Simbolo di radiazione © Allexxandar/Shutterstock

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Due anni fa, un granello radioattivo andò disperso in un campo nei pressi di Iđoš, in Vojvodina, rischiando di mettere in pericolo la popolazione locale. I fatti che seguirono alla dispersione del materiale radioattivo non sono mai stati resi noti all’opinione pubblica. Il Centro per il giornalismo investigativo della Serbia (CINS) ha indagato sulla vicenda

12/10/2023 -  Teodora Ćurčić

(Originariamente pubblicato da CINS )

Quel 4 giugno del 2021 il sole splendeva così forte da spingere due lavoratori, che si trovavano in mezzo ad un campo nelle immediate vicinanze di Iđoš, a togliersi la tuta e il casco protettivo. L’infinita pianura della Vojvodina si stendeva davanti a loro.

Radoslav Miljković e un suo collega di trent’anni più giovane, Radomir Stehlik, stavano verificando le condizioni dei tubi di un gasdotto. Prendendo in mano un cavo fissato ad un dispositivo simile ad una scatola di metallo, si alternavano nel lanciarlo in un canale, come se stessero pescando. All’estremità del cavo, anziché un’esca, c’era una telecamera capace di rivelare lo stato di salute delle tubazioni interrate, proprio come un apparecchio radiologico.

I dispositivi di questo tipo contengono una parte radioattiva, quindi sono pericolosi, e per questo simili verifiche solitamente vengono effettuate da due lavoratori, uno giovane e l’altro più anziano. Radoslav afferma di essersi sempre preso cura di Radomir come se fosse suo figlio.

Tutto lasciava intendere che sarebbe stata una normale giornata di lavoro fino a quando Radoslav non udì un suono simile a quello di un sasso caduto in acqua. Capì subito che erano in pericolo.

“Scappa, Rade”, gridò Radoslav.

Una componente, grande quanto un chicco di grano, si era staccata dallo strumento di misurazione. Nonostante le sue dimensioni ridotte, la componente dispersa era molto pericolosa perché conteneva elementi radioattivi. L’esposizione a piccole dosi di radiazioni può indurre nausea, emicrania e febbre, mentre dosi più elevate danneggiano i tessuti, possono provocare il cancro e persino la morte.

Dopo l’incidente Radoslav e Radomir tornarono alla sede dell’azienda per la quale lavoravano e telefonarono alla Direzione per la radioprotezione e la sicurezza nucleare della Serbia e all’Istituto per le scienze nucleari Vinča.

Ai due lavoratori venne ordinato di tornare indietro per mettere in sicurezza il luogo dell’incidente e di rimanere lì. I rappresentanti delle autorità competenti dissero che avrebbero effettuato un sopralluogo il giorno successivo.

Radoslav e Radomir trascorsero la notte in macchina, senza riuscire ad addormentarsi.

Il giorno dopo: alla ricerca di un granello radioattivo

La mattina del giorno seguente a Iđoš giunse una squadra di esperti della Direzione per la radioprotezione e del laboratorio dell’Istituto Vinča specializzati nella bonifica dei siti contaminati.

Il granello radioattivo si trovava in un canale di circa un metro di profondità, ricoperto di fango. Era troppo piccolo per poter essere rintracciato e recuperato senza esporsi a radiazioni.

Radoslav ricorda che uno degli esperti dell’Istituto Vinča proponeva di lasciare il granello laggiù.

“Sarebbe bastato gettare [nel canale] un pezzo di piombo e lasciarlo lì”, spiega Radoslav, “così la radiazione sulla superficie della terra sarebbe stata pari a zero. Fine della storia”.

Tuttavia, stando alle parole di Radoslav, uno dei rappresentanti della Direzione per la radioprotezione, l’ispettore Vladimir Janjić, insistette affinché il granello venisse recuperato. La documentazione raccolta da CINS dimostra che in quel momento Janjić non era in possesso dell’abilitazione alla professione di ispettore.

Interpellati dai giornalisti di CINS, i rappresentanti della Direzione per la radioprotezione hanno affermato che quel giorno sul luogo dell’incidente insieme a Janjić c’erano anche il direttore e un altro ispettore della Direzione, specificando che lasciare la fonte di radiazione là dov’era caduta sarebbe stato contrario alla legge e “ai principi di una gestione sicura dei rifiuti radioattivi”.

