Nubi sull'Adriatico - © AlexanderBee/Shutterstock

Nubi sull'Adriatico - © AlexanderBee/Shutterstock

Non è a piedi, né in bici e neppure in barca che ci viene raccontato l'Adriatico. Questa volta, come mezzo di locomozione vengono utilizzate le pagine di alcune opere letterarie. Continua la nostra esplorazione del mare che accomuna

11/05/2020 -  Fabio Fiori

In questi lunghi giorni di quarantena, lo spazio ci è precluso, il viaggio ci è negato. Per la prima volta nella vita scontiamo una reclusione inimmaginabile solo due mesi fa. Malgrado le notizie, che prima venivano da lontano, e i fatti, che immediatamente dopo accadevano tra noi, ci avrebbero dovuto subito allertare. Allora camminavo e pedalavo spensierato, bordeggiavo sognando più ampi orizzonti primaverili ed estivi. Un'incredulità e un'impreparazione che, per molti aspetti, è la stessa di sempre, almeno così ho pensato leggendo pagine illuminanti, quelle de “La peste” di Albert Camus: “Nulla poteva far prevedere ai nostri concittadini gli incidenti che si produssero nella primavera di quell'anno e che furono, lo capimmo in seguito, come i primi segnali della serie di gravi fatti di cui intendiamo fare cronaca”.

Ma non è di cronaca che voglio scrivere oggi. Voglio invece fantasticare, in questo fresco mattino di fine aprile. Viaggiare, non nello spazio negato dalla pandemia, ma nel tempo offerto dalla letteratura. Sono un marinaio, ho l'ossessione del tempo e dello spazio, come diceva Bruce Chatwin. Una luce argentata riflette l'Adriatico dopo i temporali della notte, mentre un sole cinabro cerca di divincolarsi da cumuli plumbei. Bave perse disegnano effimeri arabeschi sull'acqua. Non una nave sul mare, non un aereo nel cielo. È un orizzonte silenzioso e antico, quello che regala questo tempo sospeso. Un tempo che invita a rileggere pagine adriatiche di viaggi altrui, fatti a vela e a remi, in una relazione ancestrale con i luoghi, necessaria ancora oggi. Pagine che leniscono nostalgie odeporiche, che acuiscono voglie nomadi, nella grazia dei venti, nella sacralità del camminare, del pedalare, del nuotare, del remare, del veleggiare; nell'attesa del domani.

Lascio la foce del Pescara a bordo del trabaccolo Trinità carico di frumento diretto in Dalmazia, nel tramonto di un giorno d'ottobre. Sulle rive s'accendono i fuochi e i marinai cantano romanze. “I sei uomini e il mozzo prima manovrarono d'accordo per prendere il vento. Poi, come le vele si gonfiarono nell'aria tutte colorate in rosso e segnate di figure rudi, i sei uomini si misero a sedere e cominciarono a fumare tranquillamente”, racconta Gabriele D'Annunzio. Il tempo è buono, ma un marinaio profetizza: “Lu tembe n'n ze mandéne”. Al largo incrociamo una coppia di paranze che rientrano dopo una fortunata battuta di pesca. Purtroppo, poche ore dopo, effettivamente il tempo non si mantiene. Il vento rinforza da nord, il mare ingrossa e siamo costretti a fuggire verso levante. “Il rumore del mare copriva le voci. Qualche ondata si spezzava sul ponte, ad intervalli, con un suono sordo”. Ho i brividi, non ho la tempra di quei marinai abruzzesi che ai primi del Novecento affrontavano le bizzarrie adriatiche. Mi rifugio sottocoperta, ascolto parole concitate sull'aggravarsi delle condizioni di un compagno malato; poi un'onda scuote il trabaccolo dalla chiglia alla testa d'albero. Impaurito provo a prendere sonno. Quando mi sveglio, il vento è bonacciato, “Nella chiara notte un'isoletta, che doveva essere Pelagosa, apparve in lontananza come una nuvola posata su l'acqua”. Ma l'approdo è ancora lontano, altri venti e marosi contrari, a cui s'aggiunge un lutto improvviso. Finalmente anche la seconda burrasca si quieta, appare l'azzurra isola di Solta. Passato lo stretto, la luna “illuminava le rive. Il mare aveva quasi una tranquillità lacustre. Dal porto di Spálato uscivano due navigli, e venivano incontro alla Trinità. Le due ciurme cantavano”. Erano anche loro pescaresi. Allora un marinaio li informa della morte del compagno: “L'avéme pirdute a mare, 'n mezz'a lu furtunale. Dicétele a la mamme”.

