Srebrenica

Srebrenica - foto di Marlin Dedaj 

L’11 luglio 2017 ricorre il 22esimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Un'analisi sul Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia e sulla dottrina della Joint Criminal Enterprise

07/07/2017 -  Paolo Falciani

Secondo la dottrina della Joint Criminal Enterprise, in presenza di determinate condizioni attinenti agli elementi oggettivo e soggettivo del reato1, ogni membro appartenente ad un gruppo organizzato è direttamente responsabile per tutti i crimini commessi dal gruppo stesso.

In sostanza, per l’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, non è richiesto che il singolo componente del gruppo criminale abbia commesso fisicamente l’atto tipico: il membro dell’associazione a delinquere potrà essere ritenuto autore del reato per aver contribuito alla realizzazione del piano e aderito all’intento criminale del gruppo, pur non avendo partecipato direttamente alla commissione dell’actus reus. Inoltre, nonostante non tutti si trovino d'accordo in merito, un individuo potrebbe essere giudicato colpevole di un evento criminoso non previsto originariamente nel piano comune, ma che rappresentava una naturale e prevedibile conseguenza di quel progetto.

Srebrenica - foto di Marlin Dedaj 

La prima condanna in assoluto emessa da un tribunale internazionale risale al leading case Tadić2, in cui il TPIJ ha distinto tre diverse categorie di JCE, a seconda della diversa modalità di partecipazione al gruppo criminale. Esse sono costituite da un elemento materiale comune, suddiviso in tre distinti aspetti: una pluralità di persone (non necessariamente organizzate in una struttura militare, politica o amministrativa), l’esistenza di un piano comune che implichi la commissione di uno dei crimini previsti dallo Statuto, ed infine, la partecipazione dell’imputato al piano stesso3.

Assume, invece, forme diverse l’elemento della mens rea. Nella prima categoria (JCE I) è richiesto un intento condiviso, da parte di tutti i membri dell’enterprise, di commettere un certo crimine4.

La JCE II, invece, si riferisce al caso paradigmatico dei campi di concentramento. In tale ipotesi, l’accusato deve essere a conoscenza del sistema di maltrattamenti e dello scopo che è alla sua base5.

La terza tipologia (JCE III), alquanto controversa, concerne crimini non preordinati nel progetto comune. L’elemento psichico, in questo caso, è costituito dall’intenzione di partecipare e perseguire l’attività criminale del gruppo. In sostanza, la mens rea consiste nella prevedibilità che almeno un membro del gruppo commetta il crimine in oggetto e, da parte dell’imputato, la consapevole assunzione del rischio che ciò accada (dolus eventualis)6. Come risulta evidente, la JCE III richiede una mens rea piuttosto attenuata e generica rispetto alle prime due7.

L’applicazione della dottrina della JCE ha avuto un ruolo cruciale in alcune delle più importanti e recenti sentenze di condanna emesse dal TPIJ in relazione ai fatti di Srebrenica, data la gestione comune della politica genocidaria.

Ai fini di una maggiore chiarezza nella comprensione dell’istituto, è indispensabile riassumere brevemente i fatti che sono alla base dei giudizi in questione.

Il preludio al massacro di Srebrenica può essere rintracciato nel maggio del 1992, quando i leaders serbo-bosniaci Karadžić e Mladić, il Presidente serbo Milošević ed i Generali della Jugoslavenska Narodna Armija (JNA) si accordarono per rimuovere definitivamente i bosgnacchi ed i croato-bosniaci dai territori rivendicati dall’autoproclamata Republika Srpska. Siccome la programmata pulizia etnica comportò un massiccio numero di espulsioni, la costituzione di campi di detenzione ed un elevato numero di uccisioni nei campi stessi, Karadžić e Mladić sono stati accusati di essere membri di una JCE, che implementò tali delitti per raggiungere l’obiettivo prefissato. La politica diretta alle rimozioni forzate, tuttavia, non era stata progettata direttamente per l’enclave di Srebrenica: in effetti, il Generale dell’esercito bosniaco-musulmano, Halilović, aveva firmato un accordo con Mladić nel 1993 e le forze internazionali interessate nella vicenda, il quale riconosceva la costituzione di una safe area a Srebrenica, che sarebbe stata affidata di lì a poco all’UNPROFOR8.

