Kiyv, Ucraina - 5 febbraio 2015: il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel

Kiyv, Ucraina - 5 febbraio 2015: il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel

I tentativi di risolvere pacificamente il conflitto del Donbas, sfociati negli accordi di Minsk, non hanno mai veramente funzionato, perché semplificavano la violenza in atto come presunto "scontro etnico" tra ucraini e russi, realtà smentita da una realtà molto più complessa

“Pura finzione”. È il modo, piuttosto crudo, con cui il contenuto degli accordi di Minsk è stato riassunto a posteriori da Wolfgang Sporrer, ex-dirigente di dipartimento all’OSCE coinvolto nel processo di elaborazione di quegli stessi accordi.

I tentativi di risoluzione pacifica del conflitto scoppiato nel 2014 fra Ucraina e le due repubbliche del Donbas, con la mediazione di Federazione Russa, Francia, Germania e appunto OSCE, seppure abbiano portato a una sorta di “congelamento” dei combattimenti, e dunque a un relativo sollievo dal punto di vista umanitario per la popolazione civile, non hanno mai veramente funzionato. Da un lato perché la tregua armata è stata ripetutamente violata da entrambe le parti, dall’altro perché la Russia ha negato di essere parte attiva nel conflitto - sebbene diversi suoi militari e comandanti fossero presenti sul territorio ucraino, e molti degli armamenti in mano ai separatisti provenissero dalla vicina Federazione.

Ma soprattutto gli accordi di Minsk hanno fallito, per usare ancora le parole di Sporrer, perché non “si confrontava[no] con le cause alle radici della guerra”. Prosegue il diplomatico: “Venne stipulato, in sostanza, che in Ucraina c’era, o c’era stato, un qualche tipo di conflitto etnico fra ucraini e russi, e che questa fosse la ragione dello scoppio delle violenze. E che, dunque, se si fosse risolto questo presunto conflitto etnico, allora anche la guerra si sarebbe fermata. […] Ma il conflitto etnico che è esistito in Ucraina non era chissà quanto più serio e grave delle tensioni etniche presenti in molti altri paesi. In più, se le si vuole guardare proprio dal punto di vista etnico, le linee di divisione di questo conflitto sono estremamente sfumate".

Come abbiamo argomentato nei precedenti capitoli, infatti, è pressoché impossibile trovare un unico elemento di contrapposizione interno al “mosaico” della popolazione ucraina che ha portato alcune persone a trovarsi “ai due lati della trincea” a combattere una sorta di guerra civile, che è stata però sin dal primo momento anche un’invasione mascherata da parte della Russia e infine, da due anni a questa parte, un’invasione su larga scala.

Il Donbas come linea di divisione

Altre figure di primo piano si sono poi espresse in maniera simile sugli accordi di Minsk. Com’è noto, l’ex-presidente francese François Hollande e l’ex-cancelliera tedesca Angela Merkel, garanti degli accordi, hanno dichiarato che sostanzialmente si trattava di un modo “per guadagnare tempo”. Affermazioni riprese dalla propaganda russa per sottintendere come l’Occidente stesse usando l’Ucraina per preparare una guerra contro Mosca.

La realtà, tuttavia, è che proprio per come erano strutturati gli accordi di Minsk non avrebbero potuto costituire la base per una pace duratura: per quanto si possa discutere sulla reale volontà degli esecutivi di Kyiv di concedere maggiori autonomie alle regioni di Donec’k e Luhans’k, la precondizione per un qualsiasi sviluppo del processo di pace era il mai avvenuto ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino. Ancor di più, la loro presenza non era nemmeno riconosciuta pubblicamente da Mosca.

“Senso di appartenenza nazionale, età, classe sociale: non ho saputo trovare una risposta soddisfacente alla domanda su quale fosse l’elemento decisivo per scegliere un lato o l’altro nel conflitto”, dice la ricercatrice Oksana Mikheieva che ha svolto numerosi studi sulle motivazioni che dal 2014 in avanti hanno spinto alcuni cittadini a unirsi alle fila dei battaglioni armati ucraini o viceversa alle truppe separatiste o filorusse in Donbas.

