Fuggono da paesi, come la Siria, in cui la loro vita è a rischio. Strutture di accoglienza carenti li costringono a trovare sistemazioni di fortuna. E la popolazione locale, esasperata dalla loro presenza, li respinge con barricate e incendi dolosi. E’ il dramma degli asilanti in Serbia

03/12/2013 -  Federico Sicurella Belgrado

Hanno generato sgomento e indignazione le fotografie circolate pochi giorni fa sui media serbi, che ritraggono persone costrette a sopravvivere nei boschi innevati di Bogovađa, 70km a sud di Belgrado. Si tratta di circa trecento richiedenti asilo, provenienti in prevalenza dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia e dai paesi del Maghreb. Alcuni di loro hanno montato delle tende, altri hanno trovato riparo in baracche di legno e case disabitate. Hanno con sé pochi vestiti, spesso inadatti al clima invernale, e usano la legna che trovano per scaldarsi e cucinare. Varie associazioni, tra cui Grupa484, hanno lanciato iniziative di solidarietà per portare loro cibo e vestiario.

Come si è arrivati a questa situazione? A Bogovađa si trova uno dei due Centri di accoglienza per richiedenti asilo di cui dispone la Serbia (l’altro è quello di Banja Koviljača). Pur avendo una capacità nominale di 170 posti, il centro di Bogovađa è perennemente sovraffollato. Pochi giorni fa la situazione è diventata insostenibile e centinaia di persone si sono riversate nei boschi circostanti in cerca di sistemazioni di fortuna. Alla denuncia delle autorità locali, che chiedono con insistenza il trasferimento degli asilanti in sovrannumero in strutture alternative, si è aggiunta anche la voce di Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che ha esortato il governo serbo a trovare rapidamente una soluzione.

Le proteste della popolazione locale

La soluzione prospettata era quella di offrire a 75 asilanti una sistemazione presso gli alloggi per operai della centrale elettrica Nikola Tesla B di Obrenovac, a pochi km da Belgrado. Ma il 27 novembre, giorno del trasferimento, le cose non sono andate come previsto. Centinaia di abitanti della zona hanno bloccato le vie d’accesso all’impianto, costringendo gli asilanti a passare 14 ore nel pullman che li trasportava. E mentre il pullman restava fermo alle barricate, qualcuno tra i dimostranti ha vergognosamente appiccato il fuoco a una delle casupole adiacenti alla centrale elettrica, mandando in fumo 20 stanze destinate all’accoglienza.

A seguito dell’incidente, il rappresentante del ministro degli Interni Vladimir Božović, in accordo con i vertici del governo, ha disposto che gli asilanti venissero accolti in un hotel alla periferia di Obrenovac, dove si trovano tuttora. Božović ha poi dichiarato: “Questo è un ammonimento per tutti noi, un invito a mostrare più umanità in quanto cittadini e a ricordarci di quando i nostri concittadini serbi si trovavano in una condizione molto simile, quella di profughi di guerra”.

I dimostranti di Obrenovac, interpellati dai media, hanno motivato la loro azione dicendo di temere per la propria sicurezza e incolumità, convinti che tra gli asilanti ci siano individui pericolosi. Ma i richiedenti asilo rifiutano le accuse, bollando come non vere le storie negative che circolano sul loro conto. Uno di loro ha dichiarato: “Non siamo terroristi, siamo gente comune e onesta, e siamo venuti qui perché nei nostri paesi d’origine non c’è modo di vivere decentemente”. Ma c’è anche chi, tra gli abitanti di Obrenovac, si sente solidale con i nuovi arrivati. “Quello che è successo a questa gente in fuga dalla sofferenza è una vergogna per il nostro paese”, ha dichiarato un anziano.

Purtroppo questo non è l’unico caso in cui la popolazione locale si è opposta con la forza all’accoglienza dei richiedenti asilo. Il giorno dopo gli incidenti di Obrenovac, una cinquantina di abitanti di Vračevića, villaggio non lontano da Bogovađa, hanno bloccato la strada principale. L’obiettivo era quello di impedire la consegna di viveri e vestiario ai 100 asilanti che già abitano nel villaggio, stipati in due case. Anche in questo caso, il blocco si è risolto solo con l’intervento delle autorità statali.

