Saša Ilić, (foto © Jetmir Idrizi)

Saša Ilić, (foto © Jetmir Idrizi)

Saša Ilić, scrittore e giornalista, nel 2019 si è aggiudicato il prestigioso premio letterario NIN per il miglior romanzo dell’anno. Lo abbiamo intervistato ed abbiamo parlato di psichiatria, Jugoslavia, divina Commedia e profughi

12/03/2020 -  Francesca Rolandi Belgrado

La 66° edizione del premio NIN per il miglior romanzo dell’anno ha visto vincitore il romanzo Pas i kontrabas di Saša Ilić, scrittore ed editorialista, nonché promotore di diversi progetti letterari, tra cui, per diversi anni, l'inserto del quotidiano Danas, Beton. Noto per le sue posizioni antinazionaliste, Ilić si occupa da diversi anni di politiche culturali e del processo di confronto con il passato in Serbia.

Il romanzo intreccia in una complessa narrazione temi apparentemente distanti come i movimenti antipsichiatrici, i traumi derivati dai conflitti jugoslavi degli anni ’90, la condizione senza tempo dei profughi, in un percorso che si snoda sull’ultimo secolo e si articola attraverso una serie di coordinate geografiche che collegano lo spazio post-jugoslavo con l’Italia. Entrano nell’intreccio narrativo alcuni avvenimenti drammatici del passato recente, come la guerra in Slavonia e in Bosnia Erzegovina, il conflitto combattuto dalla Marina jugoslava, la repressione degli anni di Milošević, la rotta balcanica, o eventi storici come la rivoluzione di Béla Kun, il surrealismo in Serbia, l’ascesa del fascismo.

Se la storia del premio NIN, promosso da uno dei maggiori settimanali serbi che oggi si attesta su posizioni antigovernative, è stata negli anni tormentata da una serie di polemiche, l’edizione di quest’anno è stata seguita da una vera e propria bufera sul piano mediatico, che sembra peraltro avere poco a che fare con la letteratura.

All’assegnazione del premio è seguito un appello al boicottaggio da parte di 18 scrittori, alcuni dei quali caratterizzati da posizioni apertamente nazional-patriottiche, tra cui il regista Emir Kusturica, che hanno accusato la giuria di “incompetenza” sia sul piano della professionalità che su quello della morale e hanno invitato le proprie case editrici a non prendere più parte alla selezione.

Nell’appello i romanzi finalisti vengono definiti come accomunati da “un tentativo tragicomico di promuovere l’arbitrarietà poetica come un pluralismo delle idee, uno sterile uso del politicamente corretto come libertà di pensiero, e una coscienza provinciale e coloniale come cosmopolitismo”. All’appello hanno fatto seguito altri attacchi da parte del mondo intellettuale e accademico serbo.

Del romanzo, dell’assegnazione del premio NIN, e più in generale della scena culturale in Serbia, Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa ha discusso con l’autore.

Il libro contiene diversi riferimenti all’Italia, a partire dal personaggio di Marko Julius, psichiatra seguace del pensiero di Franco Basaglia, ai numerosi richiami alla Divina Commedia, per arrivare alla conclusione del libro nella zona portuale di Genova. Come questi elementi si articolano nella narrazione?

Il mio romanzo vuole raccontare le relazioni tra lo stato e i cittadini attraverso la mediazione delle istituzioni, in una situazione di post-conflitto in cui le istituzioni stesse sono prigioniere e hanno perso il loro senso, trasformandosi in un’arma del potere del regime e di una classe partitica. Essendo partito da questa idea ed avendo io stesso vissuto quegli anni di guerra, volevo indagare il lavoro delle istituzioni con individui che hanno la sindrome post-traumatica da stress e ho voluto che la trama del romanzo fosse ambientata nella clinica psichiatrica di Kovin, rispetto alla quale ho scoperto una fantastica biografia dello psichiatra e rivoluzionario Dezider Julius, nella prima metà del secolo. Facendo delle ricerche su di lui il tema si è sviluppato. È emerso che quella clinica psichiatrica, in un luogo che si trovava al confine tra Serbia e Austria Ungheria, fino alla Prima guerra mondiale era stata una caserma.

