Migrazioni

Le migrazioni in Slovenia

30/07/2002 -  Anonymous User

Analisi dei flussi migratori e delle problematiche ad essi connesse nella vicina Slovenia. Da terra di emigrazione a snodo di transito.

Bosnia: Tigri e Draghi nella "terra di nessuno"

12/02/2002 -  Anonymous User

Anche in Bosnia risiede una comunità di immigrati cinesi. Secondo le cifre ufficiali sono pochi, non più di 400, ma probabilmente molti di più sono i clandestini che usano i Balcani come testa di ponte per l'agognato Occidente.

I rifugiati macedoni in Albania

09/08/2001 -  Anonymous User

Albania: rifugiati macedoni alle porte?Da Valona, Elidon Lamani.

L'escalation della violenza etnica in Macedonia, nei primi mesi del 2001 ha innescato l'ennesimo esodo di profughi secondo un meccanismo ormai tristemente usuale nella regione. I giornali albanesi del 16 marzo riportavano la notizia dei primi 25 profughi albanesi provenienti dalla Macedonia, che avevano attraversato il confine a Qafe Thane, nei pressi del lago di Ohrid. Nei giorni immediatamente successivi il numero dei profughi aumentava in modo esponenziale: 287 il 18 marzo, circa 400 il 19 marzo. Tra i profughi vi erano e vi sono soprattutto donne e bambini, ma quasi tutti continuano il loro viaggio in direzione del Kosovo.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), insieme all'Ufficio per i Rifugiati (OFR) e alle numerose organizzazioni non-governative ed associazioni albanesi presenti sul territorio, si sono immediatamente mobilitati per monitorare la situazione, valutare le capacità di ognuno ad assistere il Governo nell'eventualità di un nuovo massiccio flusso di profughi, e costituire un'unità di crisi in grado di affrontare ogni emergenza.

Unità di crisi: per evitare gli errori del passato
Secondo il responsabile dell'UNHCR in Albania - Terry Pitzner - l'unità di crisi dovrebbe lavorare in stretto coordinamento con le autorità albanesi, il cui coinvolgimento deve essere decisivo sia nella fase della pianificazione di un piano d'emergenza, che in quella della sua realizzazione sul terreno. I referenti istituzionali dell'unità di crisi a livello locale sono stati individuati nella Prefettura e nella Municipalità.L'analisi dell'esperienza drammatica vissuta durante la crisi dei rifugiati kossovari del 1999, ha offerto diversi spunti critici e occasioni di confronto. Obiettivo dell'unità di crisi è quindi ottimizzare le risorse e le capacità disponibili in loco, creare un piano di emergenza in grado di offrire adeguate risposte ad ogni possibile situazione critica, ed evitare così gli errori fatti durante la crisi del 1999, spesso dovuti all'impreparazione, ma anche al mancato coordinamento tra le forze in campo.
La filosofia che sottende tutto il piano d'intervento è quella che predilige la partecipazione della società civile locale nella gestione dell'assistenza ai rifugiati. A capo di tutto rimarrà l'Ufficio del Governo albanese per i Rifugiati in coordinamento con l'UNHCR, mentre alla guida dei settori specifici (minori, sanità, alimentazione, ecc.) vi saranno le principali organizzazioni internazionali specializzate nell'emergenza (CARE International. ICMC, CRS, OXFAM, ecc.), mentre le organizzazioni locali albanesi rivestiranno il ruolo di "implementing partner" delle attività specifiche.

Profughi: solo di passaggio per il Kosovo
Già alla fine di marzo del 2001, 400 persone avevano attraversato Qafe Thane per ritornare in Macedonia, ma i lavori di preparazione del coordinamento sono comunque andati avanti. Sono stati identificati tre settori di intervento (approvvigionamento idrico e misure igieniche, salute, servizi alla comunità) e le rispettive "lead agency" che avranno il compito di coordinarne l'organizzazione decentrata. E' stata inoltre sottolineata l'esigenza di garantire un approccio basato sulla gestione partecipata dei bisogni, attraverso un metodo di coinvolgimento democratico degli stessi rifugiati, chiamati ad esprimere una propria leadership.In ogni caso, il territorio albanese ha visto un massiccio passaggio di profughi diretti verso il Kosovo, tra i quali solo un piccolissimo numero ha chiesto lo status di rifugiato. Inoltre, i movimenti degli albanesi macedoni hanno seguito l'andamento della crisi, e sono stati in molti a rientrare non appena giungevano segnali di stabilità provenienti dalla zona di Tetovo.
Attualmente nella zona di Podragec (che abbraccia il lato ovest del lago di Ohrid, confine naturale tra Albania e Macedonia) sono solo 5 le persone che hanno lo status di rifugiati, mentre nella municipalità di Korça (sempre vicino al confine macedone, ma più a sud rispetto a Podragec) non si registra alcun caso di rifugiato ufficialmente riconosciuto come tale.

