Il presidente serbo Aleksandar Vučić a Bruxelles © Alexandros Michailidis/Shutterstock

Il presidente serbo Aleksandar Vučić a Bruxelles © Alexandros Michailidis/Shutterstock

La Serbia è l’unico paese europeo che non ha adottato sanzioni contro la Russia dopo l’aggressione all’Ucraina lanciata da Putin nel febbraio 2022. La decisione di non aderire alle misure adottate da Bruxelles dall’inizio del conflitto è però controversa

24/11/2023 -  Roberto Belloni

La Serbia, in quanto paese candidato a entrare nell’Unione Europea, dovrebbe, appena tecnicamente possibile, allinearsi alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Non corrispondere a tale aspettativa è fonte di straordinaria irritazione per i funzionari europei e, soprattutto, svela la complessità della situazione geopolitica della Serbia, paese che resta fortemente diviso tra est e ovest, cioè tra il rapporto di vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione.

Il mancato allineamento della politica estera serba a quella europea testimonia le difficoltà di gestione della complessa identità e le differenti priorità serbe.

Nonostante, nel 2012, il presidente Aleksandar Vučić sia arrivato al potere su una piattaforma politica a forte orientamento europeista, in pochi anni si è assistito al crollo dell’allineamento della politica estera serba con quella dell’Ue, che dall’89% nel 2013 è passato al 53% nel 2019. Un vistoso crollo di cui possiamo individuare almeno due principali ragioni.

In primo luogo, è il prodotto della politica di “eterno non-riconoscimento” dell’indipendenza del Kosovo adottata da Belgrado per contrastare la dichiarazione d’indipendenza di Pristina (febbraio 2008). La Serbia ha infatti evitato l’allineamento con le dichiarazioni e misure europee nei confronti di quei paesi che non riconoscono l’indipendenza kosovara, tra i quali la Russia, la Cina, l’Iran, e la Corea del Nord.

In secondo luogo, il rifiuto di Belgrado di adottare le sanzioni contro Mosca in seguito all’annessione russa della Crimea e Sebastopoli del marzo 2014 è stato giustificato con motivazioni economiche, in particolare insistendo sulla sua dipendenza energetica da Mosca. Così, la decisione del governo ha trovato sostegno nella maggioranza dei cittadini, molti dei quali, memori delle sofferenze degli anni ’90 del secolo scorso, quando la comunità internazionale impose sanzioni contro il regime di Slobodan Milošević, considerano le sanzioni economiche un inutile strumento di punizione collettiva con costi ingenti per la popolazione civile.

Il severo inasprimento delle sanzioni contro Mosca, in risposta all’aggressione russa dell’Ucraina del febbraio 2022, ha fatto emergere in maniera ancora più netta quanto la Serbia, come comunità politica, sia un paese diviso tra Occidente e Oriente.

I cittadini serbi hanno valutato l’inasprirsi del conflitto in Ucraina non nel merito, condannando l’aggressore e, su questa base, decidendo se e come esprimere il proprio sostegno all’aggredito, ma sulla base dell’esperienza vissuta dal proprio paese nel 1999, quando la NATO è intervenuta militarmente per difendere i diritti della comunità albanese in Kosovo senza il mandato del Consiglio di Sicurezza ONU. Alla luce della violazione NATO del diritto internazionale, i cittadini serbi ritengono che l’indignazione europea e transatlantica per il comportamento russo sia sostanzialmente ipocrita. Non esprimono nessuna particolare ostilità nei confronti dell’Ucraina, paese che peraltro non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo ma, piuttosto, manifestano il persistere di una profonda antipatia nei confronti sia degli Stati Uniti sia della NATO.

Un recente sondaggio realizzato dal Centro per la Ricerca, la Trasparenza e la Responsabilità (Centar za istraživanje, transparentnost i odgovornost) di Belgrado, rileva che il 66% dei serbi ritiene che la Russia sia stata “costretta” a iniziare la guerra a causa dell’espansionismo della NATO verso est, e due terzi dei cittadini indicano la Russia come il paese “migliore amico della Serbia”.

