La terza puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

13/07/2012 -  Paolo Martino

“Non è la memoria collettiva, la lingua o la cultura a tenere vivo un popolo in esilio.” La mensa al secondo piano dell'università armena Haigazian, nella centralissima via Hamra di Beirut, è inondata di sole. “Un popolo sganciato dalla geografia sopravvive solo se riesce a sostituire al mito fondante delle origini un mito speculare: il mito del ritorno”. Il professor Adakessian parla lentamente, per permettermi di prendere appunti mentre pranziamo. “Quindi non chiedermi se davvero credo che un giorno tornerò insieme al mio popolo nelle mie terre, in Armenia occidentale. Io, come gli altri armeni libanesi, sono già nella mia terra. Però - conclude - quel mito è essenziale nel definire la nostra identità: ci ricorda da dove proveniamo”.

Dopo il 1915, mentre i sopravvissuti al genocidio armeno si stabilivano nel Medio Oriente arabo, il Libano irradiava la sua fama di Svizzera del Mediterraneo. Beirut diventava lo sbocco naturale per le attività in cui tradizionalmente si distinguevano gli armeni. Calzolai, sarti, tappezzieri, orologiai, orafi, fabbri, tipografi armeni arricchirono l'effervescente economia beirutina. Nell'arco di una generazione, superata la fase di sopravvivenza, la domanda interna di cultura, ricerca e trasmissione del sapere sfociò nella fondazione nel 1955 della Haigazian University, unica università armena dell'intera diaspora.

“Fino al dissolvimento dell'Urss e all'indipendenza dell'Armenia nel 1991 - riprende Adakessian, docente di storia del pensiero politico armeno - Beirut fu l'unica arena in cui la nostra comunità ha potuto esprimersi liberamente, definire obiettivi, strategie. Nella pur zoppicante democrazia libanese gli armeni hanno potuto creare partiti politici, sindacati, circoli intellettuali, gruppi di interesse: la testa pensante dell'intera comunità armena era qui. Questo purtroppo - conclude il professore - non evitò alla nostra gente grandi errori e sofferenza”. Dalla finestra alle sue spalle, la facciata del palazzo adiacente porta i segni di feroci scontri a fuoco.

Se il Cairo scrive, Beirut legge

Detto arabo

Campo profughi armeno, Aleppo, 1917. Ricovero per armeni, Tiro, 1917. Baracche armene, Beirut, 1918. Passeggiando tra i corridoi silenziosi della biblioteca, Adakessian traduce le didascalie delle foto che pendono dai muri, tra lunghi scaffali in cui migliaia di volumi in lingua armena si alternano a testi in francese, inglese e arabo. Le immagini raccontano un'umanità miserabile, fantasmi che si aggirano tra baracche spoglie. Una donna vestita di nero tira fuori dalla tinozza del bucato un unico panno informe, mentre un bambino siede nudo al suo fianco. “Questi furono i più fortunati. La maggior parte non ce la fece, uccisa dalla sete nei deserti della Siria o dai soldati ottomani durante le deportazioni”.

Resto solo nella sala di lettura, dove vetrate a sesto acuto si inseguono lungo le pareti e il tramonto satura l'aria di luce calda. Sfogliando libri fotografici ritrovo traccia dei racconti che ho raccolto finora. I profughi armeni di Musa Dagh montano una tendopoli ad Anjar, nel '39. Nel 1927 viene aperta una nuova scuola a Burj Hammoud. Una pattuglia israeliana percorre la zona di Dawra, 1982. Un'immagine in particolare cattura l'attenzione. Intere famiglie con bagagli al seguito sono in fila su un molo. La didascalia in inglese recita: “Partenza della Pobeda, 1948. La nave trasferisce migliaia di armeni libanesi nell'Armenia sovietica.” Migrazioni che si assommano a migrazioni, in cerca di un futuro così difficile da afferrare.

Dal mio diario. 10 ottobre

Esiste un filo invisibile teso dalla storia di questo popolo tra il Medio Oriente e i monti del Caucaso, che unisce il litorale afoso di Beirut ai viali alberati di Yerevan, attraversando il Sahel siriano e le colline dell'Hatay, spazzando verso nord-est gli altopiani dell'Anatolia e sfiorando i piedi dell'Ararat. In questa biblioteca, rifugio di una cultura che si perpetua in esilio, ho l'impressione che le categorie della storia e della geografia non procedano su un piano univoco, ma che in questa vicenda la simbologia, specialmente quella del ritorno, abbia negli annali un peso maggiore delle date, dei luoghi, delle testimonianze. Esplorare quella regione significherebbe addentrarsi nelle credenze ancor prima che nella geografia, nel mito ancor prima della storia. Nella nostalgia ancor prima che nel ricordo.

