Foto di Marco Carmignan scattata a Varna, parte del reportage "Rifugiati in Serbia: destini incrociati" pubblicato su OBCT

Foto di Marco Carmignan scattata a Varna, parte del reportage "Rifugiati in Serbia: destini incrociati" pubblicato su OBCT

A distanza di oltre vent’anni dalla fine della guerra del Kosovo, in Serbia decine di migliaia di sfollati interni vivono ancora in condizioni di miseria e insicurezza sociale. Dopo la chiusura di numerosi centri di accoglienza, molti degli sfollati interni si sono ritrovati senza residenza anagrafica né alcun tipo di aiuto

05/02/2020 -  Stefan Marić

(Pubblicato originariamente da Mašina e selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Stando all'ultimo rapporto del Commissariato serbo per i rifugiati e le migrazioni, in Serbia attualmente vivono circa 200.000 sfollati dal Kosovo, di cui 70.000 sono ancora bisognosi di assistenza umanitaria. Secondo la definizione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), gli sfollati interni bisognosi sono persone che soddisfano uno o più requisiti per essere considerate bisognose di assistenza umanitaria, tra cui avere un reddito inferiore alla soglia di povertà, vivere in condizioni precarie (senza accesso all’acqua potabile, all’elettricità e ai servizi igienici), essere portatori di un handicap fisico o intellettuale, etc.

Sono ormai vent’anni che molti degli sfollati dal Kosovo vivono “temporaneamente” in diversi centri collettivi informali, cioè in vecchie baracche originariamente destinate ai lavoratori delle fabbriche statali chiuse ormai da tempo o, ancora peggio, in fabbricati non destinati ad uso abitativo. Molte famiglie che vivono in queste strutture non hanno accesso stabile all’elettricità né dispongono di un bagno privato e sono costrette ad usare bagni collettivi. La situazione più grave si riscontra nelle baraccopoli in cui vivono gli sfollati di etnia rom (che rappresentano circa il 15% di tutti gli sfollati interni in Serbia), che spesso non hanno nemmeno accesso all’acqua potabile.

Centri collettivi mai effettivamente chiusi

Nel 2002 in Serbia c’erano 388 centri collettivi per sfollati interni gestiti dallo stato. Partendo dal presupposto che un prolungato tempo di permanenza nei centri di accoglienza aumenta il rischio di marginalizzazione degli sfollati interni, già esposti al rischio di povertà e di subire disuguaglianze – condizioni che inevitabilmente ostacolano l’integrazione degli sfollati interni nella società – nei primi anni Duemila la Serbia si era impegnata, con il sostegno finanziario della comunità internazionale, a chiudere tutti i centri di accoglienza e a fornire agli sfollati interni una soluzione abitativa stabile.

Nel corso degli anni il numero dei centri di accoglienza per sfollati interni è andato progressivamente diminuendo, tanto che oggi in Serbia esiste solo un centro per sfollati interni gestito dallo stato, il centro “Salvatore” di Bujanovac. Vi è tuttavia da chiedersi in quale misura lo stato sia riuscito a risolvere effettivamente la questione abitativa degli sfollati interni.

Tra i vari modelli di intervento finalizzati a risolvere il problema abitativo degli sfollati interni, la costruzione di case popolari è senz’altro l’opzione più auspicabile, ma lo stato si è dimostrato riluttante a ricorrere a questa opzione, scegliendo il più delle volte di concedere aiuti sotto forma di materiali da costruzione. Fino ad oggi 3425 persone hanno beneficiato di questa misura (un numero di gran lunga superiore a quello di persone che hanno beneficiato di appartamenti nelle case popolari, 89 in tutto, messi a disposizione degli sfollati interni). Tuttavia, per gli aiuti di questo tipo sono eleggibili solo coloro che possiedono un terreno edificabile e hanno già cominciato a costruirvi una casa.

Ovviamente non bisogna sminuire l’importanza degli aiuti concessi sotto forma di materiali da costruzione né di altri interventi finalizzati a risolvere la questione abitativa degli sfollati interni (tra cui gli incentivi per l’acquisto di fabbricati rurali e la costruzione di unità abitative prefabbricate), ma è chiaro che questi interventi non corrispondono ai bisogni reali degli sfollati né tanto meno sono guidati dal principio di inclusione sociale.

Con il passare del tempo le autorità competenti hanno trascurato sempre di più la questione degli sfollati interni, credendo che la chiusura dei centri collettivi avrebbe risolto gran parte del problema. Tuttavia, a differenza di quegli sfollati che col tempo sono riusciti a procurarsi una fonte di reddito e hanno abbandonato i centri di accoglienza, gli sfollati disoccupati, anziani o portatori di handicap sono stati costretti a rimanere nei centri.

