Nagorno Karabakh: la voce della guerra

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10 novembre 2020

Lo sguardo del fotografo Vaghinak Ghazaryan ci racconta di un'umanità sofferente, stordita, che guarda a paesaggi repentinamente e irrimediabilmente trasformati dalla guerra. Un'umanità costretta a dire addio a chi parte per il fronte. Un fotoracconto originariamente pubblicato da Chai Khana

“In una delle storie del Dr. Abbasaliev, si scopre che Ailis è uno dei 1001 nomi di Dio. E, forse, il suo amore per Ailis non ha niente a che fare con Armeni o Musulmani. Piuttosto, era un’altra unica e profondamente nobile manifestazione della sua lealtà alla Verità.”

Akram Aylisli, da Stone Dreams, 2012.

 

La guerra ha una voce interiore, che non è il suono dei cannoni o delle bombe che esplodono. E’ il grido muto che viene dall’intimo di una persona, riguarda la perdita di un essere umano.

E’ il secondo giorno di guerra. Sono ad Artsakh (Nagorno Karabakh). Questa è una guerra su vasta scala, nonostante per chi la guardi da fuori possano sembrare solamente “fuochi d’artificio”. Nel migliore dei casi, il mondo la guarderà con interesse, una menzione in una conversazione con un caffè o un tè alla mattina e affermazioni politiche neutrali, che non cambieranno nulla. 

Stepanakert, la capitale di Artsakh. L’aria è polverosa e c’è incertezza nella polvere. Mi sono commiatato con Mika, il figlio di 22 anni di un mio amico. Sta andando al fronte. Prima che parta, ci scattiamo un selfie e attendiamo a lungo, a volte anche ridendo, finché lo zaino di Mika non scompare dietro le porte chiuse del bus. Passerà molto tempo prima di poter avere nuovamente notizie di lui. 

Questa è una storia che mi riguarda in modo personale. E’ la storia di una guerra che non è mai morta per 30 anni. Dico addio a persone che è probabile non rivedrò per molto tempo, forse mai più, per un altro “matrimonio” in montagna. I confini sono bagnati del sangue di diciottenni, le case distrutte dai proiettili, la gente muore. 

Rifugio. Sono con la famiglia di un amico. I bambini giocano nel loro mondo. Le sirene antiaeree interrompono spesso il loro gioco, spostandoli verso l'interno della stanza, ma loro continuano a giocare, come se il gioco non finisse mai. Festeggiamo il nono compleanno di Narek durante le pause tra le sirene. In guerra, ogni giorno di vita diventa sempre più importante. 

Strade. Sono trincee, sento il suono dei colpi esplodere in lontananza, guardo i palazzi mezzi distrutti, già danneggiati durante la prima guerra (1991-1994). Il fronte è visibile in lontananza. Le fermate dei bus nelle vicinanze erano molto frequentate in passato. Lungo la strada ci sono i grigi fantasmi di auto bruciate dalle esplosioni, voragini create dalle bombe, animali abbandonati. Stanco di questa devastazione, il mio sguardo si sofferma a terra. 

Cimiteri. Ci sono lapidi azere a fianco a me. Testimoniano in passato di viveva in pace qui. Dall’altro lato c’è un monumento dedicato alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, rovinato dal tempo. E’ una testimonianza di una vita insieme, dove i paesi combattevano contro il fascismo per lo stesso obiettivo, che adesso sembra ridicolo. Oggi, le stesse persone sono trascinate in un conflitto senza compromessi, da una parte si combatte per il proprio territorio, dall’altra per il diritto di vivere in maniera indipendente sulla propria terra. 

La guerra è una sanguinosa tristezza, dove va questa tristezza? Il dolore di coloro che hanno perso un figlio si accumula. Dovrebbe forse tramutarsi in un monumento di pietra? 

Ritorno a Yerevan. La città trattiene il respiro. La guerra è entrata nelle case di ognuno. Dov’è la mia paura? L’ho persa lungo la strada molto tempo fa, non aiuterà né ostacolerà l’inevitabile quando questo accadrà. Sono diventato una miniera in cui gli esplosivi si accumulano. Non toccare, esploderà. 

E’ mattina. Camminando a piedi nudi, mio figlio mi avvicina nella luce soffusa. Lo abbraccio più stretto del solito.