Le giornate di fine ottobre scorrono lente tra i vicoli di Burj Hammoud. La fabbrica di scarpe e i mille aneddoti di Rafi riempiono pomeriggi che si fanno ogni giorno più corti, mentre dalla vicina Siria arrivano notizie preoccupanti. “La Primavera siriana diventerà una guerra civile. E gli armeni resteranno presi nel mezzo, come in Libano trent'anni fa”. Rafi muove rapido le pedine sulla scacchiera del backgammon, il passatempo più diffuso. “Ma in Libano mi pare che tutto sommato ve la siate cavata bene”. Tocca a me muovere. “Sai, noi abbiamo optato subito per la neutralità e per l'autodifesa. 'Di giorno a lavorare, di notte in sentinella', questo era il nostro slogan. Ma non dimenticare un fatto”. I dadi volano. “All'epoca avevamo un protettore a cui era difficile dire di no, per chiunque”. In una mossa Rafi chiude la partita. “L'Unione sovietica”.

Nel 1979, in piena guerra civile, il fronte cristiano subì delle fratture interne e in cerca di nuove alleanze le Falangi bussarono alle porte degli armeni. “Volevano usare Burj Hammoud come deposito di munizioni, perché era l'unica area rimasta neutrale”. Al rifiuto degli armeni, le milizie sbarrarono le vie d'uscita del quartiere con i carri armati, minacciando di far piovere granate. “Ma a Bashir Gemayel, il loro leader, arrivò una telefonata di Andrey Kolotosha, l'ambasciatore sovietico”. Le voci tramandano che il diplomatico abbia rivolto a Gemayel un'unica frase, senza aspettare risposte: se non volete capovolgere le sorti della vostra guerra, andate via da Burj Hammoud. “Il mattino seguente l'assedio era sciolto. Ma oggi - mi chiede Rafi mentre sistema le pedine per un altro gioco - chi muoverebbe un dito per gli armeni della Siria?”

La strada da Beirut plana sulla valle della Bekaa dopo la discesa dal Monte Libano. Ad Anjar, il piccolo villaggio armeno dell'altopiano, i tremila abitanti aspettano un inverno che si preannuncia teso. “L'esercito siriano ha già sconfinato diverse volte in questa zona, rincorrendo i ribelli che vengono a rifugiarsi in territorio libanese”. Hrayer, la guida che da mesi mi accompagna nella valle, parla guardando l'Antilibano, la sottile dorsale montuosa che divide il suo villaggio dalla Siria. “Ma non perdiamo tempo, qualcuno è in attesa della nostra visita, come ti avevo promesso”.

A novantatré anni Angel è la cittadina più anziana di Anjar, una vita segnata da un lungo peregrinare. “Sono nata a Port Said, dove i profughi di Musa Dagh arrivarono nel 1915 per sfuggire ai soldati ottomani”. La regione di Musa Dagh, formata da sette villaggi armeni sulle alture di Antachia, riuscì per più di un mese a resistere alle truppe della Sublime porta, ispirando nel 1933 il romanzo di Franz Verfel I quaranta giorni di Musa Dagh. “Quando avevo un anno rientrammo a casa, perché i francesi avevano raggiunto Musa Dagh e cacciato i turchi. Ma vent'anni dopo i turchi sono tornati e noi siamo scappati di nuovo, stavolta per il Libano”.

Chiedo a Angel con chi divida l'appartamento, e lo sguardo si fa lucido: “Sono sola. I miei figli si sono sposati, e mia sorella Vartuhi partì per l'Armenia più di sessant'anni fa. Ricordo il giorno in cui l'accompagnai al porto di Beirut come fosse ieri.” Interrompo il racconto: “Partì a bordo di una nave russa?” Angel mi guarda incuriosita: “Sì, la Pobeda.” La mente corre alla foto vista qualche giorno prima in biblioteca. Il filo invisibile che lega luoghi e destini così lontani si trasforma in una traccia sempre più evidente. Vartuhi potrebbe essere uno dei personaggi immortalati nel 1948, una tra i tanti bambini in fila per l'imbarco. “Angel”, chiedo d'impulso, “da qualche parte hai l'indirizzo di Vartuhi?”.


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