"Cultura karaoke" è il nuovo libro di Dubravka Ugrešić, di recente uscito nell'edizione italiana, col quale ripercorre storie e vissuti dei primi anni Novanta, fornendone un'analisi implacabile e precisa. Recensione

26/09/2014 -  Diego Zandel

Un passo avanti c’è stato tra la Repubblica di Croazia e la scrittrice Dubravka Ugrešić se l’edizione italiana del suo libro “Cultura karaoke”, edito da Nottetempo, è uscita anche grazie al sostegno del ministero della Cultura croato. Nei primi anni della Repubblica nata da quella che viene chiamata Domovinski rat, cioè Guerra patriottica, e guidata all’epoca da Franjo Tuđman, Dubravka Ugrešić, insieme ad altre scrittrici e scrittori indipendenti croati – Predrag Matvejević, Slavenka Drakulić, Slobodan Šnajder - entrò in collisione con essa, per il loro essere contro l’esasperato nazionalismo e fanatismo che minava le basi stesse della democrazia appena conquistata con la fine del regime comunista.

Un periodo lungo durante il quale era inviso chiunque liberamente criticasse la retorica nazionalista che aveva portato gran parte della classe dirigente, delle istituzioni e dell'informazione a un conformismo così pericoloso da costringere alcuni di questi scrittori all’esilio (Matvejević - che coniò il neologismo di democratura, cioè un connubio tra democrazia e dittatura - prima in Francia e poi in Italia, la Ugrešić in Olanda). La cronaca di questa vera e propria persecuzione è in gran parte documentata in questo bel libro della scrittrice, e ha il suo interesse perché attraverso la sua testimonianza si possono toccare con mano aspetti che hanno a che fare con la psicologia di massa ma anche di singole personalità per le quali il potere, qualunque esso sia – in questo caso, prima quello del partito comunista, poi quello nazionalista e opposto di Tuđman – ha un’attrazione tale da far loro cambiare dall’oggi al domani prospettiva politica e culturale.

Il dramma è che questo avviene anche nelle menti e nel sentire di intellettuali che pure, per i libri che fino allora avevano scritto, per il magistero esercitato all’università, per gli articoli e trasmissioni televisive che avevano firmato, avrebbero dovuto mostrare una indipendenza e autonomia tale da non stare al gioco dei persecutori. E’ chiaro il motivo: l’indipendenza fa correre il grosso rischio di un’esclusione sociale e, come scrive la Ugrešić: “La paura dell’esclusione sociale è ovviamente una delle più forti nell’uomo. La prima volta è inculcata dalla società quando si viene esclusi da un gioco tra bambini, da un compleanno, da una classe scolastica. La paura dell’esclusione sociale è il fondamento di ogni fascismo. Nessuno ne è immune”.

Da questo punto di vista l’analisi che fa Dubravka Ugrešić è precisa e implacabile, tanto più quanto ne ha pagato le conseguenze. Ed è anche, forse, l’espressione massima, estrema, di quella “cultura karaoke” che è l’oggetto del suo libro, il quale solo nell’ultima parte tratta, in quest’ottica – l’ottica dell’imitazione o, meglio, dell’immedesimazione con le nostre icone - le vicende personali dell’autrice. Gran parte del libro, in realtà, coglie rappresentazioni di cultura karaoke diffuse nel mondo, in particolare quello balcanico. E alcune di esse sono fortemente indicative di quanto tutti noi oggi siamo condizionati da quel conformismo indotto dal marketing che ci porta a far parte del branco, con modalità che passano sopra la nostra testa, le nostre stesse convinzioni.

“Le persone-karaoke” scrive la Ugrešić – sono tutto tranne che rivoluzionari, innovatori o gente che cambierà il mondo; sono persone normali, consumatori e conformisti. Eppure, il mondo cambia e le persone normali contribuiscono a questo cambiamento”. In questo senso nella società esistono antenne capaci di percepire i cambiamenti, seppur al momento non vissuti come tali, al punto da tradurli immediatamente in fenomeni di massa.