Quindi, si decise di recuperare il granello. Una ruspa ronzando sollevò una grande quantità di terra, ma anziché risolvere il problema, questa azione non fece che peggiorare la situazione. Riportando la sorgente di radiazioni allo scoperto, aumentò infatti il rischio di diffusione di sostanze radioattive.

A quel punto sul luogo dell’incidente giunsero le forze di polizia, i vigili del fuoco e altri dipendenti dell’Istituto Vinča, ma non essendo riusciti a rimuovere il granello in modo sicuro, si pensò di cambiare strategia. L’idea era di individuare la zolla di terra in cui si trovava il granello radioattivo e di riporla, quindi senza estrarre il granello, in un contenitore di sicurezza. Dopo due ore di tentativi inutili, nei corso dei quali i dipendenti dell’Istituto Vinča erano esposti a radiazioni, l’azione venne interrotta.

Quindi Radoslav e Radomir furono costretti a trascorrere un’altra notte piena di incertezze chiusi in macchina.

Due giorni dopo: l’operazione matrioska

Il secondo giorno sul posto giunse un nuovo team di Vinča, cercando per ore di ritrovare la fonte di radiazione. Non riuscendo però più a scavare con le pale nella massa di fango ed erba, ormai indurita, si rese necessario un nuovo piano.

Allora si decise di sollevare l’intero pezzo di terra contenente il granello radioattivo e di metterlo in un contenitore rivestito di piombo, per poi caricarlo su un furgone dell’Istituto Vinča e trasportarlo a Belgrado.

Tuttavia, appena iniziarono a mettere in pratica quest’idea, gli esperti si resero conto che il contenitore di sicurezza comunque non sarebbe stato in grado di proteggere il conducente del furgone dalle radiazioni.

A quel punto ebbero una folgorazione: caricare l’intero furgone con il contenitore di sicurezza su un camion con rimorchio. Quindi, come le matrioske russe: il granello radioattivo in una zolla di terra, la zolla in un contenitore, il contenitore su un furgone, il furgone su un camion.

I dipendenti dell’Istituto Vinča si rifiutarono però di proseguire l’operazione essendo già stati esposti a grandi quantità di radiazioni. Uno di loro consegnò le chiavi del furgone ad un poliziotto e il team di Vinča se ne andò.

“È come se un medico dicesse: ‘Prendi il mio bisturi e cavatela come puoi’. La responsabilità di quanto accaduto ricade sul direttore del laboratorio dell’Istituto Vinča”, sostiene l’ex direttore dell’Istituto Jagoš Raičević.

Marija Šljivić-Ivanović, direttrice del laboratorio di Vinča, non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti di CINS.

Il secondo giorno si concluse senza risolvere il problema. Anche quella notte la sorgente di radiazioni rimase in mezzo al campo, come anche i due lavoratori.

Tre giorni dopo: l’intervento senza Vinča

I giorni passavano, il tempo stringeva e dopo la partenza degli esperti di Vinča bisognava capire come procedere.

Nella mattinata si svolse un incontro tra i rappresentanti della Direzione per la radioprotezione e l’azienda per la quale lavoravano Radoslav e Radomir.

Si rinunciò all’operazione matrioska, decidendo di estrarre il granello dalla terra e di deporlo in un classico contenitore per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.

“Da quel fango venivano prelevati 200 grammi di terra alla volta e trasferiti in secchi da muratore”, spiega Radoslav. “Poi il materiale veniva analizzato con rilevatore di radiazioni. ‘Qua non c’è, qua non c’è… eccolo qua, spostati!’. Fu così che si concluse la ricerca”.

Il contenitore con il materiale radioattivo fu caricato su un furgone dell’Istituto Vinča e, scortato dalla polizia e dai vigili del fuoco, venne trasferito in un deposito temporaneo a Pinosava [nella periferia di Belgrado] gestito da un’azienda privata.

Jagoš Raičević ritiene che la procedura adottata fosse sbagliata.

“Il granello estratto dal fango era un rifiuto radioattivo, e tutti i rifiuti radioattivi devono essere consegnati all’azienda pubblica NOS [Impianti nucleari della Serbia] di cui però nel rapporto non vi è alcuna menzione”.

Inoltre, i dipendenti della NOS avrebbero potuto aiutare nella ricerca della sorgente di radiazioni poiché erano autorizzati a svolgere simili interventi. Eppure, la Direzione per la radioprotezione non ritenne opportuno nemmeno contattati. Alcune fonti interpellate da CINS sostengono che all’epoca i direttori delle due aziende fossero in conflitto.

