Donne al lavoro in un mercato di frutta e vedura © BearFotos/Shutterstock

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Le migliaia di braccianti romene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre

18/08/2023 -  Stefania Prandi

(Originariamente pubblicato da IRPIMEDIA - l'articolo è protetto da copyright per eventuali ripubblicazione contattare IRPIMEDIA)

La casa di Petra è nascosta da una staccionata di legno usurata. I muri esterni, da un lato, sono rivestiti in calce, dall’altro sono coperti da travi bianche e dipinti di rosa. Per raggiungere la piccola abitazione, si imbocca la strada principale di Zmeu, villaggio in provincia di Iași, nella Moldavia rumena. Petra ha quarantasette anni, i capelli neri con fili bianchi raccolti in uno chignon improvvisato. Sono trascorsi tre anni da quando è partita per l’ultima volta dalla Romania. Lo strappo della lontananza le fa ancora tremare la voce.

«Uno dei miei figli doveva essere operato a un’ernia inguinale grave. Ho chiesto un prestito di 600 euro per pagare le medicine e il trasporto dal nostro paese a Iași, la città dell’ospedale». Per Petra non c’era altro modo di saldare il debito se non lasciare Zmeu, dove abitava con i suoi nove figli, e diventare una bracciante in Italia. «Alina, la mia bimba più piccola, aveva soltanto sei mesi. L’ho affidata ai fratelli più grandi. Ogni tanto una zia che vive qui vicino veniva a controllarli».

Petra è stata anche una muratrice in Romania, ma i soldi guadagnati erano troppo pochi, 40 euro per ogni vano costruito. Il lavoro richiedeva fino a una settimana di fatica. Ogni due sere Petra chiamava a casa dall’Italia per avere notizie della sua bambina e degli altri.

«Non avevo uno smartphone, non potevo permettermelo, sentivo la loro voce senza vederli». Così per tre anni, ogni estate. «Ho lavorato con mio marito in un’azienda, in provincia di Verona, dove raccoglievo frutta e verdura per dieci ore al giorno, con una paga di sei euro all’ora. I miei “padroni” sapevano che avevo lasciato i miei figli da soli in Romania, ma non gli importava. A loro interessava la mia efficienza, nient’altro».

Stando al contratto di riferimento di quel periodo, Petra avrebbe dovuto ricevere almeno nove euro lordi all’ora. Tuttavia, come confermano diverse indagini, tra cui la serie #InvisibleWorkers di IrpiMedia, in Italia è diffusa la pratica di pagare le braccianti meno del dovuto, soprattutto se straniere. Secondo il Consiglio per i diritti umani dell’Onu, nel settore agricolo italiano sono occupati tra i 450 mila e i 500 mila migranti; il 40% di loro in modo irregolare. Stando al VI Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, nel 2021 sono stati circa 230 mila i lavoratori impiegati irregolarmente in agricoltura, e di questi 55 mila erano donne.

Una parte della forza lavoro trova occupazioni stagionali attraverso il caporalato, l’intermediazione illegale tra agricoltori e braccianti. Non esistono dati sulla presenza reale delle lavoratrici rumene e bulgare nei campi, fanno sapere da ActionAid. Per avere un’idea, vanno considerate le singole aree ma, ovviamente, ad ogni conteggio sfuggono le braccianti in nero. Soltanto nell’Arco Ionico le operaie agricole regolari sono 22.702, 16.801 italiane e 5.901 straniere, di cui il 76% è costituito da comunitarie, soprattutto rumene e bulgare.

La Romania e gli “orfani bianchi” dell’agricoltura

Due gemelli di otto mesi, un maschio e una femmina, sono seduti sul letto nella camera matrimoniale di Petra. Le altre due stanze sono minuscole, con i soffitti bassi, ingombre di vestiti e mobili. L’unico bagno è all’esterno, nel cortile. I due neonati sono i nipoti di Petra, i figli del suo primogenito. La nuora glieli ha portati poco prima che compissero un mese, perché doveva partire per la Germania, per lavorare in un magazzino di impacchettamento degli asparagi e di altra verdura. Torna a Zmeu ogni quattro settimane, si ferma con i piccoli per tre giorni, e poi deve andarsene di nuovo in Germania.

