Lavoratori portuali ucraini a Brăila - © Marine Leduc/Le Courrier des Balkans

Lavoratori portuali ucraini a Brăila - © Marine Leduc/Le Courrier des Balkans

Alla fine di luglio, Bucarest ha lanciato un piano di integrazione a medio e lungo termine per i rifugiati provenienti dall'Ucraina, una novità assoluta nell'Unione europea. Un reportage da Brăila, lungo il Danubio, dove le aziende e le comunità, tra cui i "russi lipovani", si stanno organizzando per l’accoglienza, nonostante le difficoltà

12/10/2022 -  Marine Leduc

(Pubblicato originariamente su Le Courrier des Balkans l’11 ottobre 2022)

Con i suoi ciottoli dissestati ed edifici decadenti, il porto di Brăila ha un'aria da fine del mondo. Situata a monte del delta del Danubio, questa città di 200.000 abitanti dal fascino d'altri tempi è stata tuttavia prospera e cosmopolita tra il XIX e XX secolo ed ha ospitato molte minoranze: turchi, greci o lipovani, che vivevano del commercio o della pesca lungo il grande fiume. Brăila era anche un crocevia del commercio internazionale ed era qui che veniva fissato il prezzo dei cereali in Europa.

Sui moli la vita descritta dallo scrittore Panait Istrati (1884-1935) non è però del tutto scomparsa. Alcuni lavoratori si dividono del pane all'ombra di un albero, altri si dirigono verso gru portuali dal colore giallo brillante. Se li si ascolta con attenzione si nota in fretta che molti tra loro non parlano romeno, ma inglese, russo o ucraino. Dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina e del blocco del porto di Odessa, Brăila sta vivendo una frenesia inaspettata. Situata a un'ora dal confine ucraino, la città è diventata uno dei pochi nodi logistici per l'esportazione di grano e olio di girasole ucraini.

Per soddisfare questa domanda, l'operatore portuale Hercules SA ha assunto più di 15 ucraini a giugno e ne prevede l’assunzione di altri trenta. Di questi, circa dieci sono ospitati in un grande edificio nei pressi del porto. Sono uomini di età compresa tra i 30 e i 60 anni, provenienti da Mariupol, Slaviansk, Mykolaïv o Odessa e non sono stati mobilitati perché hanno almeno tre figli o perché hanno la cittadinanza romena.

È il caso di Oleg, 44 anni, che lavora nella logistica di un'azienda americana e aiuta spesso a tradurre dal russo all'inglese. Al momento dell'invasione si trovava all'estero ed è poi arrivato in Romania. "Mia moglie e mia figlia vivono a Odessa e vengono a trovarmi di tanto in tanto. Ci vogliono cinque ore di macchina per arrivare qui", dice. Presenta alcuni altri dipendenti seduti intorno a un tavolo: "Resteremo finché durerà la guerra. Alcuni sono venuti con le loro famiglie. Molti non hanno più lavoro a casa loro”.

Poco più in là, Roma sta camminando verso il porto dopo la pausa pranzo. Trentenne, ha attraversato il Danubio in agosto sul traghetto che unisce Ucraina e Romania, a Isaccea. "Non avevo più lavoro a Izmail (70-80 km a est, ndr), così ho trovato lavoro qui. Anche mia moglie vuole trovare un lavoro qui", dice. Spera che la guerra finisca presto per poter tornare in Ucraina. "Per questo voglio che i miei tre figli seguano il programma di studi ucraino online, in modo che possano rimanere nel sistema scolastico nazionale”. Oleg concorda con lui: "Per me è meglio. A Galați (un porto romeno vicino), altri bambini frequentano una scuola con insegnanti ucraini, che segue il sistema del nostro paese”.

Sulle alture della città, nel quartiere periferico di Pisc, una madre ucraina entra nella sala della scuola Pushkin. Ha appena iscritto suo figlio all'asilo sotto lo sguardo benevolo della direttrice, Maria Milea. "È comprensibile che le famiglie vogliano mantenere i loro figli nel programma di studi ucraino, ma abbiamo iniziato a pensare all'accoglienza a lungo termine, perché non sappiamo quando finirà”. Il nome della scuola non è casuale: Pisc è il quartiere dei lipovani, la minoranza russofona espulsa dallo zar Pietro il Grande.        

Maria Milea, direttrice della scuola Pushkin - © Marine Leduc

Fin dall'inizio del conflitto, la comunità si è distinta per la sua generosità nei confronti dei rifugiati, sia in termini di alloggio, che di traduzione o accompagnamento. "Sappiamo cosa significa essere esiliati", racconta Maria Milea. "I nostri antenati sono stati perseguitati perché volevano praticare il vecchio rito ortodosso”. Questi "Vecchi Credenti", come vengono talvolta chiamati, si stabilirono sulle rive del Danubio e del suo delta, dove si dedicarono alla pesca.

Brăila ospita quasi un sesto dei 30.000 "russi lipovani", nome ufficiale di questa minoranza in Romania. Questo status permette loro di essere rappresentati in parlamento e di ricevere fondi pubblici per la conservazione della loro cultura, come le altre minoranze del paese.