Fu solo nel Marzo 1995 che l’Esercito della Republika Srpska (Vojska Republike Srpske, VRS) ed il Ministro dell’Interno serbo-bosniaco Mićo Stanišić decisero di rimuovere l’intera popolazione musulmana da Srebrenica, Žepa e Goražde. La Direttiva n. 7 dell’8 Marzo 1995, sottoscritta dallo stesso Karadžić ed inviata ai comandanti dei vari Corpi dell’esercito, testimonia il cambio di politica: il documento - secondo la dettagliata analisi del caso Mladić - ordinava ai Corpi Drina di “creare una condizione di totale insicurezza [a Srebrenica ed a Žepa], attraverso operazioni di combattimento pianificate e ben strutturate, in modo da non lasciare alcuna speranza di vita” agli abitanti delle due enclavi9. La Direttiva, inoltre, chiedeva di provvedere ad un limitato rilascio di permessi, per ridurre il supporto logistico e di risorse dell’UNPROFOR ai bosgnacchi, evitando, allo stesso tempo, le condanne della comunità internazionale10.

L’obiettivo dei serbo-bosniaci, in tutta evidenza, era quello di conquistare le città attraverso l’isolamento e lo strangolamento; una strategia di guerra, questa, che caratterizzò anche il lungo assedio di Sarajevo.

L’attacco a Srebrenica iniziò il 6 luglio e la città cadde il giorno 11. Non è chiaro se il genocidio era già stato contemplato al momento dell’attacco, ma nel caso Popović e altri è stato accertato che il piano mirante all’annientamento totale degli uomini musulmani iniziò ad essere implementato il 12 luglio, con la separazione dei maschi in età militare dal resto della comunità11.

Srebrenica - foto di Marlin Dedaj 

In questo frangente, la Camera di prima istanza ha distinto tra una JCE mirante alle uccisioni ed una finalizzata alla pulizia etnica dalla safe area. La prima riguardava, tra gli altri, gli ufficiali Popović, Beara e Nikolić, i quali condivisero la common purpose di sterminare gli uomini bosgnacchi. In particolare, Popović era il tenente-colonnello che diresse le esecuzioni perpetrate ad Orahovac e coordinò le uccisioni nella fabbrica militare di Barnjevo e nel Centro Culturale Pilica (16 luglio); Beara si interessò di individuare dei luoghi adatti allo sterminio e di sorvegliare l’esecuzione del piano; mentre Nikolić, agendo dietro le quinte, procurava il personale per l’esecuzione dei prigionieri ed impartiva ordini in uno dei siti utilizzati per gli omicidi12.

La JCE relativa alla ethnic cleansing, invece, trova origine nella Direttiva n. 7 e riguarda la responsabilità di altri ufficiali militari, tra i quali Miletić. Secondo il TPIJ, quest’ultimo diede un contributo significativo all’impresa criminale, essendo stato coinvolto nella stesura delle Direttive 7 e 7/1, avendo ridotto gli aiuti umanitari ed il rifornimento dell’UNPROFOR ed essendo stato il coordinatore, nell’esercizio delle sue funzioni13, delle informazioni da rivolgere allo stato maggiore del VRS. Tuttavia, sia in primo grado che in appello Miletić è stato condannato per genocidio applicando la terza categoria di JCE, per le “uccisioni opportunistiche” commesse dalle forze serbo-bosniache a Potočari, poiché tali crimini erano una prevedibile conseguenza dell’intesa mirante alle rimozioni forzate: l’imputato, appunto per questo, si era assunto il rischio che tali eventi sarebbero occorsi14.

Grazie alla distinzione tra due differenti modalità di JCE, l’attribuzione della colpa tiene maggiormente conto della funzione avuta nel compimento dei crimini da parte del Ministero dell’Interno, del VRS e dei singoli leaders politici e militari. È plausibile che i maggiori vertici, come Karadžić e Mladić, siano stati membri di una più generale criminal enterprise rivolta allo sterminio del gruppo musulmano, poiché le operazioni programmate compresero sia le rimozioni forzate sia le uccisioni. L’elemento di discrimine nella volizione dei responsabili, dunque, si instaurerebbe più in basso nella catena di comando, come dimostra il fatto che anche Popović, Beara e Nikolić (che non erano certo delle massime autorità del calibro di Karadžić e Mladić) non sono stati incriminati per la JCE finalizzata alla pulizia etnica, ma direttamente per genocidio15.

In ogni caso, come è stato sottolineato in dottrina16, esiste sempre un certo grado di compenetrazione tra le due fattispecie, visto il rapporto di consequenzialità tra il dislocamento forzoso e gli omicidi commessi: ad esempio, come anticipato, Miletić (tra i responsabili della pulizia etnica) è stato condannato anche per le uccisioni, in ragione della prevedibilità che il piano preordinato sarebbe potuto degenerare in genocidio.

