Boris Pahor (foto OBC)

Boris Pahor (foto OBC)

Sul finire del 2015 è uscito un libro che raccoglie le conversazioni tra un gruppo di studenti e lo scrittore Boris Pahor, intitolato Quello che ho da dirvi – dialogo tra generazioni lontane un secolo. Un commento

24/05/2016 -  Božidar Stanišić

Di cosa si ha bisogno per far nascere un libro-conversazione, del tutto insolito, sui temi che si impongono come inevitabili in questi tempi dell'assoluta preponderanza dei social network sugli autentici prodotti dello spirito umano? No, di risposte pronte non ne ho, anche se una potrebbe essere la seguente: una buona scuola (senza virgolette), gli insegnanti che stimolano i loro studenti al dialogo, un gruppo di liceali che pensano con la propria testa, uno straordinario testimone di un'epoca e infine uno di quei piccoli editori che al giorno d'oggi (e non solo in Italia) cercano di difendere l'onore della loro professione.  

I giovani interlocutori di Boris Pahor (1913), tutti classe 1995, si chiamano Alexa Rossi, Lorenzo Celotti, Matteo Cucchiaro, Mila Feregotto, Sharon Mary Boer e Sofia Baldini, e al momento della realizzazione di questo libro erano studenti dell'ultimo anno del Liceo scientifico “Luigi Magrini” e dell’Istituto tecnico “Giuseppe Marchetti” di Gemona del Friuli. A coordinare l’intero progetto sono stati i loro insegnanti di letteratura, storia e filosofia: Angelo Floramo, Flavia Valerio e Alberto Vidon. L’editore del libro, Nuovdimensione di Portogruaro, aveva precedentemente pubblicato, sempre nella collana Frecce, un’altra opera di Pahor, Piazza Oberdan, nonché un libro di ricordi scritto da sua moglie, Radoslava Premrl, intitolato Un eroe in famiglia.

La trasmissione della memoria

Nella seconda prefazione a Quello che ho da dirvi (quella prima è a firma di Angelo Floramo, professore e intellettuale che metteva in risalto l’importanza dell’opera di Pahor ben prima del suo tardivo riconoscimento in Italia) gli insegnanti, curatori del progetto, sottolineano che non vi è storia senza umanità, così come non può esservi narrazione senza irrequietezza. Come, altrimenti, sarebbe potuto nascere questo libro? Realizzato e pubblicato in un momento storico, quale quello attuale, che vede la comunità dei popoli europei percorsa da drammatici turbamenti, che non mancano di tentativi di revisionismo storico né di rinnovate spinte alla chiusura delle frontiere, Quello che ho da dirvi costituisce, tra l’altro, un autentico richiamo all’importanza del dialogo. Uno degli imprescindibili testimoni del XX secolo, Pahor ci ricorda, anche con questo “libro di domande e risposte”, quanto sia importante la trasmissione della memoria.

Il libro è strutturato in sette capitoli, i cui titoli lasciano intuire l’ampiezza dei temi su cui Pahor dialogava con i suoi giovani interlocutori. Senza alcuna reticenza, nei confronti di niente e nessuno, compreso lui stesso. Sul piano semantico, il lettore si imbatterà in un susseguirsi di domande e risposte che spaziano su una grande varietà di argomenti: identità, lingua, minoranze linguistiche e predominio dell’inglese, cultura, nazionalismo, memoria e oblio, lager e negazionismo, resistenza (ossia coraggio di arrabbiarsi, al quale ci esorta Hessel) e conformismo, Trieste, Slovenia, Tito, Kardelj, frontiera orientale, Hitler, Mussolini, Europa dei cittadini e quella dei burocrati, capitalisti, finanzieri e banchieri, il (non) dimenticare l’incendio del Narodni Dom di Trieste, foibe, scrittori e poeti (Kocbek, Cankar, Kosovel, Rebula, Tomizza) – argomenti che fanno da sfondo alle riflessioni di Pahor su comunismo, democrazia, cristianesimo, etica.

Introduzione a Pahor

Mentre leggevo questo libro, avevo spesso la sensazione che gli studenti delle due scuole di Gemona avessero contribuito a creare una peculiare “introduzione a Pahor”, ovvero un libro degno di essere raccomandato ai futuri lettori, in primis quelli giovani, dell’opera di questo scrittore.

Tuttavia, nel corso di una breve conversazione telefonica che non molto tempo fa ebbi con Boris Pahor, intuii che egli non condivideva questa mia sensazione. Avrebbe avuto ancora molto da dire, molto di più. Comunque apprezzava, mi disse, apprezzava molto intelligenza, sforzo e volontà di tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione di questo prezioso libro. Apprezzava inoltre il fatto che io avessi un’opinione positiva della suddetta opera, pur preferendo lasciare quel discorso sull’”introduzione” per un’altra, più lunga conversazione. Infine aggiunse che gli dispiaceva di non poter accogliere tutti gli inviti rivoltigli da diverse scuole italiane, molti dei quali riguardanti proprio quest’ultimo libro.

Per finire, ecco alcuni frammenti tratti da Quello che ho da dirvi.

ALEXA – Non bisogna dare del nazionalista a chi difende la propria identità, me c’è un limite…?

