(© S-F/Shutterstock)

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La storia di Ženi Lebl, giovane ebrea nata e cresciuta in Serbia durante il periodo dell’occupazione nazista. Prigioniera prima nei lager tedeschi e poi nel campo di Goli Otok

27/01/2020 -  Božidar Stanišić

Dopo l’insurrezione popolare contro i tedeschi, scoppiata nel luglio 1941, a Belgrado iniziarono gli arresti di massa degli ebrei di sesso maschile. Entro l’autunno la maggior parte degli uomini ebrei fu deportata nel campo di concentramento di Topovske šupe, alla periferia di Belgrado, e fino a novembre proseguirono le fucilazioni di massa di ebrei, motivate dai tedeschi come rappresaglia per il presunto coinvolgimento di ebrei nel movimento di resistenza. Nel dicembre 1941 tutte le donne e i bambini ebrei residenti a Belgrado furono portati nel campo di concentramento di Sajmište. Dal marzo al maggio 1942 per le strade di Belgrado girava la famigerata dušegupka, un camion portato da Berlino e trasformato in una camera a gas, in cui trovarono la morte tutte le donne e i bambini deportati a Sajmište. Nell’agosto 1942, il dottor Harald Turner, capo dell’amministrazione militare tedesca nella Serbia occupata, inviò a Berlino un breve dispaccio che recitava: "La Serbia è l’unico paese in Europa in cui il problema ebraico è stato risolto". Si calcola che i tedeschi uccisero circa il 90% degli ebrei belgradesi.

Nel 1941 in Serbia vivevano 12.000 ebrei, dei quali circa 2.300 sopravvissero alla guerra e ai campi di concentramento. Tra i sopravvissuti c’era anche Ženi Lebl.

Breve cronaca di un’infanzia felice

Ženi Lebl nacque nel 1927 ad Aleksinac. Nel 1933 la famiglia si trasferì a Belgrado, dove si sentiva integrata nella società borghese di quell’epoca (era una tipica illusione degli ebrei sefarditi e ashkenaziti nel Regno di Jugoslavia, dove in quegli anni, sull’onda dell’ascesa di Hitler al potere in Germania, cominciò a diffondersi l’antisemitismo). Ženi trascorreva le vacanze estive in un villaggio nei pressi di Čačak; suo padre Leon, ingegnere, era direttore di una miniera di magnetite in quell’area.

Ricordando la sua infanzia, in uno dei suoi libri autobiografici, Ženi descrive con molta vivacità i paesaggi docili della Šumadija, l’entusiasmo che in lei suscitavano la flora e la fauna di quella zona e il tempo trascorso con il padre. Dopo la scuola elementare, Ženi si iscrisse al Primo Ginnasio femminile a Belgrado. Pensava di non differenziarsi in nulla dalle altre studentesse del ginnasio. La sua migliore amica era una ragazza serba di nome Doli. Nell’anno scolastico 1940-41 Ženi frequentava la quarta classe del ginnasio. Quello fu – per parafrasare un pensiero di Ivo Andrić – l’ultimo capitolo della cronaca dei suoi anni felici precedenti alla guerra.

Numerus clausus, incontro con la Storia e con un girasole

Solo un mese dopo che Ženi si era iscritta alla quarta classe del ginnasio, nel Regno di Jugoslavia fu introdotto il cosiddetto “numerus clausus”, una delle prime leggi contro gli ebrei. "Non immaginavo nemmeno che quelle due parole stessero seminando, nella nostra famiglia, sdegno, terrore, quasi un esaurimento nervoso". Così Ženi descrisse il sentimento di incredulità e timore che invase le anime dei suoi genitori e di suo fratello Saša, che proprio quell’anno si era iscritto al primo anno di università. Anche Ženi avvertì quell’enorme cambiamento, e non è un caso che il suo libro autobiografico sia intitolato “Odjednom drukčija, odjednom druga” [All’improvviso diversa, all’improvviso un’altra].

Avendo sentito l’esigenza di ribellarsi e di opporre resistenza, Ženi decise di aderire alla Lega della gioventù comunista di Jugoslavia (SKOJ) e divenne la più giovane comunista jugoslava. Arrivò la turbolenta e maligna primavera del 1941. Il padre di Ženi venne mobilitato; seguirono il bombardamento tedesco di Belgrado, il vivere in edifici distrutti, la drammatica esperienza del dover subire misure antiebraiche.

Il fratello Saša si era impegnato nella pulizia delle macerie, la madre Ana cercava un modo per tirare avanti in una realtà in cui furono marchiati solo perché ebrei. I nazisti semplicemente “esportarono” nei paesi europei occupati circa 400 misure antiebraiche originariamente adottate in Germania, a partire dalle restrizioni alla libertà di movimento e dal divieto di svolgere ogni attività commerciale fino al divieto di studiare e di intrattenere rapporti con la popolazione non ebraica. Il nastro giallo e la stella di David gialla rimasero per sempre impressi nella memoria di Ženi e delle migliaia di ebrei belgradesi.