“Fra i miei interlocutori che erano membri delle milizie di Donec’k e Luhans’k, per esempio, c’erano sia persone che sostenevano le proteste del Majdan, sia persone che fin dal principio vi si erano opposte. Forse la sociologia ancora non ha sviluppato degli strumenti sufficientemente malleabili per rilevare lo spettro di motivazioni che portano un individuo a partecipare attivamente a un conflitto armato”, racconta Mikheieva.

Una confusione che in effetti ben si sposa con il carattere “ibrido” della guerra nel Donbas, oggi in Ucraina considerata la prima fase dell’invasione russa, per cui le autorità di Mosca hanno fornito giustificazioni piuttosto eterogenee e talvolta contraddittorie (il mito della Novorossija, crimini di guerra contro la popolazione russofona interpretati come un “genocidio”, l’accerchiamento della Nato, ecc.).

Si può dire, però, che in una certa misura l’essere originari della regione geografica del Donbas ha rappresentato una prima linea di divisione, in un senso o nell’altro.

“Chi era originario dell’area era più fortemente motivato a combattere o a impegnarsi nel conflitto”, prosegue Mikheieva con riferimento agli sfollati interni. “Si trattava di lottare per il proprio spazio di vita quotidiana, per le proprie case, per i propri cari. Per di più, gli sfollati interni provenienti dal Donbas hanno giocato un ruolo significativo nel fare da mediatori fra i combattenti filo-governativi e i rappresentanti dei territori occupati di Donec’k e Luhans’k nel 2014. La prima fase dell’aggressione russa è stata affiancata da una guerra d’informazione molto potente, che ha portato alla creazione di un’immagine altamente stigmatizzante dei residenti del Donbas visti perlopiù come 'separatisti', in modo molto generico – una sorta di costruzione dell’immagine del 'nemico'. Al contrario, molto spesso, proprio le persone spostatesi dall’Est in altre zone dell’Ucraina in conseguenza del conflitto sono diventate i soggetti che potevano spiegare agli altri combattenti ucraini la differenza fra i messaggi della propaganda di guerra e l'esperienza di vita reale in Donbas”.

Al di sotto della contrapposizione frontale fra governi di Kyiv post-Majdan e ribelli separatisti foraggiati da Mosca, la prima fase dell’invasione russa in Ucraina ha rimesso in discussione il senso di appartenenza nazionale, culturale o etnica delle persone.

Anzi, uno studio della stessa Mikheieva e di Oxana Shevel, corroborato poi da ulteriori ricerche di Gwendolyn Sasse e Alice Lackner, concludeva che le “percezioni miste” dell’identità nazionale rimanevano preponderanti proprio fra coloro che erano più direttamente toccati dalle conseguenze del conflitto nel Donbas.

Talvolta, come racconta l’esperienza della missione umanitaria Evacuation-200 l’unico modo per stabilire un minimo di contatto comunicativo fra i due fronti era appellarsi al comune passato sovietico o a una vaga appartenenza condivisa alla “comunità slava”. La missione era stata lanciata a settembre del 2014, dopo la battaglia di Ilovajs'k, dal dipartimento di cooperazione civile-militare dell’esercito ucraino, coinvolgendo volontari affiliati a organizzazioni di salvaguardia della memoria della Seconda Guerra Mondiale e ponendosi come obiettivo il recupero di cadaveri nelle zone di combattimento sotto controllo separatista (l’esperienza è documentata con una serie audiovisiva dal titolo Tulipano nero).

Guerra ibrida, motivazioni eterogenee

In generale si potrebbe affermare che, per quanto riguarda chi si è unito ai combattenti separatisti o filorussi (ma sarebbe forse più corretto dire “anti-Kyiv”, in quanto governo), abbiano pesato più le contingenze di quello specifico momento piuttosto che le convinzioni politiche pregresse, oppure l’estrazione socio-culturale.

