Vista aerea del campo di Moria sull'isola di Lesbo © Nicolas Economou/Shutterstock

Vista aerea del campo di Moria sull'isola di Lesbo © Nicolas Economou/Shutterstock

Adele e Federica, volontarie presso il campo rifugiati di Moria, a Lesbo, raccontano attraverso la storia di Mustafa il volto crudele degli stati europei in merito alle migrazioni. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

03/11/2021 -  Adele MoltedoFederica Montanaro

Mustafa ha 18 anni, è di nazionalità afghana e di etnia hazara. Il suo popolo è stato straziato dalle molteplici campagne di odio ed epurazione del precedente regime talebano. Per questo motivo Mustafa ha trascorso la maggior parte della sua vita in Iran, ma nemmeno questo è un luogo sicuro in cui un rifugiato può condurre un’esistenza dignitosa. Perciò, circa due anni e mezzo fa, Mustafa e la sua intera famiglia hanno intrapreso il viaggio alla volta dell’Europa, e accidentalmente, della Grecia.

Mustafa ha affrontato a piedi, sorreggendo il nonno, le montagne che segnano il confine tra l’Iran e la Turchia. Insieme con il resto della famiglia, hanno vissuto per un mese intero nella giungla turca in attesa del passaggio al di là del mare. Quando finalmente il momento è arrivato, il motore del piccolo gommone sovraccarico su cui viaggiava è andato in panne nel bel mezzo della tratta Turchia-Lesbo, breve in condizioni agevolate, ma infernale in quelle in cui Mustafa si trovava. La Guardia Costiera Greca è giunta in soccorso dell’imbarcazione, trasportando finalmente i passeggeri sul suolo europeo.

“Non dimenticherò mai quella notte”, ha dichiarato Mustafa.

Ma ciò che sembra il felice epilogo di una tremenda epopea, in realtà non è che la battuta d’inizio di un percorso per molti versi addirittura più estenuante: la richiesta di asilo.

L’isola di Lesbo, posta all’estrema periferia orientale dell’Europa, a poche decine di miglia nautiche dalla Turchia, rappresenta per via della sua posizione geografica una naturale corsia d’ingresso all’Unione Europea. I migranti che giungono all’isola vengono immediatamente accolti, sottoposti ad un controllo medico e successivamente identificati. Una volta completata questa prima fase, possono fare domanda alle autorità greche per ottenere lo status di rifugiati, e dunque il diritto di muoversi liberamente all’interno dei confini europei. Tale processo può durare anni. Il vero problema, comunque, non è la durata in sé dell’iter, ma piuttosto le condizioni disumane in cui le autorità greche, e di conseguenza europee, costringono Mustafa e gli altri richiedenti asilo ad attendere: all’interno di campi profughi, deprivati dei più elementari diritti umani.

Mustafa ha vissuto con la sua famiglia per un anno nell'infelicemente noto campo di Moria. In quel periodo il campo era popolato da circa 25mila persone, un numero di oltre 5 volte superiore alla sua capacità di assorbimento, anche se reperire numeri ufficiali è difficile. Il campo era straripato al di là delle mura sormontate di filo spinato che avrebbero dovuto racchiuderlo, tra gli ulivi, che rappresentano il paesaggio più tipico dell’isola. Mustafa viveva lì, senza elettricità e senza acqua corrente, con cibo di infima qualità e per di più scarseggiante, a centinaia di metri dal bagno più vicino, deprivato della sua libertà di movimento. Nel 2019 una serie di incendi dolosi ha distrutto il campo, senza fare vittime. I suoi abitanti hanno vissuto in strada fino all’allestimento d’urgenza del campo ufficialmente noto come Reception and Identification Center (RIC), ma più comunemente come campo Mavrovouni o Moria 2.0.

“Le condizioni di vita all’interno del nuovo campo sono decisamente migliori rispetto a Moria, Moria era tremendo”, riporta Mustafa. Il pieno rispetto dei diritti umani degli abitanti del campo sembra comunque essere un miraggio. Il campo è a tutti gli effetti una struttura detentiva: si trova lungo la costa, con un’onnipresente vista sulla costa turca. Molte delle tende in cui i richiedenti asilo vivono sono situate a pochi metri dal mare, che in inverno significa essere esposti a vento forte e freddo. L’intero perimetro del campo, ad eccezione del lato bagnato dal mare, è circondato da mura di cemento rafforzate da una seconda recinzione metallica ben più alta e sormontata da filo spinato. Da dentro, è impossibile rendersi conto che la città si trova a 10 minuti di macchina. Fuori dall’unico cancello sono sempre presenti due automezzi blindati e diverse volanti della polizia e dell’esercito greco. L’intero campo detiene lo status di suolo militare, e per questo è proibito sia l’ingresso al personale non autorizzato che l’esecuzione di foto e riprese al suo interno. “Ogni volta che si rientra al campo si viene perquisiti, non possiamo introdurre né alcolici né cibo cucinato, anche se quello fornito da loro continua ad essere immangiabile: a volte non capisco nemmeno che cosa sia”.

Anche l’uscita dal campo è strettamente regolamentata, c’è una postazione di controllo fissa all’ingresso. Mustafa ci dice che è possibile uscire dal campo una volta a settimana per tre ore, per ragioni legate alla pandemia. Per ulteriori uscite è necessario presentare una giustificazione scritta alla polizia all’ingresso. “Se sono di buon umore la accettano e ti lasciano uscire, altrimenti no. Dipende”. Tali certificazioni vengono spesso rilasciate dalle ONG presenti all’esterno del campo, generalmente in occasione di eventi, attività o nel caso in cui i migranti svolgano il ruolo di volontari presso le stesse ONG. Comunque, le regole riguardanti l’uscita e l’entrata dal campo sembrano essere piuttosto labili, con gli stessi richiedenti asilo spesso incerti su cosa sia effettivamente proibito fare. Anche l’accesso della stampa al campo e la copertura mediatica sulla gestione della crisi umanitaria in atto sono sottoposti a stringenti misure “di sicurezza”.

