Lo scorso 23 febbraio si sono ricordate le deportazioni staliniane dei popoli caucasici. In quest'articolo di Alessandra Rognoni il perché quest'anno questa data assume un'importanza del tutto particolare. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

26/02/2007 -  Alessandra Rognoni

Quest'anno la data del 23 febbraio, giorno della deportazione del popolo ceceno e inguscio, ha avuto un'importanza particolare, poiché è caduta nel 50esimo anniversario del ritorno dall'esilio. Proprio nel 1957 fu ricostituita la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma di Ceceno-Inguscezia che nel 1944, svuotata interamente della sua popolazione, era stata "liquidata", cancellata dalle carte geografiche e dai libri di storia.

Esattamente cinquant'anni fa ceceni e ingusci tornavano nella loro patria, dopo 13 anni di esilio in Asia Centrale, dove Stalin li aveva relegati come rappresaglia per una mai dimostrata "collaborazione" coi tedeschi. La punizione si abbattè su tutta la popolazione, e su tutti i ceceni e gli ingusci che si trovavano al di fuori della repubblica. Perfino i soldati che stavano combattendo nelle file dell'Armata rossa, contro il nemico, furono smobilitati e mandati in esilio insieme al resto della popolazione.

A rendere ancora più amaro il ricordo di questa tragica data, si aggiunge il fatto che il 23 febbraio, allora come oggi, è in tutta la Russia giorno di festa nazionale. Un tempo era il giorno dell'Armata rossa, crollata l'Unione Sovietica, è diventata la festa del "difensore della patria", una sorta di 8 marzo al maschile, giorno di auguri e regali agli uomini. Nel gennaio di quest'anno, alcuni parlamentari ceceni hanno proposto che la Federazione russa spostasse questa data di festa ad un altro giorno, in segno di rispetto per il lutto dei ceceni. Ovviamente la richiesta è caduta nel vuoto.

Così, mentre il resto della Russia festeggia, il 23 febbraio in Cecenia è un giorno di lutto nazionale, memoria di una tragedia che secondo alcuni dati è costata la vita di circa un terzo dell'intera popolazione. Mentre gli storici ceceni definiscono la deportazione un tentativo di genocidio, la popolazione considera questo episodio drammatico come l'ennesimo capitolo di violenza della Russia nei confronti del piccolo popolo caucasico.

Nella memoria della popolazione più anziana, il terribile viaggio in treno verso le steppe dell'Asia centrale del 1944 e la fuga dalla guerra iniziata nel 1994 si intrecciano, si confondono nel dramma di essere ancora una volta strappati dalla propria terra.

