Un bambino guarda fuori da una finestra a Mosca

Un bambino a Mosca - Kirill Skorobogatko/Shutterstock

È uscito in questi giorni per Il Mulino un eBook in cui la scrittrice Julia Yakovleva ha raccolto le parole di bambini e adolescenti russi sul conflitto in corso. Su OBCT l'introduzione al libro

30/01/2023 -  Redazione

Come vivono la guerra bambini e adolescenti russi? La loro quotidianità non è stata stravolta, su di loro non piovono bombe, non sono stati costretti a fuggire. Eppure le loro parole, raccolte dalla scrittrice Julia Yakovleva, offrono un quadro tutt’altro che scontato, pieno di significati e denso di emozioni: un atto d’accusa contro la guerra che proviene dal paese che ha attaccato.

Julia Yakovleva è scrittrice, ma anche esperta di storia del balletto e del teatro. Negli anni Novanta e Duemila ha lavorato presso l’ufficio stampa del teatro Mariinskij di Pietroburgo. Come autrice, ha esplorato in primo luogo la narrativa d’ambientazione storica, soffermandosi in particolare sulla Leningrado d’epoca staliniana e confezionando sia libri per l’infanzia (come la serie “Fiabe di Leningrado”) che appassionanti romanzi gialli, in molti casi tradotti in inglese.

Il libro edito da Il Mulino è accompagnato da un saggio di Maria Bacchi, studiosa dei rapporti fra infanzia, adolescenza e storia, memoria e narrazione autobiografica ed è tradotto dal russo da Martina Napolitano, tra le firme di OBC Transeuropa.

Riportiamo qui di seguito l’introduzione che ci ha gentilmente concesso l’autrice:

“Dopo lo scoppio della guerra ho iniziato a parlare con i bambini e a trascrivere le nostre conversazioni. Niente video, né audio, solo carta e penna; niente nomi, né indirizzi delle scuole. All’inizio si trattava dei figli dei miei amici, poi dei figli di lontani conoscenti, infine di perfetti sconosciuti. In ogni caso, prima di contattarli non conoscevo personalmente nessuno dei miei giovani interlocutori, così come loro non conoscevano me. Eravamo come casuali compagni di viaggio. O meglio: alcuni di loro avrebbero potuto conoscere i libri che ho scritto nella serie "Fiabe di Leningrado". Si tratta di libri che la casa editrice Samokat ha pubblicato nel corso di sette anni, a partire dal 2015: pertanto i bambini che hanno apprezzato il primo libro della serie, "I figli del corvo", oggi non sono più tali. Molti sono ormai adulti, persone che pensano con la propria testa. Le "Fiabe di Leningrado" sono ambientate tra il 1938 e il 1946 e raccontano com’è crescere quando il mondo sta crollando. Il che probabilmente ha aiutato i miei interlocutori a capire il motivo del mio interesse e delle mie domande: avevo scritto della guerra e ce n’era una in corso. Questo, tuttavia, non spiega perché loro abbiano accettato di parlare con me. O forse sì: c’è una guerra e anche il loro mondo sta crollando.

Su questi bambini non cadono le bombe. Questi bambini non hanno sentito il sibilo delle granate passare sopra la propria testa. Non sono scappati dalle città e dal paese in cui vivono. La guerra irrompe nella loro vita (o almeno in quella di alcuni di loro) soltanto attraverso le finestrelle dei telefoni. E forse è proprio per questo che così tanti miei conoscenti adulti hanno espresso dubbi sulla mia impresa. L’hanno considerata sciocca, e persino viziata. "Dunque, hai trovato con chi parlare", concludevano secchi. "Che cosa possono raccontare?". "Non li riguarda". "Perché scriverne? A chi importa?". Rispondevo loro: "Ascoltare le voci dei bambini tedeschi degli anni 1933-45 sarebbe stato altrettanto importante".

Alcuni dei miei interlocutori si dicevano d’accordo, ma senza alcun entusiasmo. Questi bambini stanno bene, obiettavano. Hanno una mamma, un papà. Vivono in casa, non in metropolitana. Vanno a scuola e a scrivere sulla lavagna non sono dei soldati nemici. I loro genitori non sono stati uccisi. Questi bambini non sono stati feriti dai frammenti delle granate. Parliamo piuttosto di quelli che stanno peggio. E senza mezzi termini (con uno sguardo severo negli occhi): le uniche sofferenze di cui ora possiamo parlare sono quelle degli ucraini.

All’inizio le loro obiezioni mi parevano rispondere al vero. Io stessa sentivo di condividerle. Ricordo bene questa sorta di punto cieco: l’orrore nero di ciò che stava accadendo si ergeva come un muro e, su questo sfondo, le mie esperienze, le mie emozioni, i miei pensieri erano qualcosa di assolutamente secondario, anche per me stessa. Non ricordo nemmeno perché e come ho iniziato a parlare con i bambini, ma fin dall’inizio sapevo che lo stavo facendo perché poi avrei trascritto i nostri dialoghi. Per lasciare una testimonianza. Ma che cosa intendevo testimoniare con questo lavoro? Non avevo dubbi sul fatto che avrei visto il modo in cui una guerra che avviene lontano – "a molte migliaia di chilometri da me", come ha detto un ragazzino – si insinua nella vita di questi bambini, impregna i loro giorni e i loro sogni, i litigi e le amicizie. Sapevo già come questo accade, dato che per scrivere le "Fiabe di Leningrado" avevo letto chilometri di diari, lettere, memorie. Questa guerra non ha fatto eccezione. È in corso a migliaia di chilometri di distanza dai miei interlocutori, eppure è qui e loro sono bambini di questo tempo di guerra.

Non sono la prima, né sono e sarò l’unica e tanto meno l’ultima ad aver scoperto di non poter più parlare con i miei conoscenti da quando è iniziata la guerra. La lingua è mutata. Macbeth non soltanto ha ucciso il sonno, ma anche la lingua. Parlare fa male. Non si ha voglia di conversare. Né si capisce come andrebbe fatto.

Ma ecco una cosa che ho scoperto. Parlando con i bambini, ho notato subito, convincendomene poi volta per volta, che il problema di come e di cosa dire durante la guerra per loro non esiste. Riescono a parlare della nostra nuova realtà incrinata, disfatta, distorta. Non hanno dimostrato quella paura che ora serpeggia pressoché costantemente negli adulti: la paura di dire qualcosa di sbagliato.

Perché? È una cosa tutta loro? C’entro io? Non lo so. Può essere che sia qualcosa che abbia a che fare con tutte queste cose messe insieme, ma anche con il fatto che il tempo ora pone delle domande che in circostanze normali si definiscono "infantili". Ad esempio: sei favorevole all’uccisione di esseri umani?

A questa domanda non risponderai che "non sapremo mai tutta la verità". O che "la faccenda non è così semplice".

Le domande che ho posto erano elementari. Il mio obiettivo era trascrivere delle testimonianze; l’ho ripetuto ai genitori, agli insegnanti, ai bambini stessi. Non argomentare, non convincere, non far cambiare idea. Ho cercato di tenere le mie opinioni fuori dalla conversazione e nel porre le domande ho tenuto conto di quanto la società sia profondamente scissa. Non c’erano risposte "giuste" o "sbagliate". "Sei contrario? Racconta". "Sei a favore? Racconta". Non ho utilizzato la parola "guerra" a meno che non fosse l’interlocutore a farlo per primo.

"Come definisci ciò che sta avvenendo quando ci pensi?".

"Guerra".

"Guerra".

"Orrore".

"Schifo".

"Merda".

"Guerra".


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