Dopo la chiusura dei centri collettivi gestiti dallo stato – smantellati in fretta e furia per far credere alla comunità internazionale che il problema degli sfollati interni fosse risolto – sono sorti diversi centri di accoglienza informali, che raramente vengono visitati dagli assistenti sociali e dai rappresentanti del Commissariato per i rifugiati e di altre istituzioni competenti. Le persone che vivono in questi centri raramente ricevono aiuti sotto forma di prodotti alimentari e combustibili per riscaldamento, e sono praticamente lasciate a se stesse.

Senza domicilio, senza diritti

In Serbia, per poter effettivamente usufruire di certi diritti sociali ed economici è necessario essere in possesso di alcuni documenti, tra cui la carta di identità, che però viene rilasciata solo a chi ha dichiarato il domicilio in Serbia. Senza la carta di identità è impossibile accedere all’assistenza sanitaria, stipulare un regolare contratto di lavoro, usufruire delle prestazioni sociali, e persino accedere alle mense popolari. La maggior parte delle persone che vivono nei centri informali non beneficiano di alcun sostegno alimentare e di solito ricevono pacchi di generi alimentari solo durante le campagne elettorali, ma spesso sono costrette a buttare via molti degli alimenti ricevuti perché scaduti.

Sedici famiglie di sfollati interni ormai da dodici anni vivono in una struttura nel quartiere di Voždovac, a pochi chilometri dal centro storico di Belgrado, aspettando che le autorità forniscano loro una soluzione abitativa stabile. Ormai da sette mesi queste famiglie non hanno accesso all’elettricità, una situazione che crea gravi problemi, soprattutto alle persone affette da malattie come diabete o tumore. Così ad esempio una signora anziana è costretta a conservare l’insulina nel frigorifero di un ufficio postale vicino, mentre il padre di un ragazzo affetto da autismo quasi ogni sera porta suo figlio in un parco dove è possibile collegarsi a Internet per fargli vedere i suoi cartoni animati preferiti.

Gli sfollati rom, gli ultimi tra gli ultimi

Anche molti sfollati interni di etnia rom tuttora vivono in diverse strutture informali. Le loro condizioni materiali sono ancora più precarie rispetto a quelle di altri sfollati interni, ma anche rispetto alle condizioni dei rom regolarmente residenti in Serbia. La più grande baraccopoli abitata dagli sfollati interni rom è situata ai bordi del quartiere belgradese di Čukarička padina. Essendo completamente isolata ed emersa in un bosco, la baraccopoli è stata soprannominata “il Bosco di Čukarica”.

Nemmeno le ambulanze vogliono entrare nel “Bosco”, i cui abitanti non hanno accesso all’acqua potabile né all’elettricità. Quando piove la baraccopoli si allaga fino a diventare impercorribile. Nonostante la maggior parte dei bambini che vivono nella baraccopoli frequentino la scuola, quando piove forte, e soprattutto quando nevica, fanno fatica ad arrivare a scuola. Le condizioni di vita del “Bosco di Čukarica” sono deplorevoli, e le autorità non hanno mai provveduto nemmeno a installare contenitori per la raccolta dei rifiuti.

I rom che vivono a Čukarička padina sono spesso vittime di discriminazioni. Uno degli abitanti ha dichiarato che quando aveva portato suo figlio in un ospedale di Belgrado gli era stato detto che quell’ospedale era “riservato ai bambini serbi”.

Le condizioni di vita sono disastrose anche nel centro collettivo di Sjenica, nel sud-ovest della Serbia, dove hanno trovato rifugio una ventina di famiglie rom fuggite dal Kosovo durante la guerra del 1999. Sjenica, situata a oltre 1000 metri di altitudine, è una delle città più fredde della Serbia, e gli sfollati rom sono costretti a vivere in abitazioni improvvisate con tetti di nylon o di cartone. L’unica fonte di acqua potabile è una fontana all’aperto. L’anno scorso, grazie all’aiuto finanziario dell’UE, sono state acquistate circa venti unità abitative prefabbricate destinate agli sfollati rom, ma le autorità locali non hanno ancora provveduto all’installazione degli impianti elettrici, pertanto le case restano vuote.

A distanza di oltre vent’anni dalla fine della guerra, la questione dello status del Kosovo è ancora al centro del dibattito politico in Serbia. Nella loro lotta per conquistare l’elettorato, le leadership di Belgrado e di Pristina continuano a ricorrere a una retorica guerrafondaia e pericolosa. Nel frattempo, in Serbia i diritti fondamentali degli sfollati interni continuano ad essere sistematicamente violati.


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