Inoltre, c’è un’assurda legge che vieta tassativamente di retribuire con denaro i migranti e di assumerli, preservando uno status quo che sfavorisce nettamente l’inclusione e risulta essere dannoso sia per l’economia dell’isola che, ovviamente, per i rifugiati stessi. Quest’impossibilità di integrazione tra popolazione locale e popolazione migrante non fa che alimentare un clima di rabbia che, anche ad un occhio esterno, risulta inevitabile: Mitilene, la città principale dell’isola, conta circa 25mila abitanti, esattamente come il campo di Moria nel momento di massima espansione. La tensione sull’isola è di conseguenza palpabile: con il campo a due passi, i turisti, parte essenziale dell’economia isolana, sono diminuiti drasticamente, e gran parte della popolazione si sente minacciata dai continui arrivi. È un sentimento ampiamente comprensibile: Moria non è mai stato un campo sostenibile per nessuna delle parti coinvolte. Questa tensione è stata liberata prima che il campo venisse incendiato, quando l’isola era la meta preferita di gruppi neofascisti e neonazisti da tutta Europa. Oggi la situazione sembra all’apparenza meno drastica, ma appena si gratta la superficie, l’odio insieme alla rabbia emergono. La violenza fisica, verbale e psicologica che i migranti devono affrontare dentro e fuori dal campo è intollerabile e, francamente, disumana.

Il parziale miglioramento delle condizioni di vita all’interno del campo è principalmente dovuto alla drastica riduzione del numero dei suoi abitanti, ottenuta anche tramite l’intensiva campagna di pushbacks che sta avendo luogo in questi mesi. Molte sono le storie di migranti che raccontano di essere stati prima bloccati – gommoni bucati, carburatori svuotati – e poi recuperati dalle autorità greche ed europee. Ad ogni modo, nessuna strategia a lungo termine è stata sviluppate per garantire il miglioramento o il mantenimento di tali condizioni.

Secondo le fonti ufficiali, il campo Mavrovouni è di natura temporanea, perciò l’unico progetto a lungo termine previsto è il suo smantellamento. Per rendere un’idea sulla natura temporanea del campo, basti pensare che alla sua apertura, Mavrovouni non aveva neanche i canali di scolo, che sono stati costruiti più tardi, da alcune ONG, quando le piogge invernali si erano fatte troppo intense. Una volontaria di rilievo ci assicura che al momento non è ancora stata sviluppata alcuna strategia per l’imminente arrivo degli afghani. Il campo è stato eretto in fretta e furia, perciò è difficile fare progetti quando non è stata nemmeno determinata la sua capienza di base. Ci dice anche che personalmente dubita che il campo sia realmente temporaneo, dal momento che sta girando molto denaro ultimamente. È ormai un anno che Mavrovouni fa le veci di un campo permanente: non solo non sono stati ancora iniziati i lavori per il nuovo campo, ma non è nemmeno stata scelta la località.

Nonostante gli investimenti di cui ci parla la volontaria, alcuni problemi strutturali ed assolutamente prioritari sembrano non essere minimamente considerati né dal management del campo, ovvero le autorità greche, né da quelle europee. “Sono bloccato qui da due anni senza la possibilità di studiare, a parte i corsi di greco e d’inglese non ho nessun altro accesso all’istruzione” dice Mustafa, che si vede negato un ulteriore diritto fondamentale e la futura possibilità di integrazione nel mercato del lavoro. Inoltre afferma che nel campo c’è un’epidemia di violenza psicologica, con una preoccupante diffusione di depressione ed autolesionismo, specialmente tra bambini e adolescenti: “Le persone sentono la loro esistenza appesa a un filo, hanno paura di essere rimpatriati, hanno paura degli sbalzi d’umore degli isolani e del governo greco. Abbiamo paura che la nostra richiesta d’asilo venga rigettata, al secondo rifiuto ci vengo bloccate le carte di credito. Noi non possiamo tornare in Afghanistan, abbiamo paura di dover andare senza avere nulla ad Atene. A volte non abbiamo nemmeno i soldi per andare ad Atene. Le persone nel campo perdono la speranza”. Mustafa si riferisce alla recente pratica del governo greco di lasciare che i richiedenti a cui viene rifiutato il visto vadano ad Atene. Così il problema si sposta: mentre Lesbo si svuota, grazie anche ai pushbacks, Atene si riempie di migranti senza documenti, senza il diritto a vitto e alloggio che almeno avevano sull’isola.

“Ma io resisto, trovo ogni giorno un motivo per uscire dalla tenda e continuare a sperare” conclude Mustafa. Nemmeno l’inutile sofferenza inflittagli dalla Grecia e dall’Unione Europea è riuscita a spezzarlo.

In conclusione, è evidente che ci sia una volontà precisa da parte dalle autorità greche nel rendere la vita dei migranti sull’isola insostenibile… ma non è ormai chiaro che la deterrenza non è una strategia sostenibile per gestire i flussi migratori? A 6 anni dal 2015, e quindi dall’inizio della “crisi” migratoria, non è ormai chiaro che esclusione e abusi non giovino a nessuno ma che anzi acuiscano la crisi? perché l’Unione, che si erge a difensore globale dei diritti umani, permette che certi abusi vengano perpetrati sul suo territorio?

L’Europa che dovrebbe essere un porto sicuro si sta dimostrando un carceriere crudele.


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