Il porto di Fiume (foto © Viktor Loki/Shutterstock)

L'appartenenza non ha niente a che fare con l'identità, il luogo di nascita è solo il porto di partenza. Ed è questo che impersona Fiume. Continua la nostra esplorazione dell'Adriatico, mare che accomuna

12/02/2019 -  Fabio Fiori

La Bora oggi avvicina le due sponde adriatiche. Sono giorni in cui noi italici abbiamo un motivo in più per andare in riva al mare. Ci andiamo per gioire di luci e temperie boreali, di profumi di salmastri e di resine. Sono odori di acque pelagiche e di terre istriane, liburniche e dalmate. Perciò siamo grati alla Bura, un vento che fa veleggiare anche d'inverno le nostre fantasie verso isole e città d'oriente.

Approdo così sul molo longo di Rijeka, un'icona capace di resistere e testimoniare un plurilinguismo resiliente, una toponomastica del vivere. Se in questo 2019 è inevitabile ricordare a un secolo di distanza la controversa avventura dannunziana, meno noto ma molto importante è un altro anniversario: 17 marzo 1719, il giorno della proclamazione dei porti franchi di Trieste e Fiume. Porto franco nel significato di luogo di libero scambio, in cui uno stato favorisce con esenzioni doganali e indipendenza normativa l'arrivo e la partenza di merci e di genti. Non sono qui a ricostruire vicende storiche, anche se mi piace leggere in riva al mare. I libri vibrano di più, i venti e le onde spesso suggeriscono qualcosa, i colori e gli odori ravvivano le pagine.

Sono venuto a passeggiare su questa meravigliosa, lunghissima diga costruita a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Quasi due chilometri, paralleli alla costa; un frangiflutti nato per proteggere la riva urbana e diventato subito la più bella delle passeggiate cittadine. Un porto nuovo, immaginato sul modello di un altro approdo mediterraneo d'avanguardia, la Joliette di Marsiglia. Non c'è niente di simile in Adriatico, non solo per impianto urbanistico ma anche perché questa diga è un belvedere su due paesaggi diversissimi, su due spettacoli differenti.

A settentrione le quinte della città, con una doppia partitura: a est il cuore urbano ottocentesco, a ovest il corpo industriale in continua evoluzione; entrambi, nelle giornate limpide, hanno sullo sfondo orizzonti alpini. Se le gru, sempre rinnovate, sono i suoi ragni infaticabili, Palazzo Adria, dal nome dell'omonima compagnia di navigazione, costruito nel 1897, è il simbolo di una storia marinaresca che ha attraversato le temperie del Novecento. Ma io tutte le volte che lo vedo ripenso a una vecchia fotografia in bianco e nero che con orgoglio mi mostrò trent'anni fa un paron chioggiotto. Ritraeva il trabaccolo del suo primo imbarco con le vele alzate, ormeggiato di fronte al palazzo. Quegli umili legni facevano cabotaggio tra le due sponde, concentrando o distribuendo anche le merci caricate o sbarcate dai grandi vapori oceanici della compagnia fiumana. Immagine emblematica di relazioni, geografiche e sociali, che sono il tratto caratterizzante della storia adriatica, declinazione di quella più grande mediterranea.

Per capire meglio le fortune passate e immaginare quelle future dovrei un giorno mettermi in marcia seguendo le vie ferrate che nel 1873 collegarono contemporaneamente Fiume alle due capitali dell'Impero: a Vienna, passando per Trieste, e a Budapest, passando per Zagabria. Due direttrici che prolungano l'Adriatico nel cuore della Mitteleuropa. Ma adesso invece giro le spalle alla città, scavalco il muro e vado sugli scogli, guardando a meridione. La scena cambia completamente. È un orizzonte acqueo antico che la Bura di oggi rende ancor più primitivo. A destra la costa istriana indica la via per raggiungere Capo Promotore, Rt Kamenjak, che segna la fine del Golfo del Quarnero, oltre cui si apre l'Adriatico. Di fronte il profilo della punta settentrionale di Cres, una delle Absirtidi dei greci, riaccende in me il mito odeporico degli argonauti. “Salirono subito in nave, e fecero forza sui remi, / senza tregua, finché arrivarono all'isola sacra di Elettride, / ultima tra tutte ...”.

Un refolo di Bora scompiglia i miei pensieri nomadi. Divlji vjetar, vento selvaggio, che oggi spinge tutti, a prescindere dal porto di partenza, a sostenere Rijeka 2020, “Capitale europea della cultura”, valorizzando innanzitutto un'appartenenza adriatica e mediterranea, scevra da ogni logica territoriale. Perché Rijeka o Fiume o Tarsatica, riprendendo il nome romano, o Sankt Veit am Flaum, rilanciando un toponimo tedesco che a sua volta ne declinava uno latino, è fiorita grazie agli incontri di chi guarda al mare come orizzonte di libertà. L'appartenenza non ha niente a che fare con l'identità; il luogo di nascita è solo il porto di partenza di un lungo viaggio. L'appartenenza è multilingue e sul Mediterraneo si aggiorna quotidianamente il sabir, antica lingua franca dei marinai. L'appartenenza è nomade e sul Mediterraneo si costruisce ogni giorno navigando da una sponda all'altra.

Perciò leggiamo ad alta voce in cima al molo longo di Rijeka, rinnovandolo e declinandolo, l'articolo 1 dell'editto asburgico del 19 marzo 1719: “accordiamo ampla abitanza e libero esercizio di commercio, di manufatture, di opifizi, a tutti gli stranieri trafficanti, proprietari di navi, manifattori ed altri artieri che per cagiene di commercio desiderano e vogliono migrare e prendere fissa stanza nei paesi”, del Mediterraneo. E che, di questo sempre nuovo, burrascoso e meraviglioso Adriatico, Rijeka sia Port of diversity, quello di una delle sue accoglienti capitali culturali.


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