Ancora non è noto quale sia il piano del presidente serbo Aleksandar Vučić per risolvere la questione del Kosovo, nel frattempo in Serbia si verificano gravi episodi di violenza e intolleranza nei confronti della minoranza albanese. Tollerati dalle istituzioni
In attesa del proseguimento dei negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, che potrebbero portare a una correzione dei confini tra i due paesi, in Serbia è iniziata l’ennesima campagna contro gli albanesi, sostenuta dal regime del presidente Aleksandar Vučić.
Lo scorso 27 aprile un gruppo di militanti di destra ha organizzato una protesta davanti al panificio “Roma”, situato nel sobborgo belgradese di Borča, di proprietà di un albanese del Kosovo, Mon Gjuraj. A scatenare la protesta è stata una fotografia che il fratello di Gjuraj ha pubblicato nel gennaio 2017 sul suo profilo Facebook, che lo ritrae mentre fa il gesto dell’aquila, il simbolo nazionale albanese. Alcune decine di hooligan che si sono radunati davanti al panificio hanno cantato una canzone che recita: “Ogni notte nei miei sogni, le moschee in fiamme…”, hanno affisso all’ingresso del panificio alcuni volantini raffiguranti simboli nazionali serbi, hanno gridato: “Uccidi, taglia la gola affinché gli siptari non ci siano più”, e hanno lasciato alcune teste di maiale sull’automobile di Gjuraj.
Aquile, maiali e galline
Il giorno successivo, il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović ha rilasciato un comunicato stampa nel quale si afferma che “il raduno si è svolto senza alcun incidente […] durante la protesta a Borča non è stata rotta nemmeno una vetrina del summenzionato panificio, mentre dall’altra parte si assiste regolarmente a decine di atti vandalici, incendi e furti, nonché ad aggressioni quotidiane contro i serbi in Kosovo e Metohija”.
Il presidente Aleksandar Vučić ha cercato di spiegare quanto avvenuto dichiarando che “gli animi si sono accesi” e aggiungendo ironicamente che il fratello di Gjuraj non ha fatto il gesto dell’aquila bensì della gallina. La premier Ana Brnabić ha ripetuto le parole del presidente, affermando di essere “delusa” per il fatto che alcuni albanesi pubblicano sui loro profili sui social network “quella gallina albanese”. Sia il presidente che la premier, intenzionalmente o meno, hanno trascurato il fatto che l’aquila bicipite è il simbolo nazionale non solo dell’Albania ma anche della Serbia.
Il simbolo dell’aquila in volo, che viene mostrato con le mani incrociate, per la prima volta ha sconvolto i cittadini serbi nel 2018, durante il Campionato mondiale di calcio in Russia. Sul finire della partita tra Svizzera e Serbia un calciatore svizzero di origini kosovare, Xherdan Shaqiri, ha fatto il gesto dell’aquila per celebrare il gol che ha portato alla vittoria la sua squadra. In Serbia questo gesto è stato interpretato come una provocazione e una minaccia, in quanto simboleggerebbe l’idea di una Grande Albania che comprenda anche il Kosovo.
“Le persone fanno il gesto dell’aquila bicipite per dimostrare di essere albanesi, nient’altro. Come ad esempio quando i serbi alzano le tre dita”, ha spiegato il giornalista di Pristina Imer Mushkolaj in un’intervista rilasciata al quotidiano belgradese Danas. Il gesto delle tre dita risale all’inizio degli anni Novanta e in molti cittadini della regione risveglia i ricordi delle tragiche guerre di dissoluzione jugoslava. Dall’altra parte, il gesto dell’aquila albanese si è diffuso solo recentemente e non veniva usato durante la guerra in Kosovo né durante i bombardamenti della Nato, ma neanche nel periodo immediatamente successivo quando iniziò l’emigrazione forzata dei serbi dal Kosovo.
Il vicino Đura
Mon Gjuraj, originario di Prizren in Kosovo, ormai da otto anni vive e lavora a Borča, dove si è trasferito dopo un periodo trascorso in Svizzera. Il giorno stesso in cui gli hooligan hanno preso di mira il suo panificio, Gjuraj ha pubblicato un video in cui ha preso le distanze dalla controversa fotografia e ha ribadito la sua posizione sui social network e nelle dichiarazioni rilasciate ai media. “In nessun modo ho sostenuto né ispirato tale comportamento. Non partecipo alle azioni politiche, sociali o di stampo nazionalista, svolgo solo la mia attività”, ha dichiarato Gjuraj.
Nel frattempo i pochi media che non sono sotto il controllo del partito al governo (il Partito progressista serbo, SNS), guidato dal presidente Vučić, hanno ricordato che Mon Gjuraj è noto, anche al di fuori di Borča, per le sue iniziative umanitarie. L’emittente Al Jazeera Balkans ha riportato che Gjuraj distribuisce gratis i suoi prodotti di panetteria ai bambini rifugiati e migranti, mentre la madre di una bambina di Borča affetta da atrofia muscolare spinale ha dichiarato ai media che Gjuraj aveva organizzato una raccolta fondi per sostenere le spese delle cure mediche di sua figlia.
Una settimana dopo la protesta dei militanti dell’estrema destra, venerdì 3 maggio, circa un centinaio di cittadini e rappresentanti di alcuni partiti di opposizione e di organizzazioni non governative si sono radunati davanti al panificio “Roma” per esprimere il loro sostegno al “vicino Đura”, come gli abitanti di Borča chiamano Gjuraj. Il panettiere ha distribuito i suoi prodotti alle persone radunate, dicendo di voler scambiare con loro “qualche bella parola e sorriso, perché ciò mi renderebbe felice più di ogni altra cosa”.