La scrittrice a riguardo ha collezionato notizie che per molti possono apparire inedite, oltre che divertenti come quella di Valentina Hasan, una bulgara che aveva partecipato a una trasmissione televisiva chiamata Bulgarian Idol, nella quale i concorrenti si esibiscono in una canzone a loro scelta. Valentina aveva scelto la canzone cantata da Mariah Carey “Whitout You”, che comincia con le parole I can’t live, che però in bocca a Valentina, che aveva imparato solo il suono delle parole divenne Ken lee. Allo stesso modo, vennero deformate tutte le altre parole, dando vita a una sorta di lingua che con l’inglese aveva poco a che fare, anche se Valentina era convinta che si trattasse proprio di inglese il suo. Tant’è che alla domanda di un giudice su quale fosse la lingua in cui aveva cantato, Valentina rispose tranquillamente “Inglese”.

Da quel momento il video di Valentina ha cominciato a girare – quasi per derisione – in rete, ma, inaspettatamente, ciò le portò una tale notorietà da diventare in poco tempo una star, conquistando con Ken Lee, come ormai si chiamava la canzone, milioni di spettatori internazionali, non senza scatenare polemiche tra varie etnie balcaniche perché, come ricorda la Ugrešić: “I commentatori bulgari hanno preso le distanze da Valentina dicendo che era turca o forse zingara, ma non bulgara. Anche macedoni e turchi hanno preso parte alla discussione accusando i bulgari di essere razzisti. I greci difendevano i bulgari e accusavano i macedoni di essere loro stessi ‘zingari’ per il fatto di aver rubato il nome Macedonia per il loro stato inesistente” e così via. Ciò, comunque, contribuì a far guadagnare a Valentina una notorietà per cui “divenne qualcosa di più di una semplice cantante di karaoke. Per un momento, questa giovane donna sconosciuta divenne una principessa. La ragazza bulgara di fronte alla cui apparenza, figura, voce e pronuncia inglese, la giuria aveva alzato gli occhi al cielo, diventò la nuova vincitrice morale”.

Naturalmente, d’allora gli inviti ad altre trasmissioni televisive si moltiplicarono, il che è significativo di come il marketing subito si impossessi di ciò che fa moda, alimentando il conformismo. Chi oserà più criticare l’interpretazione di Valentina?

Questo è solo uno dei tanti esempi con i quali Dubravka Ugrešić rende il suo libro ricco di storie e personaggi, anche celebri, ma in certi loro aspetti poco conosciuti e che, proprio per questo, rivelano parti di essi che o sono in ombra o che danno conferma ad atteggiamenti, posizioni, anche politiche, di cui il racconto della scrittrice croata offre uno o più risvolti. E’ il caso, ad esempio, del regista Emir Kusturica, bosniaco di nascita e di educazione, diventato, come racconta egli stesso nella sua bella autobiografia “Dove sono in questa storia”, edito in Italia da Feltrinelli, acceso nazionalista serbo.

Nel libro di Dubravka Ugrešić entriamo in quello che è il piccolo mondo, una sorta di staterello, che il regista si è costruito, in Serbia (sul Monte Mećavnik e, tra l’altro, su un’area protetta, non si sa come ottenuta): il villaggio di Drvengrad o Küstendorf (il villaggio di Kusturica) tutto di case in stile di legno così come la pavimentazione delle strade, dove egli è padrone assoluto. A garantire l’ordine ci sono ranger in divisa che “assomigliano a un incrocio tra guardie del corpo, guardiani e i ranger dei film americani” e dove, oltre ai “costosi fuoristrada Range Rover” degli stessi “c’è anche un elicottero che spesso sorvola le teste dei contadini che abitano nelle zone circostanti e dei numerosi visitatori”. Un villaggio karaoke, naturalmente, perché quello che è il vero, storico, villaggio-museo Sirogojno – meta famosa ai tempi della Jugoslavia - non lo fila più nessuno. Un villaggio, questo di Kusturica, per arrivare al quale c’è anche un pedaggio stradale da pagare che arricchisce le casse della Republika Srpska (la parte serba della Bosnia), se per andarci si passa di qui.


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