Dunque si trattava di due sistemi chiusi che operano sulle persone, due istituzioni europee par excellence, l’esercito e la psichiatria. Uno dei personaggi inventati è Marko,il figlio illegittimo di Dezider Julius che mi ha aiutato a raccontare la storia di questa trasformazione delle istituzioni ed è collegato alla cultura italiana a causa soprattutto di Dante. A interessarmi della Divina Commedia era il rapporto tra la Chiesa e le istituzioni. Man mano che lavoravo su Marko il campo si ampliava e, passando attraverso la psichiatria, sono arrivato a Franco Basaglia e al movimento antipsichiatrico. A quel punto il mio romanzo ha ricevuto quella dimensione jugoslavo-italiana che è presente dall’inizio alla fine e che culminerà in un grande finale a Genova.

Quanto è durato il lavoro di ricerca e scrittura su questo libro?

Circa cinque anni, di cui i primi due per le ricerche. Ho cercato di entrare nella clinica psichiatrica di Kovin per consultare l’archivio, ma alla fine non ho ricevuto l’autorizzazione. Ho visitato la città, fotografato la clinica ed ex caserma austroungarica attraverso le sbarre, ho seguito quello che succedeva in quei giorni all’interno per comprendere l’atmosfera e penso di avere imparato molto pur senza essere entrato nell’istituzione stessa. Successivamente ho iniziato a fare delle ricerche. Ho trovato un terribile documento di una commissione internazionale che, dopo la caduta di Milošević nei primi anni 2000, è entrata nelle istituzioni di salute mentale in Serbia e ha documentato con una serie di fotografie ed un report una situazione veramente scoraggiante.

Ho anche scoperto che gran parte della documentazione sulla clinica psichiatrica di Kovin durante il periodo interbellico, in particolare nel passaggio dagli anni ‘20 agli anni ‘30 quando è avvenuta una riforma portata avanti dal dott. Dezider Julius, si trova all’archivio di Pančevo. Poi ho scoperto che, come accadeva in altri luoghi del territorio della ex Jugoslavia, dalla Congregazione di Zagabria San Vinko Paulski è arrivato un gruppo di suore che operavano con i pazienti. In quel momento mi è sembrato di avere diversi personaggi che mi avrebbero potuto aiutare a sviluppare tutta la storia, che è ambientata al tempo del movimento surrealista in Jugoslavia. Dal momento che Dezider Julius mostrava sensibilità per la cultura, la letteratura, la rivoluzione, ho ambientato tutta la vicenda al tempo del surrealismo che è comunque legato all’inconscio e alla psichiatria. Ho fatto delle ricerche anche alla Biblioteca nazionale. Alla fine mi sono recato a Genova e mi sono concentrato sull’universo dei migranti, sulla scena jazz, sul cimitero di Staglieno, sulle navi – la nave è anche il luogo del trauma dell’attore principale.

Perché ha sentito la necessità di scrivere della relazione tra le istituzioni e l’individuo?

Da tempo mi occupo di questi temi, dal confronto con il passato al linguaggio dei media, come nel romanzo Pad Kolumbije, in cui parlavo dell’attentato contro il premier Đinđić. Qua in Serbia si è giunti da una parte al blocco completo di ogni possibilità di aprire un dialogo sul passato, mentre dall’altra sono state usurpate le stesse istituzioni. Per questo ho pensato sarebbe stato interessante scrivere di come le istituzioni funzionano e di come si posiziona, rispetto ad esse, l’individuo. Credo che questo sia il momento giusto per occuparsi di questo tema.

La critica non ha percepito che le vie della negazione delle istituzioni nel romanzo derivano dall’anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Per esempio ad un certo punto il protagonista Filip viene informato che la sua guida è forse affetta da schizofrenia e che questo percorso schizofrenico rappresenta una delle ultime strade per la libertà per coloro che decidono di uscire dal sistema. Partendo da queste premesse teoriche, sono arrivato ai nomi del movimento antipsichiatrico, in particolare Basaglia e la sua idea di negazione delle istituzioni. Si è a lungo pensato che si trattasse della distruzione di queste istituzioni e della creazione di un sistema parallelo, ma Basaglia ha mostrato che invece significava una riforma sostanziale delle istituzioni attraverso la loro negazione, il recupero di alcune caratteristiche umane e il cambiamento delle relazioni con l’individuo.

Come la filosofia di Basaglia è stata recepita in Jugoslavia?

