"Ho voluto raccontare una storia che mettesse in luce le incredibili qualità della Bosnia e riconoscesse le sofferenze patite nell’epoca moderna e durante le tre guerre combattute dai bosniaci nell’ultimo secolo", scrive Cathie Carmichael del libro recentemente pubblicato da Bottega Errante
Per gli europei (occidentali) non è mai stato facile capire il mosaico jugoslavo, la cui complessità è stata ben condensata nella nota filastrocca che recitava di sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti. Ed un solo Tito, ovviamente (anche se non sono mancati gli emuli, ma decisamente più modesti dell’originale, come sappiamo). Per di più anche la Jugoslavia nel corso del Novecento si è moltiplicata per tre, cambiando ogni volta il suo volto istituzionale in modo radicale. Delle sei repubbliche l’apice della complessità, per così dire, spetta alla Bosnia, l’ombelico balcanico in cui – come recita il titolo di questo libro – iniziò il secolo breve con gli spari di Gavrilo Princip nel giugno 1914 a Sarajevo e qui terminò con la fine del lungo assedio “urbanicida”.
Già definire la Bosnia non è facile perché – nota l’autrice, storica all’università britannica dell’East Anglia – ha sempre avuto frontiere “elastiche” quanto a religione, lingua e vincoli familiari. Gli stessi confini geografici sono permeabili perché facili da valicare, cosa questa che ha facilitato la transumanza ma anche i movimenti dei popoli, spesso in fuga da guerre ed invasioni. Anche perché la Bosnia riuscì ad esistere come Stato indipendente solo per un breve periodo tra il Tre ed il Quattrocento; poi sarà sempre influenzata, se non strattonata o occupata, da popoli vicini e lontani, in primis naturalmente gli Ottomani. Di conseguenza internalizzando ed esaltando proprio quelle citate caratteristiche plurali che sintetizzavano il puzzle jugoslavo e che permettono di capire ciò che scriveva Ivo Andrić in Lettera del 1920: “A Sarajevo, chi soffra d'insonnia può sentire strani suoni nella notte cittadina. Pesantemente e con sicurezza batte l'ora della cattedrale cattolica: le due dopo mezzanotte. Passa più di un minuto (esattamente settantacinque secondi, li ho contati) ed ecco che si fa vivo, con suono più flebile, ma più penetrante, l'orologio della Chiesa ortodossa, e anch'esso batte le due. Poco dopo, con voce sorda, lontana, il minareto della moschea imperiale batte le undici: ore arcane, alla turca, secondo strani calcoli di terre lontane, di parti straniere del mondo. Gli ebrei non hanno un orologio proprio che batta le ore, e solo Dio sa qual è in questo momento la loro ora, secondo calcoli sefarditi o ashkenaziti”.
Oggi la Bosnia – che pure fu la repubblica jugoslava che più credette nell’esperimento titoista della “fratellanza e unità” – è un paese abbondantemente “smiscelato” (prendendo a prestito l’efficace espressione di George Curzon sui drammatici trasferimenti di popolazioni tra Grecia e Turchia di un secolo fa), vittima di quei progetti di “demografia politica” che hanno trovato il proprio percussore violento nei nazionalismi. Per cui anche il tradizionale spirito di tolleranza bosniaco (bosanski duh) è stato messo in crisi profonda. Inoltre per la Bosnia l’Unione europea rimane lontana a causa dei numerosi problemi interni, in primo luogo l’applicazione dello Stato di diritto: dall’ennesima crisi politica alla opinabile gestione dei campi di accoglienza dei migranti, dal carente coordinamento tra le diverse istituzioni, nonché tra i coesistenti sistemi giudiziari, fino al sistema politico ed elettorale discriminatorio per alcuni gruppi etnici.
Eppure, conclude l’autrice, “esiste pur sempre una cultura bosniaca distinta e riconoscibile. Inoltre questa peculiare civiltà riaffiora continuamente nella lingua, nella cultura e nella mentalità”. Afferrarla significa capire e magari anche apprezzare un pezzo d’Europa tanto vicino geograficamente quanto sempre negletto dai nostri schemi euro-occidentali.
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