Rifugiati in arrivo a Goris, Armenia meridionale, dal Nagorno Karabakh. Foto: Arshaluys Barseghayan/OC Media

Rifugiati in arrivo a Goris, Armenia meridionale, dal Nagorno Karabakh. Foto: Arshaluys Barseghayan/OC Media

Ora che l’esodo di praticamente tutta la popolazione del Nagorno Karabakh è terminato, molti di quelli che sono costretti a rifarsi una vita ricominciando da zero riflettono su cosa – e chi – hanno lasciato indietro

18/10/2023 -  Arshaluys Barseghyan

(Originariamente pubblicato da OC Media , il 6 ottobre 2023)

 

Lo scorso 29 settembre la strada per Goris era piena di automobili con pacchi legati al tetto e camion colmi di effetti personali.

Le persone che fuggivano spaventate dal Nagorno Karabakh giungevano nella città di Goris, nel sud dell’Armenia, per registrarsi e trovare un riparo temporaneo.

I veicoli con materassi, lettini per bambini, elettrodomestici, biciclette, persino un’automobile caricata su un camion, proseguivano poi verso nord – una marea di persone in viaggio per iniziare una nuova vita in un’altra parte dell’Armenia.

Non tutti però hanno avuto la possibilità di partire con un’auto carica di effetti personali.

La maggior parte delle persone che ho incontrato a Goris lo scorso 29 settembre è infatti giunta in Armenia con gli autobus messi a disposizione dal governo. Queste persone sono state tra le ultime a lasciare [il Nagorno Karabakh].

Lo scorso primo ottobre, Gegham Stepanyan, difensore dei diritti umani del Nagorno Karabakh, ha annunciato l’arrivo dell’ultimo autobus a Goris. Si stima che oltre 100mila rifugiati siano arrivati in Armenia dopo la resa del Nagorno Karabakh . Secondo la missione delle Nazioni Unite inviata nella regione, in Karabakh sono rimasti tra i 50 e i 1000 armeni.

“Niente coperte, niente materassi, niente frigorifero, niente TV, niente mobili. Tutto è stato lasciato ai turchi”, afferma Laura Vardanyan, un’anziana seduta ai piedi di un monumento. Tutti gli armeni del Nagorno Karabakh con cui ho parlato si riferiscono agli azeri con il termine “turchi”.

Laura e altri sei membri della sua famiglia sono arrivati a Goris stamattina e aspettano di essere trasferiti a Gyumri, la seconda città più grande dell’Armenia dove vivevano prima di trasferirsi a Kajavan (Amiranlar) in Nagorno Karabakh nel 1997.

Il figlio di Laura rimase ferito mentre faceva il pane durante la seconda guerra del Nagorno Karabakh nel 2020. Sua figlia, Mariam Nalbandyan, che nel frattempo si è unita alla conversazione, spiega che in quella guerra persero la casa e furono costretti a trasferirsi a Martuni (Khoyavand) in un alloggio in affitto sovvenzionato dallo stato.

“Pensavamo che sarebbe andata bene, fino all’ultimo momento credevamo che non saremmo stati costretti ad andarcene”, afferma Mariam ricordando la guerra dei 44 giorni del 2020 da cui l’Armenia uscì sconfitta.

Per quanto ne sappia la famiglia di Laura, a Martuni sono rimaste solo tre persone: una donna anziana che non voleva lasciare la tomba del marito, un uomo che non voleva lasciare la tomba del figlio e un senzatetto.

Questa volta Laura e i suoi familiari sono riusciti a portare con sé solo i vestiti. Ognuno ha preso una borsa e se ne sono andati. Mariam però è riuscita a portarsi dietro una cosa speciale – un pezzo di marmo della statua del Monte Melkonyan a Martuni.

Melkonyan, comandante durante la prima guerra del Nagorno Karabakh che svolse un ruolo fondamentale nella battaglia per Martuni, è considerato un eroe nazionale in Armenia e in Karabakh.