Per cercare di descrivere quello che avvenne il 23 febbraio di 63 anni fa, si propone il racconto di Aishet T., nata nel 1926 in un villaggio vicino a Groznyj:
"I soldati e gli ufficiali, in uniforme, il 23 febbraio alle sei del mattino bussarono e dissero: preparatevi. Quando abbiamo guardato fuori dalla finestra nel cortile, abbiamo visto che tutti, ragazzi, vecchi, malati, erano stati divisi in quattro file, fino alla fine della nostra strada. E poi spinsero tutti gli uomini nel cortile del selsovet e li circondarono coi fucili.
Mentre tutti gli uomini e i ragazzi erano in fila, vennero da noi e dissero, vi diamo mezz'ora per prepararvi, prendete con voi venti kg per persona, non prendete niente di più. Non sapevamo cosa prendere da portarci via, se mais o vestiti. Ci spinsero nel cortile vicino e ci circondarono con le armi... chi pianse, chi cadde in delirio. La mattina i camion vennero a prenderci e ci portarono a Groznyj alla stazione, e lì c'erano molti vagoni, file enormi di vagoni per il bestiame. Ci spinsero con altre 5 famiglie in uno di questi vagoni. Ricordo che da un altro villaggio quella mattina moglie e marito erano venuti per comprare qualcosa al bazar, e avevano lasciato i bambini a casa, e finì che li misero con noi nel vagone e loro si preoccupavano per i bambini a casa da soli. Mi ricordo anche che c'era un uomo sordo, gli dissero, sali sul treno, lui non sentì e gli spararono.
Viaggiammo per due settimane. Dentro ai vagoni era orribile, nel mezzo c'era una stufetta, ma faceva freddo, nevicava, e la legna ce la davano solo quando il treno si fermava. Sui vagoni non c'era il bagno e se qualcuno durante le fermate usciva perché ne aveva bisogno, ma poi non faceva in tempo a risalire, restava lì.
Ci portarono in Kazachstan, ma noi non lo sapevamo, perché non ci dissero nulla sulla destinazione. Il papà aveva con sé una carta geografica dell'Unione Sovietica (e con quella poi gli cucimmo una camicia) e seguendo questa carta disse, ci portano nel Kazachstan del nord. Noi non sapevamo nemmeno cosa fosse il Kazachstan.
Quando il treno si fermava ci davano acqua da bere, mentre durante il viaggio ci nutrimmo con quello che ci eravamo portati via da casa. Per due settimane non ci diedero niente di caldo. Ricordo che una volta il treno si fermò, e sembrava che poi fosse ripartito nella direzione opposta, e tutti gridarono: ci portano indietro, a casa. Alla fine che male avevamo fatto? Non avevamo fatto nessun male all'URSS.
Molti impazzirono sul treno, mentre ci portavano in Kazachstan...Una ragazza, figlia di un'amica della mamma, era venuta a trovarci a casa nostra, e così la misero nel vagone insieme a noi, senza la sua famiglia. E lei impazzì, perchè la portavano via senza la mamma, si mise a piangere e a urlare. E se qualcuno si ammalava durante il viaggio, lo facevano scendere dal treno perché avevano paura che infettasse gli altri. Nelle fermate giacevano pile di cadaveri. Quando mi vengono in mente queste cose di notte, non riesco più a dormire...Per il nostro popolo fu una grande tragedia morale. La gente fu costretta a viaggiare in una condizione orribile, ammassati in dei vagoni, come bestie, in una situazione di disagio: uomini, donne, vecchi e bambini tutti insieme... Dove lavarsi, vestirsi, fare i propri bisogni?
Quando arrivammo, i kazachi ci misero su delle slitte e ci portarono nelle baracche. Erano baracche grandi, lunghe 50 metri. Non ci separarono ma ci divisero per famiglie. Poi i kazachi scelsero gli uomini adulti, quelli in salute, che avrebbe lavorato nei kolchoz. Il papà disse che avrebbe lavorato nella cava di pietre, dove veniva distribuito cibo caldo e per ogni bambino 300 grammi di pane, e agli adulti 600. Il papà era caposquadra e io e mia sorella eravamo scaricatori. Con le bombe facevano saltare le pietre, noi avevamo dei guanti di tela catramata e dovevamo riempire dei carrelli con queste pietre. Un carrello prima di pranzo e uno dopo pranzo, era il lavoro da svolgere, e solo se lo facevi ti davano da mangiare.
Mio padre prese il tifo, e dopo qualche giorno ci ammalammo tutti quanti. Rimanemmo nelle baracche mentre la mamma ci curava. C'erano tantissimi pidocchi in questi baracche. Andavi vicino alla stufa per scaldarti e ti mordevano ovunque. Poi ci raparono tutti. Una sera il papà si stese, e quando la mamma andò da lui era già morto. Per il cuore. Non avevamo nulla con cui seppellirlo, non potevamo neanche fare il banchetto funebre. Facevamo la fame. C'era un uomo ucraino, che ci aiutò. Ci diede un calesse e 3 lenzuola, e un ceceno lavò il corpo del papà e lo avvolse con quelle lenzuola. La mamma si fece 18 km per andare a seppellirlo. Era il 23 giugno, era un giorno molto caldo. Mio padre sopravvisse tre mesi alla deportazione. Diedero i suoi vestiti a delle persone che in cambio scavarono la fossa. E accadde che e intorno a lui poi iniziarono a seppellire anche altri e quel luogo divenne un cimitero.
La vita in quegli anni fu terribile, 13 lunghi anni...Lentamente ricominciammo a vivere,un po' a lavorare, ma sempre con la speranza di tornare a casa.
Le cose poi cambiarono. Alla radio dissero che Stalin stava male...Quando comunicavano le sue condizioni non ci facevano andare a mangiare. Bisognava ascoltare la radio e non ci facevano fare la pausa pranzo. Quando poi fucilarono Berija e gli altri che ci avevano fatto deportare, ci dissero: tornate in patria...Eravamo felici, molti piangevano per l'emozione. Ma dove tornare? Praticamente a nessuno era rimasta la casa in Cecenia, perché erano state occupate da altre persone. Non ci diedero niente, non ci aiutarono economicamente. Misero solo a disposizione dei container, dei vagoni merci, in cui mettere tutte le nostre cose per il viaggio. E così tornammo in patria, in Cecenia.
Ma dopo quello che ho visto ora a Groznyj penso che sarei rimasta tutta la vita in Kazachstan, nonostante il freddo, la fame, la condizioni difficili, il fatto che eravamo lontano dalla nostra patria... Ma la guerra in Cecenia è peggio, è peggio anche della guerra di allora... allora i nazisti che erano arrivati per invadere il Caucaso non sparavano sulle case, contro di noi. E Stalin, ci aveva deportato, ma non aveva lanciato bombe su di noi. Ma adesso? I russi, e anche i nostri, contro di noi..."

* Alessandra Rognoni è dottoranda di ricerca presso l'Università Statale di Torino. Si occupa di storia del Caucaso del nord


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