E' stato il mantra della politica estera turca degli ultimi anni: "Zero problemi con i vicini". Ma ora, la crisi in Siria, sta costringendo Ankara a riflettere su un'eventuale intervento militare oltreconfine, per arginare le conseguenze delle violenze del regime di Bashar al-Assad

13/04/2012 -  Fazıla Mat Istanbul

Il governo siriano ha accettato il cessate il fuoco stabilito dal piano dell’inviato speciale dell’ONU Kofi Annan ma resta ancora da verificare se e come verrà applicato dal regime di Bashar al-Assad. A poche ore dall'entrata in vigore del cessate il fuoco tra ribelli e governo fissato alle 6 di ieri mattina, attivisti siriani citati dall'agenzia d'informazione 'Dpa', denunciavano infatti nuove operazioni dell’esercito siriano a Hama, Homs, Idlib, Aleppo e Damasco. E nella serata di mercoledì 11 aprile anche al confine turco-siriano si registravano spari.

Gli spari sui profughi

Nella zona del varco di confine turco Öncüpınar, in prossimità del campo profughi di Kilis, la tensione è rimasta alta dopo gli spari, lunedì scorso, delle forze siriane contro una ventina di profughi che cercavano di attraversare la frontiera. Due persone sono morte mentre diverse altre sono rimaste ferite. Alcuni proiettili, inoltre, hanno raggiunto il campo di Kilis ferendo altri due profughi, un’interprete e un poliziotto turchi. Lo scenario si è ripetuto anche nei due giorni seguenti, con alcuni ribelli siriani feriti e uccisi mentre cercavano di attraversare il confine e lo sparo di proiettili che centravano i prefabbricati del campo profughi.

Le reazioni del governo turco

La sparatoria di lunedì ha acuito la tensione tra Ankara e Damasco, portando il premier Recep Tayyip Erdoğan a definirla “una chiara e netta violazione dei confini”. Tuttavia, il premier che si trovava in visita ufficiale in Cina (dove Ankara e Pechino hanno siglato tra gli altri un accordo di cooperazione energetica del valore di un miliardo di dollari) ha evitato nell’immediato di esprimersi sulle “conseguenze” della violazione.

Intanto nella giornata di mercoledì, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu che dopo la sparatoria di lunedì ha interrotto la sua visita in Cina al seguito del premier, ha indetto una riunione con militari, intelligence e ministero dell’Interno per discutere su come prevenire in futuro simili episodi “senza mettere in pericolo la vita dei profughi e senza provocare i soldati siriani”. Durante il meeting si sarebbe inoltre delineata una road map per stabilire i passi da compiere nell’arena internazionale nel caso in cui al-Assad non rispettasse il cessate il fuoco. Davutoğlu ha tenuto anche una videoconferenza con i ministri del G8 riuniti a Washington per fare il punto sulla Siria.

Da quando 13 mesi fa è iniziata la sanguinosa repressione delle proteste del popolo siriano, il premier Erdoğan è stato una delle voci critiche più dure nei confronti del presidente siriano. Durante la seconda riunione degli "Amici della Siria" tenuta a Istanbul lo scorso primo aprile, Erdoğan ha detto chiaramente di considerare il piano di pace di Kofi Annan, inviato speciale per la Siria dell’ONU e della Lega araba, solamente un mezzo per far guadagnare tempo a Bashar al-Assad, ed ha insistito affinché venisse stabilita una scadenza per la cessazione delle violenze in Siria. Durante il vertice, la Turchia ha anche fatto pressioni per far riconoscere il Consiglio nazionale siriano (CNS), principale coalizione d’opposizione contro il regime di Damasco con sede a Istanbul, quale “unico” legittimo rappresentante del popolo siriano, senza però sortire l’esito sperato.

Gli 82 Paesi e organizzazioni internazionali “Amici della Siria” presenti al summit di Istanbul erano concordi nel volere un cambiamento di regime nel Paese di al-Assad. L’incompatibilità è emersa sulla modalità e sui tempi prospettati per questo cambiamento che si ripercuote ancora sulla situazione di stallo attuale.

Il piano di pace di Annan è stato sostenuto dagli Stati Uniti e dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché avrebbe ottenuto il consenso della Russia e della Cina, due membri del Consiglio che in precedenza hanno bloccato le sanzioni rivolte al regime siriano. Anche l’Iran, storico alleato della Siria i cui rapporti con Ankara sono sempre più incrinati, ha confermato nella persona del ministro degli Esteri dell’Iran Ali Akbar Salehi, il proprio sostegno al piano di Annan “a condizione che al-Assad resti al potere”.