Un girasole, così la giovane Ženi definì quella stella gialla. Una stella che, in quei tempi bui, fece sì che chi la portava diventasse ufficialmente diverso e altro. All’improvviso. Ženi ottenne quel girasole in “regalo” dai tedeschi quando aveva 14 anni. "Improvvisamente mi ero resa conto di non appartenere al mio ambiente…".

L’odore degli ebrei, un passato che non passa, le speranze risvegliate

Con il girasole appeso sul petto, Ženi visse incredula il suo primo incontro con la Storia; non riusciva a credere ai propri occhi di fronte alle immagini di ostaggi che ogni giorno venivano impiccati sulle Terazije, mentre le persone passavano loro accanto come se non esistessero, se ne stavano sedute nelle kafane, andavano a fare la spesa. La vita a Belgrado sotto l’occupazione nazista e sotto il governo collaborazionista guidato da Milan Nedić era dura per tutti, e per gli ebrei diventava sempre più difficile.

Ana Lebl riuscì a procurare documenti falsi al figlio Saša e a mandarlo nella zona di occupazione italiana, così Saša si salvò dai campi di concentramento. Del padre, che dopo la guerra d’aprile fu deportato in Germania, non ebbero più alcuna notizia. Nel dicembre 1941 Ženi si salvò, per puro caso, dalla deportazione nel campo di Sajmište, dopodiché partì per Niš, dove visse nella casa di Jelena Glavaški, la sua ex maestra d’asilo.

Ženi, all’epoca quattordicenne, aderì al movimento clandestino di resistenza sotto il falso nome di Jovanka Lazić; lavorava, insieme a Jelena, in una tipografia clandestina; distribuiva volantini; forniva rifugio ai membri della resistenza perseguitati. Nella primavera 1942 Ženi venne a sapere che a Belgrado non c’era più nessun ebreo e che sua madre e sua nonna erano state uccise in quel camion della morte (ingegnosamente descritto da David Albahari nel suo romanzo Goetz e Meyer).

Nel febbraio 1943, su indicazione di un informatore, Ženi venne arrestata, torturata nella prigione di Niš, per poi essere deportata nel campo di lavoro forzato a Maribor, e infine a Berlino. Una serba impertinente, così fu soprannominata nella prigione a causa della sua lingua tagliente, ma era contenta perché era riuscita a nascondere la sua vera identità. Lavorava in una fabbrica, ma a causa del suo spirito ribelle ben presto fu trasferita in una prigione gestita dalla Gestapo. Una volta sentì una delle guardie carcerarie vantarsi di essere capace di avvertire l’odore degli ebrei a chilometri di distanza e pensò: un grande conoscitore del popolo ebraico, con un senso dell’olfatto così sviluppato e delicato, proprio lui, non si immagina nemmeno che qui, a meno di un metro di distanza da lui, ci sia un’ebrea!

Il 20 aprile 1945, il giorno del compleanno di Hitler, Ženi e le sue tredici compagne di carcere furono condannate a morte. I russi erano ormai alle porte di Berlino. E nel lager avvenne un vero e proprio miracolo! “Siete libere!”, erano le parole più belle che Ženi avesse mai sentito pronunciare in tedesco. Dopo un lungo e faticoso viaggio, Ženi arrivò a Belgrado. Ricorderà per sempre quell’1 giugno 1945: "Sentivo che il passato non era ancora passato. Il primo giorno della mia nuova vita si era trasformato nella peggiore sconfitta, in un giorno nero di avvilimento, di disperazione…". Nonostante questo stato d’animo, Ženi si iscrisse al ginnasio, cercando di risvegliare le sue vecchie speranze, che ben presto si concretizzarono. Suo padre tornò dalla Germania, e per il suo diciottesimo compleanno Ženi ricevette un regalo: la notizia che suo fratello Saša era vivo (ha ragione Dušan Mihalek – musicologo e pubblicista, trasferitosi da Belgrado in Israele circa trent’anni fa – quando sostiene che la vita di ogni ebreo sopravvissuto è un romanzo). Ženi cominciò a credere nella nuova società e nel comunismo. Credeva profondamente che "il tempo dei lager, delle torture e delle uccisioni appartenesse ormai a un lontano passato". Si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Belgrado e venne assunta come collaboratrice dal rinomato quotidiano belgradese Politika. "Non volevo far parte della comunità ebraica, volevo essere jugoslava", così sintetizzò il suo stato d’animo in quel periodo.

Una viola bianca, l’Isola Calva e l’incontro con Kiš

La nuova epoca, il nuovo ambiente. Ženi era entusiasta, i suoi articoli pubblicati su Politika furono molto apprezzati. Tuttavia, la sua lingua e il suo senso dell’umorismo non risparmiavano nemmeno i nuovi culti. Un giorno un suo collega della redazione le raccontò la seguente barzelletta: "La Jugoslavia ha vinto il primo premio alla fiera internazionale dei fiori perché ha coltivato una viola bianca che pesa cento chili". Il termine “viola bianca” è tratto a una canzone popolare jugoslava, in cui viene usato in senso metaforico per indicare Tito, amato, come recita la canzone, da “tutta quanta la gioventù”.