PAHOR – Il problema è che è un terreno scivoloso. Hanno dato del nazionalista anche a me quando al Teatro rossetti di Trieste hanno presentato quello spettacolo teatrale in nome degli esuli di Simone Cristicchi. La Mondadori (casa editrice di destra) ha pubblicato il libro di (Simone) Cristicchi, Magazzino 18. Cristicchi è un giovane regista onesto che ha parlato dell’Istria italiana. Forse ha parlato un po’ troppo dell’Istria italiana perché c’è anche quella croata, non puoi essere italiano se parli croato, devi essere almeno tutti e due, giusto? Però lui ha ricordato l’incendio del Narodni dom, ha ricordato gli sloveni che non avevano scuole loro, ha perfino fatto leggere una lettera da Rab (Arbe, in Dalmazia), dove c’era un campo di concentramento in cui i generali italiani hanno mandato paesi interi sotto le tende a morire di fame, in modo di liberare la Slovenia dalle piaghe di terreno libero.

SHARON – Quindi lei vuole dire che chi difende la propria identità può essere considerato nazionalista?

PAHOR- La Mondadori (casa editrice di destra) ha pubblicato il libro di Cristicchi – non l’ho letto, mi piacerebbe averlo – nel quale pare che lui abbia citato un mio brano in cui dico che davanti al Dom in fiamme, quel grande palazzo di sei piani e non so quante finestre, i fascisti cantavano e ballavano. Nella mia versione io mi chiedo come potevano festeggiare davanti a un rogo.

Il racconto di Cristicchi deve aver dato fastidio a qualcuno ancora in fase di bozze e così lui ha tolto dal mio pezzo citato il ballo dei fascisti. E quelli di destra hanno subito commentato: eh, sì, è meglio toglierlo perché è un nazionalista e non affidabile. Avevo sette anni quando ho assistito al rogo… Come fa un bambino di sette anni a non essere affidabile? Ho raccontato solo ciò che ho visto, ovvero la gente che ballava, che tagliava i manicotti dell’acqua così da impedire che si spegnesse il fuoco.

Alcuni sostengono che dico il falso perché nelle fotografie dell’epoca si vedono gli spruzzi d’acqua. Certo, si vedono perché volevano salvare le case accanto e i manicotti in corrispondenza di quelle case non sono stati tagliati… ma quelli vicini al Narodni dom li hanno tagliati! 

(…)

MATTEO - … appena rientrato dal campo di concentramento nel ’47, quale sentimento ha provato nei confronti di chi ha provocato il tutto, prima i fascisti, poi i tedeschi, in generale gli oppressori? C’era odio, sentimento di vendetta in qualche senso, oppure provava qualcosa di totalmente diverso?

PAHOR – Da parte mia non c’era né odio né vendetta, neanche la parte triestino slovena aveva sentimenti di vendetta. L’8 settembre del 1943 l‘esercito italiano si sfaldò e il movimento di liberazione nazionale chiese ai soldati italiani di lasciare le armi e andarsene. I soldati passarono la frontiera, erano qua sul Carso, e la nostra gente, a questi poveri disgraziati che avevano paura che i tedeschi li prendessero – tantissimi erano stati fatti prigionieri – dava abiti civili, una giacchetta, un paio di pantaloni perché faceva ancora caldo, era settembre. La nostra gente li ha vestiti nonostante quello che hanno fatto in Slovenia… Alcuni generali in particolare si erano comportati male, i loro nomi sono conosciuti alle Nazioni unite come criminali di guerra.

Insomma, da parte nostra non c’era stata vendetta, c’era invece il desiderio di essere riconosciuti e rispettati anche se eravamo – e siamo – un piccolo popolo. Del mio libro, Necropoli, i tedeschi hanno detto che è un regalo, perché riporta la discussione con un mio amico medico francese. Egli, morto dopo sei anni dalla sua liberazione, ha scritto un libro dove dice che bisognerebbe distruggere la nazione che ha creato Hitler e Himmler. Nella conversazione gli dissi: “Ma come parli, amico mio? Sei rimasto infettato anche tu dall’hitlerismo?” La Germania ha avuto la disgrazia di credere in questo dittatore. Come l’Italia ha creduto a Mussolini di cui erano innamorati. Tutta la popolazione era innamorata, le donne dicevano: “Basta vederlo e sono già incinta”. Lo dicevano per scherzo, ma c’era un pizzico di verità. Bastava vedere come veniva accolto e come si mostrava, tutto pettoruto, nudo fino allo stomaco quando andava a mietere.

Era il simbolo della conquista, il padre della patria, “rinnoviamo l’Impero romano!” I Fascisti hanno preso l’Abissinia e dopo hanno creato la provincia italiana di Lubiana, senza sparare un colpo di fucile. L’esercito jugoslavo è andato in malora in due giorni.

Anche il popolo sloveno dopo il ’45 si è comporto male. Quando il partito comunista prese il potere, il Comitato centrale, attraverso la polizia politica, fece sparire della gente; in molti vennero gettati nelle foibe. Saranno state circa duemila persone: tanti dicono di meno, sulle milleottocento, alcuni invece sostengono che siano state di più, diecimila o addirittura centomila, ma la cifra reale probabilmente si aggira intorno alle quattromila persone. Ciampi ha affermato che è stato l’olocausto italiano, ma non ha detto una parola su quello che ha fatto il fascismo… La legge per commemorare il Giorno del Ricordo, il 10 febbraio, parla degli esuli che hanno lasciato l’Istria perché non potevano sopportare il comunismo titino, che quella volta comandava in Istria, e parla delle foibe, ma non dice una parola del fascismo, o dei fucilati, o su quanto accaduto a Lubiana.


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