Sono ancora in mare, negli stessi anni, ma su Maria risorta che pesca in coppia con un'altra paranza di Fano. È un andare in lungo e in largo tra le due rive dell'Adriatico quello che, con dovizia di particolari marinareschi, racconta Giulio Grimaldi nel romanzo d'impianto verista che prende il nome dalla stessa barca. Sono pagine che hanno l'odore forte del mare, che restituiscono le gioie e i dolori di un ambiente difficile. Rileggendole ritrovo sempre i piaceri della vela, il docile andare “con il trinchetto e la maestra gonfie per un buon maestrale, sopra un mare turchino e tutto leggermente ondulato che si stendeva a perdita d’occhio, senz’altro rumore che uno sciaguattar lieve contro i fianchi robusti e il cigolio sordo delle scotte nei ghindazzi”. Un mare che mai è stato amico dell'uomo, ricorda Joseph Conrad, al più complice della sua irrequietezza. Anche l'Adriatico spaventa quando soffia la Bora, che fischia e sibila attraverso le vele, gli alberi, le sartie. Con onde che “tornarono da tutte le parti. Venivano a una, a due, a tre, gonfie, rabbuffate, rumoreggianti, spumeggianti; sollevavano la barca come per rovesciarla con un mostruoso colpo di spalla, o la investivano e l’urtavano come se la volessero stritolare: e tutte le volte la Maria le sorvolava, ne sosteneva l’amplesso formidabile, e la gran massa minacciosa si dissolveva, quasi per incanto, in una nuvola di spruzzi e di schiuma contro i suoi fianchi robusti”. Una vita di bordo fatta di fatiche e dolori, ma anche di gioie e visioni, di paesaggi incantati come la sfumatura appena sensibile della “doppia gobba del Catria, e quindi la Carpegna e piú indietro il San Vicino, e i monti Sibillini o delle Fate”. Ci sono poi i piaceri della cucina di bordo, quando “seduti in cerchio intorno al piatto di triglie arrostite sulla bragia” i marinai mangiano in silenzio, “innaffiando il pasto con una mistura d’acqua e d’aceto che si versavano da un orciolo, servendosi tutti del medesimo bicchiere”.

Le vele del lavoro, quelle del commercio e della pesca, vele al terzo o vele latine; di cotonina, bianche, ocra, ruggine, con un'araldica al contempo fantasiosa e indispensabile al riconoscimento da lontano. Vele adriatiche che ancora nei primi decenni del Novecento resistono strenuamente all'incedere dei motori.

Vele che quando il vento era favorevole, messe in croce, davano a bragozzi e trabaccoli l'aspetto di colombe con le ali aperte, scrive Giovanni Comisso, innamorato cantore di quel mondo arcaico. M'imbarco spesso sui suoi velieri chioggiotti che fanno la spola tra la laguna e le isole, da occidente a oriente e viceversa. Ho nelle orecchie gli entusiasmi del capitano: “Scirocco, scirocco, ma forte tanto da arrivare a casa prima di sera”, urlava all'equipaggio, mentre facevano rotta dalla rada di Carnizza, nel canale d'Arsa in Istira, a Chioggia. “Il giallo splendente delle vele dischiuse nella loro massima ampiezza” facevano flettere gli alberi come balestre. Ma i venti adriatici sono ancor più bizzarri degli altri e nel volgere di qualche ora un felice Scirocco lascia il campo a una rabbiosa caligata da terra. Costringe ad ammainare le vele e mettersi alla cappa a poche miglia dal porto. Lunghe ore d'attesa in balia dei marosi, per poi issare di nuovo le vele quando il caligo s'è sfogato. Raggiungiamo finalmente il porto dove un gran numero di velieri è venuto a ripararsi dal tempo. “La notte era alta e il vento sibilava tra le sartie come fosse d'inverno”.