Un anno chiave è stato il 1968 in Jugoslavia, quando vi furono delle grandi manifestazioni ed emersero dei gruppi libertari in ambito intellettuale e politico da Belgrado a Zagabria a Sarajevo, in particolare gruppi anarchici e femministi sulla scena politico-letteraria. Si è arrivati ad una interessante alleanza a livello europeo che si è intrecciata con i movimenti antipsichiatrici, basata sulle teorie di Foucalt, Deleuze, Guattari e su concetti come quello di antipsichiatria di Basaglia, che stimolò congressi, traduzioni. Nel 1984 a Belgrado si tenne un grande congresso di psichiatria alternativa. Poi con l’ascesa dei nazionalismi in Jugoslavia e con la dissoluzione del paese e le guerre questo movimento fu marginalizzato e disperso negli anni ’90.

Una parte di queste persone si unirono ai movimenti contro la guerra o alle organizzazioni non governative, dando un grande contributo alla lotta contro la repressione del regime. Ma l’idea di un movimento antipsichiatrico è caduta nell’oblio di fronte alla crescita delle tendenze nazionaliste e conservatrici. E questo è risultato evidente dal report che ho menzionato. Dopodiché l’opinione pubblica non ha mai avuto accesso a queste istituzioni, come probabilmente a me non è stato concesso l’accesso a Kovin a causa dello spettacolo che avrei potuto trovarvi. Quando ho scoperto quei testi scritti dalle correnti libertarie negli anni ’80 in Jugoslavia ho pensato fosse necessario riportarli alla luce e ho provato a farlo con la letteratura.

La vita del dottor Marko Julius, psichiatra seguace della filosofia basagliana, rinchiuso egli stesso nella clinica di Kovin durante gli anni di Milošević è la metafora di un processo più ampio?

Sì, è una metafora del 1968 in Jugoslavia. Le conoscenze che lui rappresenta sono praticamente ancora assenti dalle istituzioni educative nel territorio della ex Jugoslavia. Il dottor Julius proviene dal sistema educativo jugoslavo e alla fine viene ospedalizzato per ragioni politiche a Kovin. L’ultimo suo contributo sarà un tentativo di mettere in atto una negazione delle istituzioni, insieme ai suoi tre seguaci. Grazie ai suoi insegnamenti costoro arriveranno a un’intima rivoluzione, intesa come una premessa per una riforma del sistema.

Chi si nasconde dietro la figura del contrabbassista jazz Filip Isaković, ospedalizzato anch’egli a Kovin in seguito a una serie di eventi personali che riportano a galla i suoi traumi bellici?

Filip Isaković è il rappresentante di una generazione che, appena diventata adulta, nel 1991 è stata richiamata al fronte e conseguentemente strumentalizzata a fini militaristici, dopodiché è stata del tutto abbandonata. Costoro sono rimasti gli unici a custodire dei ricordi di alcuni avvenimenti orribili che sono accaduti negli anni ’90 e che a livello pubblico in Serbia sono completamente rimossi. Siamo spesso testimoni di incidenti con persone di quelle generazioni nate tra fine anni ‘60 e inizio anni ’70 che mettono mano alle armi o uccidono le famiglie o i vicini, ma nulla di tutto ciò stimola un dibattito sull’esistenza di profondi traumi derivanti dalla guerra in questa società.

Dall’altra parte il dottor Julius, grazie alla sua filosofia ispirata a Basaglia, riporta a galla tutto ciò e mostra come questo iceberg continui ad agire sotto la superficie, fino a superare il trauma e ad arrivare a una piena reintegrazione della personalità alla fine del romanzo.

È possibile oggi tracciare un bilancio di come la Serbia ha fatto i conti con il proprio passato negli ultimi decenni?

Durante gli anni ’90 questo avveniva solo in alcune piccole enclave, in organizzazioni della cittadinanza, come il Centar za kulturnu dekontaminaciju, il cinema Rex, ecc... Queste piccole zone di libertà sono sempre state attive, con campagne contro la guerra, attraverso l’accoglienza dei profughi…

Dopo la caduta di Milošević e l’arrivo del premier Đinđić, è iniziata una forte ondata di confronto con il passato. In quegli anni vi fu anche una grande espansione nel settore editoriale, un confronto con altre esperienze internazionali di simili processi, si sono stabiliti contatti con individui che negli altri paesi della regione si occupavano di questioni relative al passato. Questa forte ondata fu bloccata dall’attentato, dopodiché il paese entrò in una nuova fase in cui quel movimento si è sempre più affievolito e dopo il 2012, con la sconfitta del Partito democratico, si è completamente bloccato. Ora la situazione si è addirittura ribaltata: delle fasi negative del passato viene accusato proprio quel partito che ha messo in atto il 5 ottobre e ha abbattuto il regime di Milošević. Un completo capovolgimento della realtà nel discorso pubblico.