Nella scuola Pushkin, oltre alle materie principali insegnate in romeno, agli alunni viene insegnato il russo lipovano, un insieme di termini russi, ucraini, romeni e turchi. Dei quasi 330 studenti iscritti quest'anno dalla scuola materna alla terza classe, più del 70% sono lipovani e il 10% ucraini. La scuola ha anche aperto una classe di romeno appositamente per questi ultimi, con l'idea di integrare gli alunni nel sistema del paese, dato che "alcuni genitori stanno pensando di stabilirsi in Romania", dice la direttrice.               

La sfida dell'accoglienza a lungo termine

Dei circa 2,4 milioni di ucraini entrati in Romania, circa 80.000 sono rimasti, la metà dei quali bambini. Dopo la fase di accoglienza di emergenza, si pone ora la questione dell'accoglienza a lungo termine. "Queste persone devono diventare autonome e poter vivere una vita dignitosa nel nostro paese", afferma Maria-Mădălina Turza, Consigliere di Stato del Primo Ministro. "Che non abbiano più bisogno di fare affidamento sugli aiuti statali o delle ONG, perché non sono sostenibili a lungo termine, per nessuno".

Alla fine di luglio, la quarantenne è stata nominata coordinatrice del Piano nazionale di integrazione degli ucraini a medio e lungo termine, una novità assoluta nell'Unione europea. È stato stanziato un budget di 200 milioni di euro all'anno, con l'obiettivo di sostenere i 60.000 ucraini registrati nel paese attraverso il Meccanismo europeo di protezione civile.

"La loro indipendenza è importante anche per loro, per la loro salute mentale", continua Maria-Mădălina Turza. "D'altra parte il rimanere non è una decisione irreversibile. È sempre possibile ripartire, tra qualche mese, un anno o più anni".

Il piano da lei coordinato contiene molteplici misure in sei aree considerate essenziali per l'integrazione: salute, istruzione, lavoro, alloggio, bambini e persone vulnerabili. Sono inclusi anche il supporto psicologico e l'assistenza alle comunità locali, come i lipovani.

"Questo piano non è perfetto, ma avere una visione, una strategia, era necessario", sottolinea Maria-Mădălina Turza. “È importante sapere che dall'inizio del conflitto sono state modificate quasi trenta leggi per cambiare lo status del loro visto e facilitare la loro assistenza", dice. "Non ce ne rendiamo conto, ma cambiare così tante leggi in così poco tempo, è un risultato incredibile! E questo perché l'intera società, dalla popolazione al governo, si è mobilitata per aiutare i profughi, un fatto inaudito”.          

A livello locale, una delle sfide che la scuola Pushkin deve affrontare è la mancanza di personale di lingua ucraina o russa nell'asilo. Per Maria-Mădălina Turza, sarà effettivamente complicato reclutare personale in ogni scuola, anche se si prevede, nelle scuole con il maggior numero di bambini ucraini, questa possibilità. "Ci ispiriamo ad altri paesi, dove vengono messi in atto metodi per accogliere i bambini migranti, con materiale pedagogico adattato per l'insegnamento del romeno", sottolinea Maria-Mădălina Turza.

E nel mondo del lavoro, come nel caso di Hercules SA, è il riconoscimento delle qualifiche ucraine a rappresentare un problema per l'assunzione: alcune istituzioni riconoscono i diplomi, altre no. "Questo è un altro grande problema della Romania: la comunicazione interna tra istituzioni e autorità pubbliche, che deve essere migliorata", riconosce la Consigliera di Stato.

L'8 e il 9 settembre, su iniziativa della Romania, si è tenuto un forum di discussione a cui hanno partecipato altri 23 stati membri UE e delegazioni del Regno Unito, della Norvegia e della Moldavia. "L'idea era quella di avere una conversazione onesta e aperta, perché anche se siamo i primi ad aver avviato un piano di integrazione di questo tipo, si tratta di una vera e propria sfida per il nostro paese, che ha sempre avuto più emigrazione che immigrazione. Abbiamo presentato i nostri successi, ma anche i limiti riscontrati", riporta Maria-Mădălina Turza. Secondo lei, sono emerse preoccupazioni comuni, che riguardavano l'alloggio, la disinformazione sui rifugiati e la barriera linguistica.

Ad esempio, il governo ha mantenuto il programma 50/20, che consente alle persone che ospitano i rifugiati di ricevere in cambio un sostegno finanziario: 50 lei (10 euro) a notte per ogni persona e 20 lei (4 euro) al giorno per il cibo. Tuttavia, il sistema ha i suoi limiti: alcuni proprietari ne approfittano per lucrare sui rifugiati e rifiutano persone sole, che hanno difficoltà a trovare un posto dove vivere. Inoltre, blocca le possibilità di trovare alloggio ai romeni, in particolare agli studenti, che quest'anno sono tornati all’università in presenza.

"La coesione sociale è essenziale per l'integrazione. Ad esempio, non possiamo impegnarci ad aiutare un bambino ucraino autistico e creare un centro speciale per lui, quando gli aiuti per i romeni autistici sono già limitati. Questo causerebbe tensioni", afferma Maria-Mădălina Turza, che sa di cosa parla: suo figlio ha la sindrome di Down e la funzionaria si batte per una migliore assistenza alle persone vulnerabili nel paese. Per lei la situazione attuale è "un'opportunità per la Romania e per altri paesi di progredire e migliorare i servizi e l'accoglienza per tutti".


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