Una ricerca di Save the Children Romania, pubblicata in rumeno all’inizio di maggio di quest’anno, calcola che oltre mezzo milione di minori rumeni (536 mila, per la precisione, circa il 14% del totale), nel 2022, abbiano avuto almeno un genitore all’estero. Delle bambine e dei bambini conteggiati da Save the Children, 184 mila sono rimasti del tutto senza cure parentali dirette. I “senza madre” sono stati 155 mila.

L’Italia (21%), la Spagna (17%) e l’Austria (12%) sono le prime tre destinazioni del lavoro femminile. L’indagine indica che un quinto delle madri emigrate è occupata nel settore agricolo. Spiega Anca Stamin, project manager di Save the Children Romania: «La ricerca è stata presentata in una conferenza nazionale organizzata in collaborazione con il ministero degli Affari esteri rumeno, alla quale hanno partecipato autorità nazionali, parlamentari nazionali ed europarlamentari che hanno proposto soluzioni per migliorare la situazione dei bambini “left behind”».

Left behind (abbandonati) è la definizione inglese usata dall’organizzazione internazionale Unicef (l’agenzia delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei bambini e delle bambine), per i minori affidati ai nonni o ad altri parenti mentre i genitori espatriano. Sono chiamati anche “orfani bianchi”. Per le madri è impensabile, nella maggioranza dei casi, portarli con sé quando vanno a fare le braccianti nelle serre straniere dove si raccolgono la frutta e la verdura vendute in tutta Europa. I lunghi orari della campagna, con le levatacce quotidiane, le abitazioni anguste, spesso non a norma, e la stanchezza cronica, mal si conciliano con le cure per l’infanzia.

La distanza è vissuta con dolore dalle madri. La sofferenza può diventare così forte da costringerle a ritornare a casa prima del previsto, abbandonando il progetto migratorio.

© bokan/Shutterstock

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Il ruolo materno

Per comprendere appieno le conseguenze del distacco tra madri e figli, è utile visitare l’ospedale psichiatrico Socola di Iași. Percorrendo i corridoi giallo pallido, si scorgono le stanze spoglie dove dormono le degenti. Qualche infermiera passa con le medicine e le cartelle cliniche. Nel giardino di fronte al padiglione principale, sulle panchine all’ombra degli abeti, siedono gruppetti di donne in vestaglia e pantofole. Si muovono lentamente, come se attorno a loro la forza di gravità pesasse di più. Una paziente regge con le dita tremolanti una sigaretta che si consuma prima di arrivare alle labbra. Il silenzio è interrotto da mormorii e lamenti, sovrastati dai martelli pneumatici dei padiglioni in ristrutturazione.

Petronela Nechita è la primaria della struttura psichiatrica e una parte delle pazienti che ha seguito nel tempo erano braccianti. «Le operaie agricole con disturbi psicologici e psichiatrici, nei casi più gravi, devono essere assistite in clinica, altrimenti vengono in ambulatorio». In un anno, rappresentano in media il 5% delle pazienti curate nel suo studio privato. Nechita conosce bene la “sindrome Italia”, ossia la condizione di estremo disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri. Coniata inizialmente da due psicologi ucraini nel 2005, riguarda anche le braccianti.

«In generale le donne soffrono di insonnia, disturbi di ansia e stress da isolamento. A causa dello scarso livello di istruzione partono prima ancora di apprendere la lingua e, giunte sul posto, faticano a creare dei legami. L’agricoltura è meno traumatica del badantaggio, che può implicare anche quindici o venti anni di assenza. Chi lavora nei campi, in genere, fa avanti e indietro, va via per alcuni mesi e poi riesce a rientrare a casa».