Dopo aver raccontato quella barzelletta ad alcune persone, Ženi fu arrestata. Trascorse due anni e mezzo tra le carceri di Glavnjača e Zabela e i campi [per gli oppositori politici del regime] di Ramski rit, Sveti Grgur e Goli otok. La “compagna Banda”, come chiamavano Ženi durante la prigionia, aveva 23 anni quando sentì tutto il peso del lavoro forzato nelle cave e delle "catene del sole e della pietra". Ženi ha descritto il periodo trascorso in prigionia (tra aprile 1949 e ottobre 1951) – un periodo contrassegnato dal dolore, dall’umiliazione e dalla disperazione – in un libro intitolato “Ljubičica bela” [La viola bianca].

Nell’ottobre 1951 fu finalmente libera. Quando la vide, suo fratello Saša le disse che assomigliava a un prigioniero sopravvissuto ad Auschwitz. A Belgrado, negli ambienti che frequentava prima dell’arresto, nessuno aveva mostrato la benché minima comprensione nei confronti di un’ex detenuta del lager sull’Isola Calva [Goli Otok]. Gli unici a mostrare empatia furono i membri della sua famiglia. Per Ženi l’unica via d’uscita era l’emigrazione in Israele. Dopo molte peripezie, riuscì a ottenere il passaporto. Giunse a Haifa passando attraverso l’Italia. In Israele, in un primo momento, faceva fatica ad adattarsi al nuovo ambiente e alla nuova lingua. Poi conseguì il diploma di tecnico di radiologia e imparò l’ebraico. Sentiva sempre più forte, nel suo intimo, la necessità di dedicarsi alla lotta contro l’oblio, e cominciò a indagare sulla storia degli ebrei in Serbia e sulle persecuzioni subite dagli ebrei in Jugoslavia durante il periodo dell’Olocausto.

Il primo incontro tra Ženi e Danilo Kiš avvenne nella primavera del 1986 a Gerusalemme. All’incontro prese parte anche Eva Nahir Panić, un’ex detenuta del lager di Goli Otok. Danilo Kiš – che riteneva che i campi di concentramento avessero contrassegnato la storia del XX secolo – rimase turbato dal racconto di Eva e solo allora scoprì che anche Ženi fu detenuta in quell’orribile carcere.

Fino a quel momento Kiš era all’oscuro del fatto che non solo sull’isola di San Gregorio, ma anche sull’Isola Calva vi fosse un carcere femminile. Una storia che, secondo Kiš, doveva essere documentata e immortalata in forma cinematografica. Fu così che nacque l’idea di realizzare il documentario “Goli život” [La vita nuda], diretto dal regista Aleksandar Mandić. Il film venne mandato in onda in quattro episodi tra il 12 e il 15 febbraio 1990 e lo videro i cittadini di tutta la ex Jugoslavia.

Danilo Kiš, che aveva incoraggiato Ženi a trasformare la sceneggiatura del film in un libro, non visse abbastanza a lungo per vedere ultimato il film né per poter leggere il libro di Ženi “La viola bianca”, pubblicato nel 1990 e diventato un bestseller in Israele. In quello stesso anno in Serbia furono pubblicate alcune ricerche di Ženi, tra cui “Jevrejske knjige štampane u Beogradu 1837 – 1905” [Libri ebraici stampati a Belgrado 1837 – 1905], “Dnevnik jedne Judite” [Diario di una Giudea], “Jevreji u Pirotu” [Gli ebrei a Pirot], “Plima i slom” [La marea e il crollo].

Ženi Lebl proseguì nel suo lavoro di ricerca fino alla fine dei suoi giorni. Scrisse due grandi libri sulla storia degli ebrei in Serbia e a Belgrado, “Do ‘konačnog rešenja’ – Jevreji u Beogradu” [Verso la soluzione finale – Gli ebrei a Belgrado], pubblicato nel 2001, e “Do ‘konačnog rešenja’ – Jevreji u Srbiji [Verso la soluzione finale – Gli ebrei in Serbia], pubblicato nel 2002, nonché un libro intitolato “Hadži Amin i Berlin” [Haj Amin e Berlino], in cui aveva smascherato la figura del controverso Gran Muftì di Gerusalemme e il suo antisemitismo.

Post scriptum

Cosa dire dell’antisemitismo oggi, in ex Jugoslavia, in Europa, in tutto il mondo? Sono più “interessanti” le sue forme palesi o quelle dissimulate? Recentemente ho letto su Internet, su un forum serbo, la seguente affermazione: “Il soprannome più odioso che mi è mai stato affibbiato è quello di ebrea e me lo hanno dato a causa di una stella (l’esagramma) che portavo intorno al collo… Grazie al cielo, non è durata molto, almeno io penso così…”.

 

*Questo articolo commemorativo in cui, a causa di una grande moltitudine di fonti, ho adottato uno stile telegrafico, è stato realizzato sulla base di alcuni studi della storica di Novi Sad Violeta L. Ivković e delle testimonianze dei familiari e amici di Ženi Lebl: Dušan Mihalek, Ana Lebl e Dina Katan Ben Zion.


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