“La statua è stata rimossa. Chiunque abbia potuto, ha preso un pezzo dalle macerie. Questa è la cosa più preziosa che ho portato con me. Il resto sono cose materiali, vane, le creeremo nuovamente. Ora però siamo troppo devastati”, spiega Mariam tra le lacrime. “Non abbiamo perso la casa, bensì la patria”.

Un frammento della statua dedicata a Monte Melkonian a Martuni. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

“Non augurerei a nessuno di percorrere la strada che abbiamo fatto noi”

Non lontano, seduta all’ombra, c’è la famiglia Arakelyan proveniente dal villaggio di Nerkin Horatagh (Ashaghi Oratagh) nella regione di Martakert (Aghdara). Accanto a loro ci sono alcune borse riempite di effetti personali preparate dalla madre sotto il fuoco delle truppe azere. Non sapevano dove sarebbero andati.

Le sorelle Raksana e Regina, 13 e 16 anni, ricordano che lo scorso 19 settembre sono tornate a casa e stavano per cenare quando è iniziato l'attacco lanciato dall'Azerbaijan . Di fronte al costante flusso di notizie sulle tensioni al confine si aspettavano accadesse qualcosa, ma non pensavano che sarebbe andata così male.

Raksana e Regina Arakelyan. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

“La nostra casa si trova vicino alla scuola. Siamo tornati a casa, è iniziato [l’attacco], siamo scesi nel seminterrato, poi dopo tre ore siamo andati nel seminterrato della scuola”, spiega Regina. “C’erano molti abitanti del villaggio. Quando i turchi [azeri] se ne sono resi conto, hanno attaccato la scuola”.

Il loro padre è rimasto ferito il primo giorno dell’offensiva azera, il 19 settembre. Qualche giorno dopo, il 27 settembre, è stato portato a Yerevan con un elicottero per essere sottoposto ad un intervento chirurgico.

Il 20 settembre gli abitanti del villaggio sono stati evacuati e trasferiti nella capitale Stepanakert.

In piazza, seduta sull’erba, c’è un’altra donna circondata dai bambini. La ventisettenne Sona Nahapetyan è madre di quattro figli e viene dal villaggio di Drmbon (Heyvali). In un primo momento Sona ha percepito l’attacco come un fulmine, un’esperienza già vissuta, ben presto però ha capito cosa stava accadendo.

“I bambini erano a scuola, terribilmente spaventati, e sono tornati a casa correndo. Alcuni bambini erano talmente sconvolti dalla paura che non capivano in quale casa fossero entrati. Immaginate la condizione di questi bambini”, ricorda Sona, aggiungendo che ancora oggi i suoi figli si spaventano ad ogni minimo rumore.

Sono stati trasferiti a Stepanakert, affamati e intirizziti. Il marito e i figli di Sona hanno avuto la febbre.

La trentenne Gohar Harutyunyan, cognata di Sona, fa un confronto tra l’ultima guerra e quella dei 44 giorni del 2020, constatando che, pur essendo durato un solo giorno, l’ultimo attacco è stato molto più terribile.

Sona Nahapetyan e Gohar Harutyunyan con i loro bambini. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

Il fratello di Gohar è rimasto ferito ed è stato trasferito a Yerevan con un elicottero. Gohar dice di pentirsi di essere tornata in Karabakh dopo la seconda guerra. “Abbiamo rivissuto tutto ancora una volta”.

“Non augurerei a nessuno di percorrere la strada che abbiamo fatto noi. L’unica cosa che mi consola è che la mia famiglia si è salvata quando ormai sembrava non ci fosse alcuna speranza”, afferma Gohar.

La famiglia di Gohar è stata costretta a lasciare la casa, costruita grazie al duro lavoro nelle miniere e all’allevamento del bestiame.

Gohar più di qualsiasi altra cosa lamenta il fatto di non essere riuscita a portare con sé le foto di famiglia. È riuscita però a portare le fotografie di oltre trenta soldati morti durante la seconda guerra del Karabakh. Queste foto erano custodite all’Università statale di Stepanakert dove Gohar e la sua famiglia hanno trascorso una decina di giorni dopo l’evacuazione dal loro villaggio.