La lontananza è un’esperienza tragica anche per i bambini. «Ne ho seguiti per molto tempo, prendendone alcuni in cura. Una volta diventati grandi riescono a descrivere il modo in cui sono cresciuti, i dispiaceri patiti durante l’infanzia. Più erano piccoli quando la madre se n’è andata, maggiore è la loro angoscia. Io cerco di spiegarlo ai genitori. Loro, a volte, mi dicono: “Adesso è il momento giusto per andarcene perché nostro figlio è inconsapevole, non capisce, dorme spesso, sta con la nonna”. Invece è esattamente il contrario», ribadisce Nechita. Aggiunge: «L’affettività materna è vitale e non può essere delegata, serve il contatto diretto, il suo amore è un salvavita». Per due o tre settimane di separazione il dispiacere è contenuto, ma esplode non appena la lontananza si allunga.

Anca Stamin ritiene che l’assenza delle madri sia avvertita più intensamente di quella dei padri perché sulle spalle delle donne c’è il carico tradizionale delle faccende domestiche e della cura dei figli. Se le genitrici si assentano per lunghi periodi, nei più piccoli affiorano sentimenti di abbandono, calo di fiducia in se stessi e sensi di colpa. E i bambini vengono investiti dall’idea che l’emigrazione materna sia in funzione del loro bene. In media, le mamme partono per la prima volta quando i bambini hanno sei anni.

«La scelta dell’emigrazione è obbligata dalla penuria di impieghi e dagli stipendi rumeni troppo bassi», dice Iurciuc Ilie, preside del plesso scolastico di Zmeu, con 432 alunni fra i tre e i 14 anni. Il 30% delle madri dei suoi alunni lavora all’estero. Le rimesse (il denaro inviato dagli espatriati alle famiglie) hanno cambiato il paesino, nel corso del tempo: sono sorte nuove case, costruite secondo i canoni occidentali, e altre sono state ristrutturate. «Il distacco prolungato ha un impatto negativo sull’andamento scolastico. In media, gli studenti seguiti dalle nonne hanno voti più bassi e rischiano l’abbandono scolastico. Sono più ribelli, tendono a non rispettare le regole e si intristiscono davanti alle madri degli altri». Inoltre, a volte quando arriva l’età dell’adolescenza, cercano consolazione nell’alcol o in altre sostanze psicotrope.

Un’altra ragione, meno indagata, dell’emigrazione femminile, è la violenza domestica. Elena Stancu lo ha ribadito in un articolo pubblicato a luglio 2022 (finalista allo European Press Prize), sul giornale rumeno Libertadea. Nel 2020, scrive Stancu, sono stati segnalati 26.809 casi di violenza domestica e 72 persone sono state uccise come conseguenza, soprattutto donne e bambini.

Per inquadrare il contesto, puntualizza Stefano Bottoni, ricercatore in Storia dell’Europa orientale all’Università di Firenze, si deve ricordare che la Romania è ancora uno dei Paesi europei con la più alta percentuale di popolazione che lavora nelle campagne, circa il 40%  del totale: un’agricoltura di sussistenza, si vive col poco che si coltiva. I modelli familiari sono arretrati, patriarcali, sfigurati dallo strapotere del padre-padrone. In Romania il divario sociale è enorme: i grandi centri logistici e universitari ultramoderni, realizzati negli ultimi vent’anni, non riescono a colmare la povertà di ampie aree di miseria, ferme ai primi anni della seconda metà del Novecento, nelle quali, ad esempio, avere il bagno in casa è un miraggio. Uno sviluppo diseguale, favorevole per le famiglie benestanti e svantaggioso per i ceti meno abbienti.

Un recente rapporto della Banca mondiale stabilisce che, fra i membri dell’Unione europea, la Romania ha registrato il più alto tasso di emigrazione dal 1990. Tra i tre e i cinque milioni di rumeni — su un Paese di quasi venti milioni — vivono e lavorano all’estero. Sono quasi un quinto della forza lavoro del Paese. La situazione è simile in Bulgaria, l’altro Paese comunitario ad alto tasso di emigrazione. Da una popolazione di quasi nove milioni di persone negli anni Novanta, ne sono rimaste sei e mezzo.

