Proteste a Belgrado (foto G. Vale)

Proteste a Belgrado (foto G. Vale)

Per rilanciare il processo di integrazione europea, l'Ue deve porsi come alleata delle forze democratiche nei Balcani occidentali. Un commento in vista del summit di Trieste del 12 luglio

10/07/2017 -  Marzia BonaLuisa Chiodi

[Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali (IAI) e OBC Transeuropa, ed è stato pubblicato su Affari internazionali l'8 luglio 2017]

Da quando il processo di Berlino è stato avviato nel 2014, i Balcani sono tornati al centro delle cronache internazionali in relazione al rischio sicurezza per via dei flussi migratori sulla rotta balcanica, come terreno di confronto fra la penetrazione politica russa e l'espansione della Nato , per il timore del  radica lismo  islamico oltre che per il riacutizzarsi di tensioni bilaterali come quelle fra Belgrado e Pristina o Belgrado e Zagabria e gli scenari di Grande Albania.

In questo contesto, la cautela con cui l'Unione europea (Ue) ha risposto al rafforzamento o al semplice protrarsi di atteggiamenti autoritari da parte dei leader della regione ha portato alcuni esperti internazionali a coniare l'espressione  stabilitocrazia, un riadattamento del vecchio dilemma tra sostegno ad uno status quo autoritario ma concentrato sullo sviluppo, contrapposto all'incentivo a forze democratiche ma potenzialmente destabilizzanti.

Rischio euroscetticismo

Come noto alle stesse istituzioni europee, il processo di europeanizzazione dei Balcani, come già accaduto con gli allargamenti precedenti, rischia di limitarsi all'armonizzazione del quadro giuridico senza generare trasformazioni democratiche profonde. Un esempio significativo è quello della tutela della libertà e del pluralismo dei mezzi di informazione, rispetto al quale quasi tutti i Paesi della regione possono vantare normative in linea con gli standard europei proprio mentre  libertà dei media e  accesso alle informazioni sono costantemente limitate o minacciate.

Il rischio peggiore, tuttavia, è che, a fronte di un impegno democratico solo di facciata da parte dei leader nazionali, si crei disaffezione verso la prospettiva europea da parte dei cittadini dei sei Paesi della regione ancora fuori dall'Ue (Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Kosovo). L'euroscetticismo locale, naturalmente, andrebbe ad aggravare la perdita di slancio politico del processo di allargamento dovuto alla crisi interna all'Ue e alla riluttanza da parte dei Paesi membri a completare il processo.

La Commissione europea ha mostrato finora impegno nel coinvolgere le parti sociali interessate: imprese, università, governi locali e Ong della regione. Anche il processo di Berlino, a partire dal 2015, ha integrato nelle proprie attività il  Forum della società civile , uno spazio di confronto ed elaborazione di proposte concrete da parte della società civile, indirizzate ai rappresentanti istituzionali riuniti nel vertice intergovernativo. Ma i portatori di interessi nella regione sono ancora poco radicati per essere davvero agenti di cambiamento.

Bruxelles, invece, fatica a relazionarsi con le spinte dal basso che arrivano dalla società e in particolare dai movimenti sociali. Le proteste succedutesi in tutti i Paesi della regione a cadenza regolare evidenziano l'insofferenza crescente verso il persistere di corruzione e clientelismo e sono portatrici di messaggi rilevanti per l'integrazione europea dei Paesi della regione; messaggi che i cittadini non riescono a veicolare attraverso il sistema politico. Le denunce di brogli elettorali, le violazioni della libertà di stampa e gli abusi di potere da parte delle istituzioni sono segnali importanti da monitorare e raccogliere.

Le mobilitazioni civiche nella regione

Lo hanno mostrato bene le proteste e i cosiddetti  plenum organizzati in Bosnia Erzegovina nel 2014, a cui l'Alto Rappresentante dell'Ue Valentin Inzko inizialmente rispose con allarme parlando di invio di forze di sicurezza. Questi esperimenti deliberativi non hanno purtroppo trovato articolazione politica nel Paese, che rimane tuttora dominato dai partiti politici di stampo etno-nazionale. Le proteste hanno tuttavia messo in luce il disagio economico e sociale che pervade la Bosnia, incoraggiando la Commissione europea a ripensare le priorità nell'approccio verso Sarajevo.

Un ruolo politicamente più incisivo è stato rivestito dalle manifestazioni che si sono susseguite in Macedonia a partire dal 2015. In seguito allo scandalo intercettazioni e alla prolungata impasse istituzionale, la cosiddetta rivoluzione colorata ha mantenuto alta l'attenzione delle istituzioni europee e della comunità internazionale ed è stata cruciale per la caduta del governo Gruevski che da anni teneva in scacco il Paese.

Poco sostegno, invece, hanno incontrato finora le argomentazioni avanzate dai movimenti in Serbia. A partire dall'aprile del 2016, i cittadini del Paese sono scesi ripetutamente in piazza, prima per denunciare l'illegalità delle demolizioni nel quartiere Savamala, poi contro le irregolarità intervenute nell'elezione di Aleksandar Vučić a presidente della repubblica e la morsa sui mezzi di informazione nel paese. Tanto più grave la negligenza verso questi fenomeni se si considera che hanno avuto come parole d'ordine il rispetto dello stato di diritto.

L'Ue come alleata delle forze democratiche

I negoziati con le istituzioni europee sono necessari per l'europeanizzazione dei Paesi della regione, e analogamente il coinvolgimento dei portatori di interesse è importante per favorire lo strutturarsi del dialogo sociale.

Ma per radicare il processo democratico nell'Europa sud-orientale è altrettanto fondamentale rafforzare l'alleanza tra istituzioni europee e movimenti sociali, raccogliendo e valorizzando le istanze espresse. I cittadini della regione devono poter contare sul sostegno pieno delle istituzioni Ue quando si battono contro nodi cruciali per il consolidamento della democrazia quali brogli elettorali, violazioni della libertà di stampa o abusi di potere.

Tanto più che l'esistenza di spinte democratiche nei sei Paesi dei Balcani occidentali, è un segnale incoraggiante e di segno opposto rispetto alla persistenza dei problemi ben noti che affliggono l'area.


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