Contemporaneamente, sul lato opposto della strada si è riunito un gruppo di militanti di estrema destra che ha annunciato una nuova protesta, svoltasi poi domenica 5 maggio . In quell’occasione gli attivisti di destra hanno chiesto nuovamente che il panificio di Gjuraj venisse chiuso a causa della controversa fotografia. Le richieste di una parte dell’opinione pubblica e di alcuni esponenti dell’opposizione affinché questo raduno venisse vietato per istigazione alla persecuzione e alla discriminazione nazionale, razziale e religiosa, sono state ignorate.
Il messaggio del regime: è impossibile vivere insieme agli albanesi
Le aggressioni ai negozi di proprietà di albanesi non sono certo una novità in Serbia. Già negli anni Ottanta, quando a Pristina ebbero luogo le prime manifestazioni a favore dell’indipendenza del Kosovo, a Belgrado venivano distrutte le panetterie e pasticcerie di proprietà di albanesi. Durante la guerra e i bombardamenti degli anni Novanta, ma anche nel periodo successivo, ogni aumento di tensione tra Belgrado e Pristina ha avuto come conseguenza il moltiplicarsi di atti vandalici, più o meno gravi, ai danni dei beni di proprietà di albanesi.
Da cinque mesi sui social network vengono pubblicati gli indirizzi di panifici albanesi in Serbia, e in alcuni casi – come precisato in un articolo pubblicato sul settimanale Vreme – “i proprietari hanno chiuso i loro negozi e hanno lasciato il paese o la città in cui vivevano e lavoravano”.
Minacce esplicite e notizie false su “azioni nemiche” degli albanesi in Serbia, diffuse attraverso alcuni siti web – un fenomeno di cui si è occupato dettagliatamente il portale Fakenews tragač – , ma anche il modo in cui i media mainstream serbi parlano di questo argomento, non di rado incitando alla violenza, non fanno altro che surriscaldare le passioni scioviniste di una parte dei cittadini e politici serbi.
Perché la violenza contro gli albanesi in Serbia è esplosa proprio adesso? Perché una vecchia foto ha suscitato reazioni violente?
Dal 2013, nell’ambito dell’Accordo di Bruxelles, si svolgono i negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. L’ultimo incontro tra i leader politici del Kosovo e della Serbia si è tenuto lo scorso 29 aprile a Berlino, su iniziativa della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron.
In quell’occasione è stato annunciato che il prossimo incontro tra il presidente serbo e il suo omologo kosovaro si terrà all’inizio di luglio, con l’auspicio che i negoziati, arenati ormai da mesi, proseguano. Ci si aspetta che al termine dei negoziati le due parti sottoscrivano un accordo legalmente vincolante, che le impegnerebbe a non ostacolarsi a vicenda nel percorso di adesione alle organizzazioni internazionali. Tale accordo potrebbe aprire la strada all’adesione del Kosovo alle Nazioni Unite, e in Serbia questo viene interpretato come riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di Belgrado.
Tornato da Berlino, il presidente Vučić ha più volte accusato l’opposizione, le voci critiche e alcuni media serbi, nonché le potenze internazionali e i servizi di sicurezza di “aver mobilitato intere squadre di agenti in diversi paesi”, che hanno esercitato “un’enorme pressione” a causa della quale il suo piano per la risoluzione della questione del Kosovo non è stato accettato.
Durante i negoziati con Pristina, ma anche durante il cosiddetto “dialogo interno sul Kosovo”, organizzato da Vučić insieme ai partiti di coalizione di governo e diverse organizzazioni filogovernative, il presidente serbo non ha mai chiarito quale fosse il suo piano, a chi lo avrebbe presentato e se la demarcazione territoriale, di cui si parla ormai da mesi, avrebbe comportato, come ampiamente speculato, una correzione dei confini e uno scambio di territori tra Serbia e Kosovo.
A differenza di Vučić, il ministro della Difesa Aleksandar Vulin è stato molto esplicito, dichiarando: “Io sono per far sì che la delimitazione con gli šiptari [termine dispregiativo per indicare gli albanesi, ndt] avvenga nel modo più veloce e più sicuro possibile. Prima ci sarà un confine rigido e solido tra noi e loro, prima potremo cominciare a occuparci di noi stessi e del nostro popolo”.
Nell’attesa di scoprire quale proposta avanzerà Vučić per la soluzione della questione del Kosovo e quale sarà l’esito dei negoziati tra Belgrado e Pristina, assistiamo ai tentativi del regime di Belgrado di creare, con l’aiuto di hooligan e media filogovernativi, un alibi per la decisione finale che dovrà prendere.
Secondo il consueto meccanismo, usato ormai da anni per suscitare e fomentare conflitti al fine di distogliere l’attenzione dai problemi reali, una vecchia fotografia è diventata motivo per cui un cittadino di nazionalità albanese dovrebbe essere cacciato via dalla Serbia, e l’intera vicenda è stata usata per inviare un messaggio agli albanesi, ma anche a tutti quelli che si oppongono alla violenza contro le minoranze, perché le loro azioni rappresenterebbero una provocazione inaccettabile. Al contempo, seppur implicitamente, la leadership di Belgrado ha dimostrato di ritenere impossibile una convivenza tra serbi e albanesi.
Mon Gjuraj forse rimarrà a Borča e in Serbia, ma forse si arrenderà di fronte alle minacce, chiuderà il suo panificio e si trasferirà in un altro paese. Resta la domanda: chi sarà il prossimo?
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