I bambini bulgari “senza madre”

Le vie di Gabrovnitsa, paesino a una decina di chilometri dalla città di Montana, nel nord-ovest della Bulgaria, sono deserte. Case con i giardini curati si alternano a edifici chiusi, dalle imposte scrostate, ma ancora in buono stato. Accanto emergono ruderi assiepati dalle sterpaglie. Nella piazza centrale un aereo militare, un MiG 21, ricorda le glorie passate, quando la base aerea locale era in funzione per proteggere il confine con Serbia e Romania. Il vecchio aeroporto è deserto, invaso dalle erbacce. Ci sono soltanto una guardia, un cane e due porte di ingresso arrugginite. Gabrovnitsa è un villaggio con un’alta percentuale di popolazione rom e a forte emigrazione.

Nei corridoi della scuola di Gabrovnitsa i passi rimbombano. Le aule sono vuote, è giugno, l’anno è finito. Rosita Alexandrova, maestra di sessantaquattro anni, è seduta alla cattedra, nella sua classe. «Ogni lettera termina sempre con ti voglio bene, mamma». Alexandrova si commuove mentre racconta di quando aiuta i suoi alunni e le sue alunne a scrivere alle madri. Alcune non riescono a tornare nemmeno per Natale e i messaggi dei figli, allora, diventano ancora più accorati. «Nel corso degli anni ho avuto molti alunni con le mamme lontane. La mattina, appena arrivati, mi chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli. Certe volte erano particolarmente tristi e mi domandavano di aiutarli a scrivere lettere e biglietti da spedire in Italia». La maestra non riesce a fornire un numero complessivo, ma soltanto nella classe dello scorso anno, su quattordici studenti, quattro avevano i genitori all’estero. A cambiare, nel corso del tempo, sono i Paesi di emigrazione. L’Italia non è più l’unica meta. Adesso, dalla provincia di Montana, scelgono l’Inghilterra, la Germania e la Finlandia.

Teodora Dimotrova, un’altra insegnante della scuola di Gabrovnitsa, riferisce che molti studenti hanno piena consapevolezza della situazione. «Sanno che le madri sono partite per guadagnare di più e per offrire loro un futuro migliore. Con i risparmi riescono a mandarli alle superiori e all’università, una possibilità altrimenti preclusa per loro, se fossero rimaste qui».

Abbandonare la Bulgaria è una scelta quasi obbligata, puntualizza la sindacalista Maria Lazarova. Con la deindustrializzazione alla fine del blocco sovietico, le opportunità di impiego sono poche e gli stipendi troppo bassi. Basta fare un giro nel centro della città di Montana per rendersi conto che non ci sono molte fabbriche in attività. Vicino alla stazione, dove sosta un treno arrugginito a quattro carrozze senza bagno, si scorgono gli edifici abbandonati delle grandi industrie del passato. Una buona parte delle quali ha iniziato a fermarsi dopo il 1990, spiega Stefan Petrov, storico e ricercatore all’Università Kliment Ohridski di Sofia. Sette anni più tardi c’è stata una seconda ondata di dismissioni.

«Prima della chiusura delle industrie, quasi tutti i bulgari avevano un lavoro e uno standard di vita dignitoso. Dopo il crollo del socialismo nell’Europa dell’Est, c’è stata un’espansione del capitale occidentale nei nostri Paesi. Parecchie fabbriche sono state privatizzate o date in “concessione” a società straniere. Di fatto le nostre risorse, naturali e industriali, sono sfruttate da imprese estere. E avendo tagliato i legami economici con gli ex Paesi socialisti, abbiamo perso i vecchi mercati».

