La letteratura russa e quella ucraina, il bilinguismo, la perestrojka di Gorbačëv e la fiction. A Pordenone abbiamo incontrato Aleksej Nikitin scrittore ucraino di lingua russa

29/10/2019 -  Martina Napolitano

È stato un ritorno per Aleksej Nikitin, scrittore ucraino di lingua russa, quello di quest’anno al festival Pordenonelegge: nel 2013 aveva presentato il suo primo romanzo tradotto in italiano, Istemi; ora è la volta di Victory park, entrambi editi da Voland. Si tratta di due storie ambientate nell’anno 1984 che, se da un lato è foriero di rimandi allusivi al capolavoro orwelliano, dall’altro è una data a suo modo significativa per la storia dell’Unione Sovietica: siamo alla vigilia della perestrojka di Gorbačëv. "Si tratta poi di un momento che è sì storia rispetto a oggi, ma che è anche un passato a noi vicino, ancora chiaro nella memoria, per lo meno della mia generazione", spiega lo scrittore da noi intervistato nella hall dell’albergo che lo ospita nelle giornate del festival.

Il suo primo romanzo Istemi può essere forse definito come “fantastoria”: c’è proprio un gioco con la storia alla base del soggetto narrativo. E questo può valere forse anche per il suo secondo romanzo, Madžong (Mahjong), ancora inedito in italiano. Anche Victory park accoglie al suo interno molti motivi legati al periodo storico specifico in cui è ambientato, la guerra in Afghanistan, ad esempio, oppure la situazione economica, il ruolo del mercato nero, dei cosiddetti farcovščiki [speculatori, contrabbandieri, rivenditori illegali di prodotti di importazione, che erano attivi soprattutto nelle grandi città, dove c’erano più stranieri, M.N.] che qui sono co-protagonisti, assieme al giovane studente Pelikan. Dopotutto, la storia, compresa la fantastoria, sta assumendo sempre più spazio nel mercato editoriale contemporaneo, il lettore sembra sempre più interessato a questo tipo di letteratura. Che ruolo gioca la storia nei suoi romanzi e nella comprensione della realtà in generale?

Non chiamerei fantastorici i miei romanzi, sono fiction e come tali si permettono di giocare con la storia, con la realtà: è questa la letteratura, la narrativa. Per me il passato è interessante in quanto possibile specchio dell’oggi, in quanto mezzo per comprendere il presente. Ho l’impressione che in particolare nel mondo dell’ex-Urss la storia si sia avvolta su se stessa, abbia seguito un movimento circolare. I problemi che abbiamo osservato negli ultimi anni e che vediamo ancora oggi hanno radici profonde, rintracciabili nel passato.

Prendiamo le guerre nel Caucaso, ad esempio, che derivano a mio avviso da questioni irrisolte – e non solo in epoca sovietica, ma ancora nell’impero zarista. Nel caso dell’Ucraina mi pare che le questioni di oggi riecheggino la situazione degli anni della Rivoluzione, il 1917-1919. In Russia poi si è tornati indietro, se non in uno stato totalitario, quanto meno autoritario, direi. Ecco, a me la storia interessa per questo sistema di rime interne, per questi episodi che rimano l’uno con l’altro a distanza. Credo che sia un bene che oggi il pubblico di lettori si stia abituando a leggere molti romanzi di ambientazione storica. Raccontare la storia permette anche di guardarla sotto punti di vista diversi e questo è di particolare significato proprio nei paesi dell’ex-Urss: oggi gli archivi vengono aperti, e a partire da quello che ne esce è possibile rileggere determinate vicende storiche da nuovi punti di vista.

Visto l’interesse per la storia, si può dire allora che viviamo forse nell’epoca della nostalgia?

Secondo me la nostalgia è caratteristica di tutte le epoche e di tutte le nazioni. Ovunque ci saranno sempre degli anziani pronti a dire che “si stava meglio una volta”, che “una volta la vita era vera, autentica”. E questo semplicemente perché una volta erano giovani – si sta sempre meglio nei ricordi della giovinezza.

Ma chi ha vissuto nell’Unione Sovietica ha una qualche particolare forma di nostalgia verso il passato?

È una nostalgia particolare nel senso che allora la responsabilità di ogni cosa si poteva imputarla allo Stato, mentre ora non si può fare. Non credo che a questo riguardo un ucraino, un moldavo o un russo abbiano un tipo di “nostalgia sovietica” differente. Semplicemente, allora la vita scorreva senza scossoni e per il 90% della popolazione questo era già abbastanza, non servivano loro tante libertà.

Lei è uno scrittore ucraino di lingua russa, una sorta di prosecutore di una linea letteraria che parte, se vogliamo, da Gogol’ che, per l’appunto, è “protagonista” del suo romanzo Madžong, nel quale un giovane dottorando rinviene il fantomatico terzo tomo delle Anime morte. È possibile parlare di una linea ucraina che attraversa tutta la letteratura russa dalle origini?

Assolutamente. Direi che almeno un terzo degli scrittori russi raccoglie nella sua produzione la cultura, un certo sostrato linguistico, alcuni motivi, degli sfondi, un colorito legati alla realtà ucraina. Anche in scrittori russi al 100% come Anton Čechov si può rintracciare una certa “estetica ucraina”. E questo escludendo poi gli scrittori del tutto ucraini per nascita e vita, come quelli della scuola meridionale di Odessa: Oleša, Il’f e Petrov, Kataev, Babel’. Si è creato nella letteratura russa una sorta di ambiente ucraino, e questo fin dalle origini.

Eppure Kiev resta una città poco narrata, se escludiamo La guardia bianca di Bulgakov o Babij Jar di Kuznecov. Prendiamo ad esempio la felice definizione di V. Toporov sulla letteratura di Pietroburgo, “Peterburgskij tekst” (testo pietroburghese): è difficile parlare invece di un “Kievskij tekst” (testo kieviano) – se non forse relativamente ai suoi romanzi, tutti ambientati nella capitale ucraina...