Crisi in Macedonia: la situazione dei profughi

29/06/2001 -  Anonymous User

L'alto Commissariato per i rifugiati ha dichiarato il 22 giugno scorso a Skopje di aver registrato 48.000 cittadini che dall'inizio della crisi in Macedonia hanno trovato rifugio nel Kosmet e nella Serbia del Sud. La Croce Rossa macedone ha registrato più di 30.000 persone sfollate in Macedonia. Di questi, 16.000 persone sono venute a Skopje dalle regioni intorno a Kumanovo, da Skopska Crna Gora, da Aracinovo e dai villaggi vicini. 10.000 persone si sono trasferite dai posti vicini alla città di Kumanovo, pensando che sarebbero più sicuri in città. Più di 3.000 cittadini hanno lasciato Tetovo. Fin dal inizio degli scontri, una parte della popolazione di nazionalità albanese ha lasciato la Macedonia ed è partita per Turchia, Albania ed altri paesi dell'Europa dell'ovest, ma il loro numero è ancora sconosciuto. Mentre gli Albanesi dalla Macedonia vanno in Kosmet, in Macedonia, secondo i dati ufficiali, ci sono ancora 7.000 dei loro compaesani entrati in Macedonia durante il bombardamento della NATO. Nelle famiglie, con i loro parenti e amici, ce ne sono 3.300, circa 2.000 sono accomodati in vari campi e per 1.800 non c'è informazione rispetto al loro alloggio, ma ricevono aiuti dall'UNHCR. Gli Albanesi che lasciano la Macedonia, si registrano solamente all'UNHCR, mentre i Macedoni ed i Serbi alla Croce Rossa locale.

Articolo

29/06/2001 -  Anonymous User

La portavoce del Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), a Belgrado, Maki Sinohara ha dichiarato ieri che la FRY si trova al primo posto in Europa per il numero delle persone rifugiate.
"Da queste persone circa 390.000 sono profughi dalla Bosnia ed Erzegovina e dalla Croazia, mentre 230.000 persone sono sfollati dal Kosovo. Secondo i dati più recenti, dopo la ripetuta registrazione dei profughi in FRY, il totale è 600.000 persone rifugiate e sfollate sul territorio della FRY", ha dichiarato ieri (20 giugno) la portavoce alla conferenza stampa, organizzata in occasione della Giornata mondiale dei profughi.
Ha poi aggiunto che paragonato con i dati da 1996, il numero dei profughi in FRY si è ridotto del 30%.
"Del totale delle persone registrate, il 60 % ha dichiarato che vorrebbe rimanere in FRY", ha detto la portavoce dell'UNHCR aggiungendo che solamente il 5.3% vuole ritornare a casa, mentre il 25% è ancora indeciso.
Sinohara ha poi detto che l'afflusso di profughi dalla Macedonia nella FRY si è ridotto rispetto alla settimana precedente, quando UNHCR ha registrato circa 700 persone che hanno attraversato la frontiera ogni giorno, ma ha aggiunto che l'UNHCR è pronto ad agire nel caso di un grande afflusso di profughi dai paesi di confine.
L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha fissato il 20 giugno come giorno per ricordare il coraggio, la perseveranza ed il talento delle persone rifugiate da tutto il mondo. Questo giorno è stato celebrato ieri per la prima volta.