Armare i ribelli o intervento militare

La questione dell’armamento dei ribelli, tranne per l’Arabia Saudita e il Qatar, è una condizione che vede l’opposizione degli altri Paesi. Per Erdoğan si tratta invece di vedere “se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite eviterà ancora una volta di assumere il compito che gli spetta”. In quel caso “non ci sarà altra alternativa che armare la popolazione siriana per consentirne la legittima difesa”.

Alcuni organi di stampa locali hanno sostenuto con entusiasmo l’idea di un intervento militare individuale della Turchia, fornendo anche prove della legittimità dell’azione, come nel caso di Abdullah Bozkurt, direttore dell’ufficio di Ankara di Today’s Zaman, che ha scritto: “Cosa succederà se l’ONU non potrà agire unita, mentre la Russia e la Cina useranno il loro veto per la terza volta? Ankara si appellerà probabilmente all’accordo di Adana del 1998 [firmato per impedire le attività del PKK in Siria] sottoscritto con la Siria per giustificare l’intrusione militare, mentre chiamerà i membri della NATO ad applicare l’articolo 5 del Patto atlantico secondo il quale l’attacco a un membro verrà considerato come un attacco rivolto a tutti”.

Tuttavia Ankara si è dichiarata in più di un’occasione contraria ad un intervento unilaterale contro la Siria. Chiede piuttosto un intervento guidato dall’ONU, anche nel caso della costituzione di un’area protetta, una possibilità su cui si discute da diverso tempo e che dipende dall’afflusso dei profughi provenienti dalla Siria.

L’esodo dei profughi siriani in Turchia iniziato alla fine dell’aprile del 2011 ha raggiunto ormai la cifra di 25mila. Durante le ultime due settimane il numero è aumentato in modo esponenziale. Solo nella notte dello scorso lunedì hanno attraversato il confine 2.700 siriani. Queste persone, che non godono dello status di “rifugiati” per la riserva geografica posta dalla Turchia all’accordo di Ginevra del 1951 di cui è firmataria, sono considerati “ospiti”, senza una precisa base giuridica che rende la loro condizione potenzialmente aperta a interpretazioni arbitrarie. La situazione è peggiorata dal fatto che non vengono ammessi nei campi – salvo in casi limitati – né giornalisti e nemmeno gli esperti dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNCHR).

Il passaggio nel territorio turco è stato però facilitato da una precedente abolizione del regime di visti per i cittadini siriani e dalla decisione del governo di tenere i confini con la Siria aperti. 8 accampamenti di tende e una città di prefabbricati a Kilis hanno accolto finora gli sfollati, ma sarebbero in preparazione nuove sistemazioni, sempre lungo il confine.

Allo stato attuale Ankara considera il tetto di 50mila profughi come il limite oltre il quale non potrebbe affrontare da sola il “carico” degli “ospiti”. Secondo quanto afferma l’analista di Milliyet Aslı Aydıntaşbaş basandosi su fonti governative, il superamento di questo tetto costituirebbe una “questione di sicurezza nazionale” per la Turchia.

Le aree protette  

Secondo quanto riporta la Aydıntaşbaş, gli scenari ipotizzati ad Ankara per la Siria sarebbero due: se i rifugiati eccedessero la capacità di accoglienza della Turchia, o se il governo siriano dovesse sferrare un attacco nella città di Aleppo, molto vicina al confine turco, si andrebbero a formare delle “aree protette” subito oltre-confine, in territorio siriano. I “corridoi di aiuto umanitario” la cui sicurezza andrebbe assicurata dall’esercito turco, verrebbero costituiti “nell’area disabitata tra i due confini, oppure in diversi punti della Siria”.

Secondo quanto riferisce l’analista, ci sarebbero due confini a separare la Turchia dalla Siria. “Un primo confine è ‘fisico’ ed è segnato da una rete di cinta, il secondo si trova anche fino a 2 km di distanza dal primo ed è quello reale. Gli esperti sottolineano che i corridoi umanitari potrebbero essere inseriti tra i due confini, che comunque apparterrebbero alla Turchia”.

“L’opinione pubblica deve avere la testa parecchio confusa. Seppur con motivi tutti diversi, probabilmente la maggioranza non vuole che ci si intrometta nella questione siriana. Per la verità questo non è possibile” scrive invece Soli Özel, un altro esperto di politica estera in un commento su Habertürk, “perché ciò che si sta vivendo in Siria sta influenzando e continuerà a influenzare da vicino la Turchia. Da una parte sta avvenendo un massacro sotto i nostri occhi e non sappiamo quando tutto finirà. Dall’altra  il messaggio che daremo alla Siria invadendo il suo territorio, anche se per motivi umanitari, creerà tensioni all’interno del Paese”.

Qualunque saranno le decisioni che verranno prese nei prossimi giorni sulla crisi siriana, la fase della politica "zero problemi con i vicini" sembra essere ormai molto lontana. 


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