Le ragioni della xenofobia

Come si spiega la reazione ostile e violenta delle comunità locali? Le interpretazioni proposte da commentatori e analisti si concentrano attorno a tre tesi principali. La prima è quella di Miloš Ćirić, che in un articolo dall’eloquente titolo “La guerra torna a casa” sostiene che la violenza a danno degli asilanti è una delle tante forme in cui si manifestano la rabbia e la frustrazione generate dalle politiche bellicose e criminali del passato recente. “Il modo in cui trattiamo ogni minoranza più vulnerabile di noi è indice della nostra profonda insoddisfazione, nutrita dalle sconfitte militari che abbiamo subito negli anni ‘90”, scrive Ćirić. In assenza delle vittime ‘tradizionali’, conclude, i serbi oggi se la prendono con le ‘nuove vittime’: la comunità LGBT, gli asilanti, le donne e i bambini.

La seconda tesi è quella proposta dallo scrittore Vladimir Arsenijević. Come Ćirić, Arsenijević nota la somiglianza tra il trattamento riservato agli asilanti e quello riservato ai rom, che sono spesso oggetto di trasferimenti forzati. Tuttavia, a differenza di Ćirić, egli mette l’accento sulle condizioni già disagiate della popolazione locale, che la convivenza forzata con gli asilanti non fa che esacerbare. “Credo che la gente sia semplicemente ‘accecata’ dai propri problemi, dalle proprie difficoltà e dalla propria sofferenza, e che questo - per quanto possa sembrare poco logico - produca un’aumentata insensibilità per i problemi altrui”, dice Arsenijević.

La terza tesi è quella avanzata da Bojan Gavrilović che si è occupato per anni della questione. Secondo lui, queste azioni di protesta contro l’accoglienza degli stranieri, ormai ‘di moda’ nella società serba, vanno trattate come episodi di razzismo, senza cedere alla retorica di chi li giustifica come reazioni dettate dalla paura e dall’incertezza. In ogni caso, chiosa Gavrilović, il responsabile principale è lo stato, che da anni non riesce a creare un sistema efficace per lo smaltimento delle richieste di asilo.

I limiti del sistema

Naturalmente, Gavrilović non è l’unico a puntare il dito contro le carenze del sistema di gestione delle richieste di asilo e dell’accoglienza di chi è in attesa di risposta. Tra le molte voci critiche spicca quella del Centro per i diritti umani di Belgrado, che denuncia con fermezza la scarsa capacità delle autorità preposte. E’ d’accordo anche Radoš Đurović, del Centro per la protezione e l'aiuto ai richiedenti asilo di Belgrado (qui un’intervista del 2012 rilasciata a OBC ), che dichiara con tono stizzito: “Che nessuno mi venga a dire che la Serbia non è capace di trovare, in questo preciso momento, 200 o 300 posti letto in qualche scuola o caserma”.

In ogni caso, già nel 2012 l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) aveva dato una valutazione impietosa del sistema serbo, giudicandolo “inadeguato a riconoscere chi ha bisogno di protezione internazionale”. Lo stesso rapporto rivela anche che nei quattro anni precedenti la pubblicazione, cioè dal 2008 al 2012, la Serbia non ha riconosciuto a nessuno lo status di rifugiato politico, a fronte di migliaia di richieste avanzate.

Negli ultimi anni, l’afflusso di migranti, profughi e richiedenti asilo nei paesi balcanici è aumentato in modo drammatico. Le ragioni di questo fenomeno sono due. La prima è che l’Unione europea erige barriere sempre più rigide sulle rotte migratorie trans-mediterranee, cosicché molti migranti tentano di raggiungere l’ambita zona Schengen attraverso i paesi dell’ex Jugoslavia, Serbia in primis.

La seconda è il perdurare dei tumulti delle primavere arabe, e in particolare del conflitto armato in Siria. La guerra, che dura ormai da più di due anni, continua a generare masse di profughi dirette (anche) verso i Balcani. Osservatorio ha raccontato, ad esempio, quello che sta succedendo in Bulgaria e, più di recente, in Turchia. Quindi, se da un lato è giusto criticare la scarsa capacità delle autorità statali dei paesi balcanici di far fronte a questa sfida, dall’altro non possiamo permetterci di perdere di vista la complessità del problema, che ci impone di chiamare in causa anche le responsabilità del mondo occidentale, politiche europee comprese.


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