» Fonte: © Glas

Banja Luka: i disordini si potevano evitare

08/05/2001 -  Anonymous User

Gravi disordini oggi 7 maggio, ndr a Banja Luka, la capitale della entità serba di Bosnia Erzegovina. Tutto era pronto per la prevista cerimonia per la posa della prima pietra della moschea Ferhadija, costruita nel XVI secolo durante la dominazione ottomana nella regione e rasa al suolo durante la guerra di Bosnia in quella che è stata la follia della pulizia etnica. Qui l'undici percento della popolazione era di origine musulmana. Oggi al loro posto profughi e sfollati serbi. Più di cinquantamila.
Troppo rumore per questo evento. I più importanti rappresentanti delle forze internazionali operanti nella regione e le massime autorità di Bosnia e di Repubblica Srpska erano presenti: l'ambasciatore americano Thomas Miller, il responsabile delle missione ONU Jaques Klein, il presidente dell'entità serba di Bosnia Sarovic ed il primo ministro Ivanic, il ministro degli affari esteri della Repubblica di Bosnia Erzegovina, il bosniaco Lagumdzija.
E quindi tanta gente. Bosniaci arrivati in pullmann dalla Federazione dove vivono come profughi e da dove sperano di poter rientrare nella propria città di origine, così come gli accordi Dayton sanciscono. E con loro i profughi e gli sfollati serbi, originari dalla Croazia e dal centro Bosnia. Molti di loro dovranno lasciare le abitazioni in cui hanno trovato rifugio durante questi anni di guerra e dopo guerra, per restituirle giustamente ai bosniaci che intendono rientrarvi.
Gli accordi di Dayton sanciscono che tutti i profughi e gli sfollati della guerra di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di scegliere se rientrare nella aree di origine o restare dove attualmente stanno vivendo. Ma una politica definibile perlomeno miope della comunità internazionale sta di fatto aiutando solo chi intende rientrare. Così la maggior parte di quei cinquantamila serbi di Banja Luka sono abbandonati a se stessi. Non hanno né lavoro né assistenza, e vivono con l'incubo di essere sfrattati. L'unica scelta è tornare, ma questo è un percorso difficile sia da un punto di vista pratico - ad esempio per trovare lavoro o riavere la propria abitazione - sia da un punto di vista psicologico-emotivo. C'è paura.
Gente, bosniaci e serbi, quindi stanca e sotto pressione da troppi anni di difficoltà e di traumi: la guerra, la fuga, la vita senza una casa sicura, senza il lavoro, senza i servizi di base, senza un passato e con un futuro incerto. E così, ieri, è scoppiato il peggio. "Le tensioni accumulate in questi anni sono esplose" dice Zoran Baros, giornalista e responsabile delle pubbliche relazioni nel comune di Prijedor, a cinquanta chilometri da Banja Luka, seconda città della Republika Srpska e luogo simbolo per il rientro di musulmani e croati. E' stata impedita la manifestazione con il lancio di sassi e uova: contro gli internazionali, contro i politici, contro i bosniaci.
La polizia ha reagito cercando di fermare la folla, mentre il contingente militare internazionale (lo SFOR) è stato soprattutto a guardare. Per alcune ore gli ospiti internazionali e bosniaci sono rimasti bloccati nell'edificio di cultura islamica, fino a quando il presidente della Repubblica Srpska Sarovic ed il primo ministro Ivanic in persona sono andati tra la folla per permettere ai "prigionieri" di essere liberati.
Un comportamento che esplicita la gravità di questo episodio e delle sue conseguenze sull'immagine della Republika Srpska, della Bosnia e di questa regione agli occhi della comunità internazionale. Qui c'è bisogno di pace, di sicurezza, di fiducia. C'è bisogno di investitori internazionali che credano in uno futuro di normalità per questo paese. E questo evento è un passo indietro. "Nessuno aveva bisogno di questo evento" dice la sindaca di Prijedor Nada Sevo.
Doveva essere evitato e non lo si è fatto. Chi doveva evitarlo è soprattutto la comunità internazionale, che ha quantomeno sostenuto un'iniziativa così spettacolare nella capitale serbo-bosniaca. La convivenza non si impone con la forza ma va costruita "con la politiche dei piccoli passi", come dice Sead Jakupovic responsabile della associazione "per il ritorno e il rinnovamento di Prijedor 98".
Poteva essere evitato. Lo dimostra la realtà di Prijedor, città con cui da anni ormai coopera un coordinamento di associazioni ed enti locali del Trentino. Qui un quinto della popolazione non serba cacciata durante la guerra è già rientrato. E a Kozarac, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, sono state ricostruite senza incidenti ben quattro moschee. Il luogo scelto si è dimostrato intelligente, perché non troppo vicino al centro di questa municipalità che in passato è stata triste simbolo della pulizia etnica. Anche i tempi sono stati quelli giusti, perché la ricostruzione è iniziata dopo oltre un anno dall'inizio del processo di rientro dei musulmani. "Se l'obiettivo è il rientro", dice ancora Sead Jakupovic, "è importante porre attenzione ai sentimenti della gente, dare agli amimi il tempo di calmarsi".
"Creare occasione di incontro tra chi rientra e chi vive a Prijedor, creare luoghi di discussione pubblica, coinvolgendo i rappresentanti politici locali, i leader religiosi, gli intellettuali della comunità, le associazioni, la scuola. Fare informazione corretta." Ecco come promuovere la convivenza secondo le associazioni di donne di Prijedor riunitesi proprio in questi giorni per programmare le attività di sostegno al rientro in collaborazione con la Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor, sostenuta dalla Comunità Trentina, dalla città spagnola di Cordoba e dal Consiglio d'Europa.
Chi ora paga la scelta affrettata compiuta dalla comunità internazionale a Banja Luka sono tutti i cittadini che sperano in un futuro di convivenza: i bosniaci, che ora devono relazionarsi a questo ulteriore trauma; i serbi, che si sono macchiati di un ulteriore "crimine" agli occhi del mondo.
Qui in Bosnia Erzegovina vivono persone. Cittadini che vogliono pace e futuro. Uomini e donne che stanno provando a vivere la propria esistenza. La strofa di una canzone recita: "non so perché né per cosa né come ma sono stanco". C'è bisogno di serietà e di intelligenza. Di una solidarietà matura.




Da Prijedor, a 300 chilometri dai confine dell'Unione Europea
Annalisa Tomasi, delegata della Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
© Osservatorio sui Balcani;