Il Novecento è anche il secolo degli svaghi, delle gioie che l'Adriatico regala, non solo lungo le rive a milioni di bagnanti che arrivano da tutta Europa.

Sono le gioie della vela raccontata da Arturo Marpicati o da Giani Stuparich. Con il cutter Felice Stocco partiamo dal porto dell'Eneo a Fiume, il 9 luglio 1920, arrivando al forte di San Nicolò a Sebenico, il 30 luglio. Venti giorni, un “Itinerario adriatico”: Pola, Rovigno, Trieste, Miramare, Portorose, Venezia, Cittanova, Parenzo, la deliziosa baia di Cigàle nell'isola di Lussino, l'isola di Selve, dove la “superficie del mare, ad ogni brivido della brezza, brilla ondeggiando”, Zara, un museo veneziano.

Più piccola, ma non meno appassionate la vela di Stuparich, “Una vela! La nostra vela d'Umago. A metà del giorno rinforzava il maestrale. E noi due s'attendeva quel momento per rimetterci in barca, soli. … Dove andiamo? In mare non ha mete / Né logica di strade e di sentieri. / Mano al timone, senti come bolle / E sussulta sui cardini della vita”, sono “Ricordi istriani”, per me sono sogni istriani di una prossima estate.

Con Ario e Berto, due ragazzini cresciuti in Sacchetta a Trieste, invece vado a remare con il caício per il mandracchio e oltre la Lanterna, facendo un tuffo e due bracciate nel golfo, raccontato da Pier Antonio Quarantotti Gambini. E dopo il bagno, tornerò a leggere “L'onda dell'incrociatore” su una riva di Ponterosso, mangiando una fetta d'anguria.

E' quasi sera, il mare ha il colore del piombo e l'odore grosso del Levante mi mette la voglia di un'ultima veleggiata nel tempo.

Anni Cinquanta, sono insieme a un ragazzo che ha venduto il violoncello, la biblioteca musicale e tutti i dischi per pagare una lancia. Anzi la metà, perché l'altra prova a pagarla andando a pescare. “Il mare era già vivace per un leggero vento di greco, nell'aria tersa era tutto un tripudio di colori sani, senza polvere, come la schiuma che saltava sulla nostra prua mentre ci dirigevamo verso le Tremiti”. Ci torno sempre volentieri tra quelle isole care a Diomede, a vela qualche volta, leggendo “Levantazzo” di Antonio Mallardi, più spesso. Soprattutto d'aprile quando pare che l'Adriatico abbia “spento la furia invernale e il suo umore può assumere un aspetto più sereno ed invitante”.

M'affaccio alla finestra mentre la luna sale dal mare, il Levante s'è quietato. Anch'io come il marinai del Trinità amo stare all'aperto, espormi all'onda, vedere gli uomini, respirare il vento. Tornerà il sereno, alzerò una vela e un refolo dolce mi porterà lontano, oltre l'orizzonte.

 

PS

Vele e marinai di questo racconto sono letterariamente certi. Incerte le rotte e i venti. Scusandomi per le fantasie ondivaghe, ringrazio in ordine d'apparizione:

Gabriele D'Annunzio, 1902. Il cerusico di mare.

Giulio Grimaldi, 1908. Maria Risorta.

Giovanni Comisso, 1922. Una tempesta a buon mercato.

Arturo Marpicati, 1922. Itinerario adriatico. Piccolo romanzo di una vela.

Giani Stuparich, 1961. Ricordi istriani.

Pier Antonio Quarantotti Gambini, 1947. L'onda dell'incrociatore.

Antonio Mallardi, 1961. Levantazzao.

Un mare, mille paesaggi

Sono trascorsi vent'anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d'Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell'Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell'Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall'idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l'Adriatico non è ancora un mare d'Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo - grazie alla collaborazione con Fabio Fiori - il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai al dossier


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