È una cosa misteriosa questa assenza di Kiev nella letteratura più famosa effettivamente, e soprattutto se guardiamo all’importantissimo ruolo che questa città ha giocato nella storia. Si tratta di una delle città più antiche al mondo. Tuttavia, a mio avviso ci sono almeno due motivi per questa assenza: da un lato, moltissimi scrittori finirono vittime della repressione sovietica e molti dei loro romanzi, anche legati a Kiev, non furono mai pubblicati o ebbero scarsa circolazione; dall’altro, mancano traduttori dall’ucraino che possano portare al pubblico non ucrainofono la nuova letteratura ucraina. Prendiamo ad esempio il romanzo Stalinka di Oles’ Ul’janenko [pubblicato nel 1994, M.N.], che ancora aspetta una traduzione; qui sì che si parla di Kiev. In generale, più che di un Kievskij tekst, io parlerei di un Ukrainskij tekst (testo ucraino), in riferimento a quella “estetica ucraina” presente nella letteratura russa di cui parlavo prima.

Negli anni però Kiev è cambiata molto. Oggi al visitatore si presenta in maniera radicalmente diversa rispetto anche solo a 6-7 anni fa. Che Kiev vediamo oggi?

Vediamo una Kiev che riflette la vita di oggi, caotica, a tratti incomprensibile. È vero che sono sorti degli edifici mostruosi, ma l’architettura dopotutto è un’arte particolare: riflette sempre la vita che si vive in quello specifico momento.

Tornando a lei, come dicevamo, i suoi romanzi si inseriscono nella cornice della letteratura russofona ucraina di oggi. Cosa pensa dell’ultimo provvedimento del governo Porošenko che, nel lasciare il posto al nuovo presidente Zelenskij, ha introdotto una nuova politica linguistica per l’Ucraina? Avrà delle conseguenze sull’editoria in lingua russa, sempre che il nuovo governo non ritiri il provvedimento?

In generale, questa politica linguistica è indirizzata a sviluppare la lingua ucraina nel paese e sinceramente non vedo rischi per la letteratura russofona. Non conosco editori ucraini che stampino solo libri russi, pertanto non credo che cambierà qualcosa – sempre che, appunto, il nuovo governo confermi la linea. Cambierà qualcosa, credo, per il mondo del giornalismo, per i giornali stampati e online e questo creerà problemi agli imprenditori in questo settore, costretti a vendere un prodotto dal loro punto di vista meno conveniente, meno vantaggioso. Non so se questa politica linguistica finirà per influenzare il mondo dell’istruzione, della scuola; chissà se prima o poi scomparirà del tutto la letteratura russofona di Ucraina. Al momento, detto sinceramente, ci sono autori russofoni che scrivono in un tale russo che sarebbe meglio non scrivessero affatto.

Sempre sull’Ucraina e il bilinguismo. Sua moglie, Evgenija Čuprina, è una poetessa, ad esempio, di lingua ucraina...

Sì, esatto, lei come tanti altri è passata alla lingua ucraina nel corso del tempo. Per quanto riguarda me, io continuo a scrivere in russo perché è la lingua in cui mi muovo meglio. La conoscenza dell’ucraino tuttavia mi aiuta a scrivere in russo, a raffinarlo, ad arricchirlo. Il bilinguismo dell’Ucraina è una ricchezza. E voglio ricordare anche che appena cento anni fa o poco più l’Ucraina poteva vantare ben quattro culture: oltre a quella russa e ucraina, c’erano anche quella polacca e quella ebrea – in solo un secolo sono scomparse, la prima cancellata già dagli zar, la seconda da nazisti e sovietici. Si dice scherzando che “Hitler ha eliminato i lettori ebrei, Stalin ha pensato a eliminare gli scrittori”.

E poi lo stesso Maidan è stato bilingue: non sta nella lingua la distanza, il conflitto. Anzi, il principale problema linguistico dell’Ucraina deriva dalla politica aggressiva della Russia che interviene affermando di “voler difendere i russofoni”. In realtà, allontana da sé anche questi ultimi, che preferiscono di certo proteggersi, ammesso che debbano, da sé.

Il premio Nobel Svetlana Aleksievič, presente anche lei al festival Pordenonelegge, ha affermato che a suo parere l’Europa deve aiutare Zelenskij e sostenerlo nella risoluzione del conflitto che si protrae ormai da cinque anni nell’est del paese. Invece la maggior parte dell’intelligencija ucraina si è schierata abbastanza nettamente contro il nuovo presidente eletto.

Sì, è così. Però penso anche che l’Europa debba aiutarlo in ogni caso. Basta che non finisca con l’aiutare Putin nel suo gioco di rinforzamento del suo impero. Tutto il resto al momento è secondario.

Mozart non sceglie la sua patria” cantava Bulat Okudžava in una sua canzone…

“Semplicemente egli suona tutta la vita senza sosta”.

Esatto, continuava così la canzone. Cosa ne pensa? Lo scrittore, l’artista in fondo ha una sua patria?

Io penso che ognuno scelga da sé. La patria è il posto dove si trova una certa energia: può essere la campagna natia, la metropoli di accoglienza – l’energia può essere trovata ovunque. Tuttavia, qualunque sia il tema o il soggetto, lo scrittore riflette sempre la sua esperienza, il suo vissuto. Liberarsi del tutto dai legami del posto dove si è nati e cresciuti io penso non sia possibile in fin dei conti. Puoi essere cosmopolita quanto vuoi, ma qualcosa del tuo posto natio rimarrà sempre in ciò che scrivi.


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