Secondo la spiegazione fornita dalla Direzione per la radioprotezione, la sorgente di radiazioni recuperata nei pressi di Iđoš non fu mai trattata come rifiuto poiché non era danneggiata. Rispondendo alle domande dei giornalisti di CINS, i rappresentanti della Direzione hanno puntato il dito contro l’azienda per la quale lavoravano Radoslav e Radomir accusandola di non aver contattato la NOS.

La sorgente di radiazioni giunse a Pinosava la sera del terzo giorno. Benché la storia del granello finisse lì, per Radoslav il problema era ben lungi dall’essere risolto.

Due anni dopo: irradiazione e divieto di lavorare

Gli abitanti di Iđoš, le cui case si trovano a pochi minuti a piedi dal luogo dell’incidente, erano completamente all’oscuro di quanto accaduto.

Gli abitanti con cui le giornaliste di CINS hanno parlato durante la loro visita a Iđoš all’inizio di quest’anno erano del tutto ignari della vicenda. Uno dei residenti ha sentito parlare della dispersione di una sorgente di radiazioni, ma non sono state le autorità a rivelarglielo. L’intera vicenda è rimasta nascosta all’opinione pubblica fino a poco tempo fa quando Insajder ha scritto della dispersione della sorgente e dei lavoratori esposti a radiazioni.

Quanto a Radoslav, lo abbiamo trovato nella sua casa nei pressi di Niš. È un tipo pittoresco che mentre parla di quella ricerca di un ago radioattivo in un pagliaio ci osserva seriamente con gli occhi socchiusi sopra gli occhiali da vista che gli coprono quasi metà del volto. Pur essendo dentro la casa, non si toglie il suo cappello di lana blu.

Quel venerdì in cui avvenne l’incidente fu il suo ultimo giorno di lavoro con sorgenti di radiazioni.

I lavoratori esposti durante le attività sul campo utilizzano i rilevatori per monitorare le radiazioni a cui sono soggetti. Le quantità di radiazioni a cui possono essere esposti sono esplicitamente definite dalla legge: in media 20 mSv, ma non più di 50 mSv all’anno.

In un rapporto della Direzione per la radioprotezione si afferma che durante l’incidente nei pressi di Iđoš il rilevatore di Radoslav registrò una dose di ben 962 mSv. Il giovane collega di Radoslav, sempre stando ai documenti resi noti dalla Direzione, ricevette una dose circa due volte inferiore, che comunque supera di gran lunga i limiti consentiti.

Tuttavia, altri documenti dimostrano che i due lavoratori non furono esposi a dosi di radiazioni così alte. Lo conferma anche Radoslav, sostenendo tra l’altro che i rilevatori di radiazioni rimasero attaccati alle tute che lui e il suo collega si tolsero a causa del caldo.

“Quando lavoriamo per la NIS [Compagnia petrolifera della Serbia] le maniche corte non sono un’opzione. Dobbiamo indossare la tuta e il casco. La tuta va indossata anche con temperature superiori ai 40°C. Ma dopo cinque ore, senza alcun controllo, non avendo nessuno intorno… ce la togliamo, fa troppo caldo”, spiega Radoslav.

Dopo i primi esami effettuati nel giugno del 2021 subito dopo l’incidente, citati anche nel rapporto della Direzione per la radioprotezione, Radoslav fu sottoposto a ulteriori controlli nell’ottobre dello stesso anno.

Analizzando i risultati degli esami, Želimira Ilić, medico specializzato in radioprotezione, osserva un notevole miglioramento delle condizioni di Radoslav, definendolo però “illogico”.

“Non so come qualcuno possa riprendersi in così poco tempo. A quell’età la convalescenza non è così veloce come ad esempio nei diciannovenni”.

A Radoslav è stato vietato di svolgere attività a rischio radiazioni per cinque anni. Quindi, non ha perso il suo lavoro, solo che ora svolge altre attività e non si espone a radiazioni.

Radoslav si dice però deluso. Oltre a lamentare il fatto di essersi trovato impossibilitato a fare quello che ha sempre fatto, sottolinea che alcuni dati citati nel rapporto ufficiale sull’incidente di Iđoš non corrispondono alla verità, altri invece sono stati completamente omessi.

“Faccio questo lavoro da anni. Sono un lavoratore esposto di categoria A […] e con un certificato come questo [riguardante il divieto di esporsi a radiazioni] mi sento preso in giro… Sono stati commessi gravi errori. E a chi è stata addossata la colpa? A me”.


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