Come vede la situazione negli altri paesi della regione?

Anche qui vedo un affievolirsi di queste tendenze con la vittoria dei partiti del passato. Quello che mi interessa come autore, giornalista e cittadino è l’esistenza di individui liberi e libertari nella sfera culturale che abbiano le forze e il coraggio di mettere in discussione i sistemi in cui si trovano. Ora in tutta la ex Jugoslavia si tratta di pochi gruppi o individui. Si è arrivati a una distorsione di queste precedenti tendenze in direzione di una nuova narrazione incentrata sulle riforme e sull’integrazione europea, un progetto ideologico, messo in atto in modo catastrofico. Le élite al potere hanno perfettamente capito che centrale è l’economia, il futuro, non il passato. Il passato rimane così alla letteratura.

Nel libro ha tematizzato l’esperienza delle guerre negli anni ’90, tra cui lo scenario della guerra condotta dalla Marina jugoslava, rimasto spesso in ombra…

Io stesso ho vissuto quell’esperienza nella Marina, e questo tema è assente nella letteratura in tutta la regione, a differenza della guerra combattuta sulla terraferma. La mia prospettiva legata ai miei ricordi. La Marina fu utilizzata per mettere in atto un blocco totale nei confronti della Croazia nel momento in cui questa veniva attaccata dall’Armata jugoslava a Vukovar e in altri luoghi. Volevo raccontare quell’esperienza in una comunità molto chiusa come quella di un equipaggio, con ufficiali tra i quali c’erano dei veri nazionalisti, persone che seminavano odio e conducevano la loro guerra personale. Nel romanzo ho creato una struttura simbolica, con la disposizione di quelle mine che sarebbero rimaste lì per decenni. Quel risentimento esiste ancora ed è più pericoloso di tutte le armi.

I profughi sembrano essere oggi le maggiori vittime della repressione, in particolare da parte delle stesse istituzioni. Come queste agiscono nei confronti di individui che non sono cittadini di quei paesi?

Si tratta di un grande tema dei nostri giorni. I miei eroi percorrono le vie delle migrazioni e il protagonista lascia il suo paese, uno dei destini degli ex jugoslavi che trovano scampo altrove. Il protagonista Filip è un uomo senza attributi, come i migranti sono persone senza documenti che permetterebbero loro di viaggiare normalmente. La sua decisione di non partecipare all’industria culturale europea di cui anche il jazz è diventato parte, ma di schierarsi con quelle persone senza casa e abbandonate a se stesse e all’inclemenza delle istituzioni in tutta Europa, lo porta a ritrovare se stesso. Facendo ricerca su questi percorsi ho incontrato molti momenti repressivi come i maltrattamenti sui migranti a cui mi è capitato di assistere alla frontiera tra Grecia e Macedonia, o la situazione nei campi in tutta la Serbia. La loro vita sembra essere in assoluto priva di valore, mentre altri cercano di guadagnarci sopra. Andando a Genova nelle stradine del porto ho visto queste persone in piedi davanti alle porte dei seminterrati, in attesa di trovare una soluzione per il loro destino, si potevano vedere stanze in cui c’erano dieci letti metallici e in cui l’umidità si era mangiata tutto. Dovunque andassi incontravo queste scene, alcune delle quali sono confluite nel romanzo.

Come è stato accolto il romanzo in Serbia e perché ha deciso di candidarlo per il premio NIN?

Nell’estate 2010 ho deciso di non concorrere al premio NIN quando ho visto la composizione della giuria perché non volevo darle legittimità. Dieci anni dopo, lavorando a questo nuovo romanzo, ho pensato che anche il premio NIN è una istituzione e che non potrà cambiare se non ci si impegna per farlo. È stato un tentativo di uscire dall’underground nel quale a lungo viviamo tutti noi che apparteniamo a questo settore culturale. Ho notato che esisteva un tabù in quella istituzione, e che era necessario romperlo per arrivare alla sua liberazione.