Uno studio di recente pubblicazione, condotto dal Public Sociology Laboratory (istituto di indagine sociologica russo-ucraino, dichiarato peraltro “agente straniero” dal governo di Mosca) ha individuato una serie di traiettorie in qualche modo ricorrenti tra le fila dei battaglioni delle repubbliche di Donec’k e Luhans’k. Per altro verso, erano pure presenti delle distinzioni abbastanza visibili a seconda che si trattasse di residenti della regione, cittadini russi o cittadini ucraini provenienti da altre aree del paese.

Riassumendo, per quanto riguarda i residenti della regione, c’è stato chi col passare del tempo ha sviluppato una sorta di identitarismo locale, basato cioè sulle specificità della zona (di cui abbiamo parlato in questo capitolo), ricalcando in parte le peculiari identità pre-nazionali del XVIII secolo in Europa occidentale, e che in Europa orientale sono durate fino ai primi decenni del XX secolo.

Una restrizione geografica della propria identità nazionale deflagrata soprattutto in reazione agli sviluppi politici post-Majdan, e al timore che questi potessero provocare un crescendo di violenza nei confronti delle popolazioni del Donbas. Un timore alimentato da episodi sanguinosi e drammatici come la strage di Odessa del 2 maggio 2014 - più di 50 morti - e dall’inizio dell’operazione antiterroristica ATO in Donbas.

Altri ancora, soprattutto in relazione alle difficoltà economiche emerse in seguito al conflitto (chiusura delle miniere della regione, crisi del settore immobiliare), hanno visto nell’arruolamento militare un’opportunità economica, o persino una scelta obbligata per il proprio sostentamento.

Per quanto riguarda i cittadini russi, invece, hanno contato maggiormente convinzioni ideologiche pregresse (soprattutto relative a formazioni politiche marginali ed estremiste) così come la predisposizione a intraprendere carriere militari da mercenari. Spesso con partecipazioni in altre guerre dello spazio post-sovietico, si veda il caso di Igor Girkin, oppure dei membri del battaglione Wagner, emerso proprio nella prima metà del 2014.

Infine, per coloro che provenivano da altre zone dell’Ucraina, ha contato in particolare un certo avventurismo politico e una radicalizzazione conseguente all’aver partecipato al movimento dell’anti-Majdan e al timore di subire ripercussioni per questo motivo.

Coscrizione forzata e crisi umanitarie

Come già accennato, un tale coacervo di motivazioni ideologiche, spinte personali, scelte basate sull’istinto di sopravvivenza è stato fin da principio affiancato e sovradeterminato dall’intervento russo.

Anche a livello di narrazioni più o meno propagandistiche, la “questione del Donbas” è stata sempre più inglobata nella causa dell’espansionismo di Mosca che si è dispiegata in maniera definitiva dal 24 febbraio 2022, ma che già negli anni precedenti aveva proceduto a integrare i territori occupati nella giurisdizione e nello spazio politico-culturale della Federazione, ben prima dell’annuncio formale di Putin a poche ore dall’invasione militare.

In particolare, all’inizio del 2017, le repubbliche di Donec’k e Luhans’k hanno annunciato la nazionalizzazione di tutte le imprese, che sono passate dalle mani degli oligarchi ucraini alla compagnia Vneštorgservis, registrata nell’Ossezia del Sud. In seguito si sono interrotti tutti i legami economici tra queste regioni e il resto del territorio ucraino – per lo meno a livello ufficiale – mentre la Russia ha iniziato a elargire sempre più facilmente passaporti a chi risiedeva nel Donbas. I cittadini erano spesso spinti ad acquisire la cittadinanza russa anche solo per avere accesso a servizi di base o alla possibilità di ottenere un lavoro e la partecipazione alle operazioni militari è diventata sempre più coscrizione forzata.

Il dossier

e l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.

Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.

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