Bisognerebbe, dunque, fare attenzione alla relazione tra le condotte punibili, per evitare l’applicazione meccanica dei canoni dell’impresa criminale comune, rischiando così di non accertare i ruoli effettivi degli imputati. Un onere per il giudice, questo, che diventa sempre più gravoso col trascorrere del tempo.

 

Note:

1.  È necessario che gli imputati siano parte di un gruppo criminale, che ne condividano gli scopi ed agiscano in modo da coadiuvarne il raggiungimento. Cfr. Tadić, ICTY, A. Ch. 15.07.1999, par. 227- 228.

2.  Cfr. Tadić, ICTY, A. Ch. 15.07.1999 par. 185-229 e Ntakirutimana, ICTR, A. Ch. 13.12.2004, par. 462.

3.  Ibidem, par. 227- 228. La dottrina è analizzata in maniera più articolata in Krajišnik, ICTY, T. Ch. 27.09.2006, par. 876-886 ed in Brđanin, ICTY, A. Ch. 03.04.2007, par. 389-432.

4.  Un esempio può essere il procedimento a carico di Milomir Stakić, un politico serbo-bosniaco che rivestì diversi ed importanti ruoli all’interno della regione di Prijedor. Nel periodo della sua gestione amministrativa, molti civili non-serbi vennero rimossi dai propri impieghi e trasportati nei campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje. La Camera d’appello, confermando le conclusioni del giudice di primo grado, ha sostenuto che Stakić “giocò un ruolo cruciale nell’operazione coordinata con la polizia e l’esercito nella promozione del piano per stabilire una municipalità serba a Prijedor” e che inoltre, l’imputato fosse “uno dei principali attori nella campagna di persecuzione”, “partecipò attivamente nella costituzione e nella gestione [dei campi]” e “occupò un ruolo attivo nell’organizzazione del massiccio spostamento della popolazione non-serba fuori da Prijedor”. Cfr. Stakić, ICTY, A. Ch. 22.03.2006, par. 75.

5.  Un caso esemplificativo può essere quello di Milorad Krnojelać che, dall’aprile del 1992 all’agosto del 1993, ebbe un ruolo di comando all’interno del campo di detenzione Foča Kazneno-Popravni Dom in Bosnia-Erzegovina. Secondo la Camera d’appello, ai fini dell’accertamento della mens rea, non sarebbe richiesto uno specifico accordo tra i partecipanti, ma la semplice consapevolezza da parte dell’imputato dell’esistenza del sistema di maltrattamenti e l’intenzione di favorirne la continuazione. Cfr. Krnojelać, ICTY, A. Ch. 17.09.2003, par. 97, 112.

6.  Tadić, ICTY, A. Ch. 15.07.1999, par. 220 e 228.

7.  È proprio quest’ultima tipologia ad esser stata applicata nel caso Tadić, in cui vi è, in primo luogo, la conferma che il piano criminale (che prevedeva la rimozione forzata, su base etnica, della popolazione locale dalle proprie abitazioni) non presumesse il compimento di alcun omicidio; ma le uccisioni erano una prevedibile conseguenza della condotta dell’imputato che, dunque, aveva consapevolmente assunto il rischio della verificazione dell’evento.

8.  Forza di protezione delle Nazioni Unite (United Nations Protection Force); era una forza armata di intervento militare dell'Organizzazione delle Nazioni Unite , costituita nel Febbraio 1992. Il suo mandato terminò nel Marzo 1995, quando fu divisa in tre diverse forze: l’UNPREDEP (United Nations Preventive Deployment Force ) per la Macedonia, l’UNCRO (United Nations Confidence Restoration Operation in Croatia ) per la Croazia e la ricostituita UNPROFOR, che prorogò le sue attività in Bosnia-Erzegovina fino al Dicembre del 1995, quando fu sostituita dalla NATO e dalle missioni dell’UE.

9.  Mladić, ICTY, Rule 98bis Judgment summary in the case of Ratko Mladić, 15.04.2014, p. 12.

10.  Ibidem, par. 13.

11.  Popović e altri, ICTY, T. Ch. 10.06.2010, par. 1051-1052.

12.  Ibidem, par. 1166–1168 (Popović), par. 1300–1302 (Beara), par. 1390–1392 (Nikolić).

13.  In particolare, Miletić era il capo ad interim dello staff principale dell’esercito.

14.  Popović e altri, ICTY, T. Ch. 10.06.2010, par. 1734–1735.

15.  Ibidem, par. 1174 (Popović), par. 1309 (Beara), par. 1395 (Nikolić).

16.  Cfr. Harmen van der Wilt, Srebrenica: On Joint Criminal Enterprise, Aiding and Abetting and Command Responsibility, 2015, in Netherlands International Law Review (2015), p. 233.


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