Nello spazio pubblico sono arrivati attacchi molto intensi a me, al romanzo e alla giuria, il boicottaggio del premio, mentre sono stati in pochi a scrivere positivamente del romanzo.

Credo che si tratti dell’esempio di un tentativo di negare un’istituzione nel senso di una sua trasformazione ed apertura.

Si aspettava questo tipo di reazioni?

No, non in queste dimensioni, che hanno superato ogni aspettativa. Gli attacchi vanno avanti in continuazione da un mese e mezzo da parte di grandi media. I primi firmatari dell’appello erano 18, a cui si sono aggiunti una ventina di professori della facoltà. Poi è giunto un attacco da parte del prof. Aleksandar Jerkov che davanti a una platea di docenti di letteratura serba ha tenuto una lezione diffamatoria. Isolando quelle parti in cui si parla di guerra, le ha giudicate molto negativamente dal punto di vista letterario, definendo il libro un pamphlet propagandistico nonché un tradimento del paese e della nazione.

Pensa che una situazione simile si sarebbe potuta creare una decina di anni fa?

Dieci anni fa non credo che un simile romanzo sarebbe potuto arrivare al premio NIN. La premessa di quello che è successo è un serio conflitto tra la rivista NIN – e in genere i media indipendenti – e il regime. I media indipendenti sono sotto terribili pressioni e NIN si è trovato in una posizione scomoda. Io interpreto tutta la vicenda come l’ennesimo attacco concordato contro i media indipendenti e i valori per i quali si battono.

Oltre agli attacchi, ha sentito solidarietà da parte dei colleghi o del pubblico?

Da parte del pubblico sì, da parte di colleghe e colleghi in misura minore. Per esempio mi fa molto piacere avere ricevuto supporto del portale bookvica.net che riunisce critiche, tra cui molte femministe che leggono in modo diverso la letteratura e la politica.

Durante la cerimonia di premiazione ha menzionato che il libro celebra lo jugoslavismo e l’antifascismo. Questi temi sono considerati tabù nella Serbia di oggi?

Assolutamente. Non ne ero cosciente finché non l’ho pronunciato durante quella conferenza stampa, ed è stata una delle questioni per cui sono stato più attaccato. Questi sistemi si battono per la conservazione di identità nazionali costruite durante le guerre. L’identità jugoslava è una sovrastruttura nonché un fenomeno emancipatorio in questa costellazione in cui tutto è ristretto a rigide identità nazionali. Esiste anche la paura che il premio NIN si apra verso una regione e una lingua che è comprensibile a tutti, e alla letteratura che si scrive in quella lingua, il che sarebbe plausibile, perché così il premio NIN era stato prima delle guerre. E questo porterebbe davvero alla decostruzione di quell’istituzione.

Lei è tra gli autori del festival della letteratura Polip di Pristina. Quale può essere il ruolo della cultura nei rapporti tra Serbia e Kosovo?

Con alcuni colleghi di Pristina da dieci anni abbiamo cercato, attraverso la letteratura e la cultura, di arrivare ad una comprensione reciproca e alla creazione di una nuova piattaforma di cooperazione. Vi sono passati diversi autori ed autrici sia kosovari che serbi che per la prima volta si sono confrontati con quella scena, ma anche internazionali, abbiamo lavorato sulle traduzioni per poterci leggere vicendevolmente. Due miei libri, Pad Kolumbije e Lov na ježeve sono tradotti in albanese.

La mancata conoscenza delle lingue è un gran problema. Credo che in questo caso la letteratura sia entrata in un processo di peace building, con un importante effetto sulla scena culturale. Prima che noi pubblicassimo due antologie, nel 2011, una di letteratura kosovara in serbo e l’altra di letteratura serba in albanese, da fine anni ’80 si era tradotta solo una manciata di libri ed esisteva una separazione completa, qui non si sapeva cosa loro facevano e viceversa.

Quanto è forte la scena letteraria post-jugoslava?

Io a questa scena appartengo. Ne sono stati parte anche Feral Tribune, Novosti di Zagabria, alcune realtà associative, piccole librerie e festival. Ci sono delle enclave che collaborano e che hanno mostrato un buon livello di solidarietà nel caso del mio libro perché hanno riconosciuto un momento molto importante per tutti noi in questo processo che si dispiega dalla guerra e dalla dissoluzione della Jugoslavia. Questa scena non è così forte ma è molto significativa e credo che si rinforzerà in futuro.


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