In questo contesto tutti gli istituti d’indagine indipendenti certificano che più dell’80% dei serbi sono contrari all’adozione delle sanzioni contro la Russia. Le sanzioni sono uno strumento di politica estera che costringe gli stati a schierarsi scegliendo tra “noi” e “loro”. Se adottate andrebbero a minare le basi stesse della politica estera serba, che mira a mantenere rapporti stretti con Mosca e al contempo desidera accedere all’Ue. Non sorprende, pertanto, che dall’inizio della guerra nel febbraio 2022 l’allineamento serbo alla politica estera di Bruxelles sia crollato sotto il 50%.

La contrarietà alle sanzioni e il sostegno nei confronti della Russia dipende anche dal ruolo dei media, che hanno spesso adottato l’interpretazione russa degli eventi bellici. Il caso più clamoroso è probabilmente quello del quotidiano Informer, che il primo giorno di guerra si è spinto fino ad affermare che l’Ucraina avesse aggredito la Russia. Più in generale, i media serbi hanno espresso il proprio sostegno alla politica governativa volta a mantenere un equilibrio geopolitico tra Russia e Unione Europea e hanno sottolineato l’importanza del ruolo di Vučić di fronte alle grandi sfide della politica internazionale.

Il presidente serbo ha tratto un vantaggio politico dalla guerra in Ucraina, descrivendo la Serbia come vittima di una competizione geopolitica e presentando se stesso come unica reale “soluzione” al rischio di contagio.

Alle elezioni dell’aprile del 2022 lo slogan elettorale “Pace-Stabilità” Vučić ha efficacemente avanzato il suo ruolo centrale nella politica serba, convincendo il 44% dei cittadini a scegliere il suo partito alle urne. I partiti politici con un’agenda filo-russa hanno ottenuto un ulteriore 25% dei voti. Le elezioni previste per dicembre 2023 sembrano avviate a confermare il predominio di Vučić sulla politica serba e, di conseguenza, a rafforzare l’attuale politica estera.

Tuttavia, è da rilevare che questa politica di equidistanza e il relativo rifiuto di adottare le sanzioni contro Mosca sta ostacolando il lento e faticoso processo di avvicinamento del paese all’ingresso nell’UE. La Commissione e molti stati membri hanno manifestato la propria contrarietà proprio per il comportamento di Belgrado. Il Parlamento Europeo ha esplicitamente chiesto di subordinare la progressione della Serbia verso la membership all’allineamento del paese al regime di sanzioni contro la Russia. Di fatto, la questione delle sanzioni si sta delineando come un nuovo “capitolo” negoziale nel già complicato percorso d’adesione.

Le insistenti richieste e pressioni europee stanno peraltro rafforzando un fenomeno di latente, e crescente, scetticismo nei confronti del processo di allargamento. Tre quarti dei cittadini serbi interpreta le pressioni di Bruxelles come eccessive e sconvenienti, sintomo di mancanza di rispetto e eguaglianza nei rapporti tra la Serbia e l'UE.

In pochi, ormai, credono alla sincerità dell’Unione riguardo alla volontà di accogliere la Serbia e gli altri paesi dei Balcani Occidentali al proprio interno. L’esperienza della Macedonia del Nord, che ha subito l’umiliazione di dover cambiare la propria Costituzione e il proprio nome sotto pressione esterna senza alcun significativo progresso nel proprio percorso d’adesione, è ben presente ai cittadini e alle élites politiche serbe.

Date le premesse, la questione delle sanzioni si configura come una nuova frontiera nel rapporto tra Bruxelles e Belgrado che, di fatto, sta ulteriormente allontanando i cittadini serbi dalle istituzioni europee e non contribuisce in alcun modo ad allentare il legame tra Serbia e Russia.

Roberto Belloni è professore ordinario di Relazioni Internazionali all’Università di Trento. È autore di I Balcani dopo le guerre: ascesa e declino dell’intervento internazionale (Carocci, 2022).


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