Lavorare tanto non basta

Zina ha trascorso la notte in bianco, la seconda di seguito, e ha fumato troppe sigarette. La stanchezza si vede dagli occhi lievemente sporgenti e dalla piega sfatta. Mi mostra le mani callose, con impressi tutti i lavori della sua vita. Sospira in continuazione, è in attesa che il marito si svegli dopo un’operazione cardiovascolare urgente: gli hanno dovuto inserire degli stent, i tubicini per mantenere aperti i vasi sanguigni. È seduta su una panchina nel retro dell’ospedale della città di Montana, tra le più povere della Bulgaria.

«Sono pronta a ripartire per l’Italia a ottobre. Non ho altra scelta, qui è impossibile vivere. La prima volta me sono andata a 36 anni. Con me è venuto anche mio marito. Sono stata nei campi in Puglia, dove ho fatto la raccolta delle patate e delle melanzane. Prendevo cinque euro all’ora». In quell’azienda agricola riusciva a lavorare solo due giorni alla settimana. Gli altri doveva affidarsi ai caporali: passava un “amico” del padrone o qualche parente e allora poteva andare nei loro campi.

È frustrante, secondo Zina, essere costretti a lasciare la propria famiglia per guadagnare soldi che non sembrano mai abbastanza. A casa, in Bulgaria, era rimasto il primogenito, già sposato, al quale Zina aveva affidato Nina, la figlia minore, all’epoca dodicenne.

«A Nina sono mancata una vita intera. Mi rimprovera per tutte le mie assenze: il momento in cui le sono venute le mestruazioni e non sapeva mettersi l’assorbente; il giorno in cui si è fidanzata e non ha potuto raccontarmelo di persona; nelle sale parto, quando ha dato alla luce i suoi tre figli senza che io le tenessi la mano. Io le mandavo i soldi, sono sempre stata il suo bancomat, ma nella vita non le sono stata vicino. Mi sento colpevole».

Come altre, Zina ha abbandonato i campi appena ha potuto ed è diventata una badante, un lavoro meno logorante, che però le lasciava ancora meno tempo per poter tornare a casa. Eppure non le sembra di aver mai avuto scelta: «Se non fossi partita, cosa ne sarebbe stato dei miei figli?» domanda, allargando lo sguardo verso il padiglione cadente nel quale è ricoverato il marito. Quando Zina tornava in Bulgaria, la figlia Nina la notte non dormiva e piangeva sul suo seno. La pregava di restare. «Io le dicevo, ragazza mia, le tue amiche non possiedono quello che hai tu: bei vestiti; un cellulare in tasca; non ti manca nulla. Lei mi rispondeva: “Il denaro può comprare tutto ma non l’amore”».

Zina entra nei dettagli degli anni di sfruttamento, saltando da una vicenda all’altra. Parla di un intermediario, un caporale che l’ha aiutata a trovare il primo lavoro da badante, in coppia col marito. Prendevano 1.300 euro in due, non avevano giornate libere né ferie, e dovevano darne quattrocento al caporale. Appena ha provato a rinegoziare l’accordo, lui le ha risposto che le avrebbe dato un pugno in faccia. Zina racconta di essersi rivolta alla figlia dell’anziana, per avere un aumento, e lei li ha cacciati, con 3.500 euro di trattamento di fine rapporto e un mese di stipendio.

A un certo punto Nina, ormai cresciuta, si è sposata e si è trasferita in Germania. Ha avuto tre figlie e tre anni fa si è ammalata di cancro. È ritornata in Bulgaria per curarsi in un ospedale oncologico privato e la madre le mandava tutti i soldi guadagnati – 1.500 euro al mese – per gli esami e per le cure. Zina era in Sicilia, a casa di un’anziana, senza giornate libere. Mostrava al padrone che gli stipendi finivano subito nel conto corrente della figlia. «Mi sono massacrata per quattro mesi, in Sicilia, senza uscire di casa. Alle mie nipoti promettevo: non resterete senza mamma. Io lavoro per farla guarire e vostra madre non vi lascerà mai».

* I nomi delle braccianti sono stati cambiati su loro richiesta


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