Gohar spiega di aver preso quelle foto perché temeva che gli azeri, che erano già entrati a Stepanakert, potessero distruggerle.

“Andavano in giro con le armi, ci guardavano, indicavano, ridevano. Ti senti umiliato, non puoi dire niente a quelle persone”.

Tenere occupati i bambini

Anche la piazza centrale di Goris è piena di volontari che offrono acqua, caffè e cibo a tutti, compresi i giornalisti.

In mezzo a questo caos, teatro della tragedia di oltre 100mila persone, comunque decise ad andare avanti, un gruppo di bambini sta giocando. Stando all'UNICEF Armenia , tra i rifugiati del Karabakh giunti in Armenia ci sono 30mila bambini.

Bambini profughi dal Nagorno Karabakh giocano a Goris. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

“In questi giorni stiamo cercando di tenere occupati i bambini”, spiega Hasmik Arzumanyan, coordinatrice del Centro Barekam, “per rallegrarli un po’ dopo le attese in quelle file e l’infinita permanenza in uno stesso luogo, per riportarli finalmente ai loro giochi dopo tutti quegli eventi, ma anche per permettere ai genitori di aspettare tranquillamente in fila, registrarsi, ritirare i vestiti, garantendo che i bambini siano al sicuro”.

Il Centro Barekam è un progetto gestito da un’ong locale, Partnership and Teaching, che a partire dal 2020, con il sostegno del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha aperto diversi asili nella provincia di Syunik rivolti ai bambini dell’area, ma anche a quelli provenienti dal Nagorno Karabakh.

Anche un team dell’organizzazione umanitaria internazionale Medici senza frontiere (MSF) sta assistendo gli armeni arrivati dal Karabakh, offrendo supporto alla salute mentale, focalizzandosi sul primo soccorso psicologico alle persone che attraversano una crisi emotiva avendo dovuto abbandonare le proprie case e affrontare un lungo viaggio dell’esilio.

“Arrivano in uno stato di shock, travolti da una forte ansia, stress acuto e profonda depressione”, afferma Franking Frias, direttore di MSF in Armenia. “Alcuni hanno problemi psicosomatici, cioè manifestano fisicamente quelle emozioni avvertendo dolori in diverse parti del corpo”.

“Certo, alcuni hanno problemi medici ben evidenti, per altri invece i disturbi fisici sono espressione di una condizione mentale poiché sono sommersi da emozioni negative”, spiega Frias a OC Media.

Un popolo disperso

Nella piazza di Goris persone di tutte le età condividono lo stesso destino, riunite in questa città un’ultima volta prima di disperdersi nei quattro angoli dell’Armenia, dove dovranno rifarsi una vita.

Un altro problema con cui molti rifugiati ora si trovano a dover fare i conti riguarda la scelta del luogo della loro nuova abitazione.

Gli alloggi offerti dal governo si trovano perlopiù nelle province di Tavush, Lori, Gegharkunik e Shirak, mentre la maggior parte dei rifugiati vuole rimanere vicino alla capitale Yerevan.

Molti rifugiati sono preoccupati anche perché gli alloggi offerti si trovano al confine con l’Azerbaijan. Una di loro è Angela Baghdasaryan, quarantenne, arrivata dalla città di Chartar nella provincia di Martuni in Karabakh. Ad Angela e ai suoi familiari è stata offerta una sistemazione nella provincia di Shirak. Loro però non ci vogliono andare perché il figlio di Angela studia presso l’Università statale di Yerevan e attualmente vive in un appartamento in affitto.

“Non potrò andare a vivere lì [a Yerevan] e lui non potrà lasciare la città”, spiega Angela. “Non abbiamo lavoro. Mio marito era un soldato e attualmente non lavora. Anch’io non lavoro. Vorremmo andare in un villaggio vicino a Yerevan dove mio figlio potrebbe vivere con noi. Così non dovremmo pagare il suo affitto e con quei soldi potremmo vivere insieme”.

Angela e i suoi familiari sono stati gli ultimi ad andarsene dalla città di Chartar, e tra gli ultimi a lasciare Stepanakert.

Una loro vicina, Ella Suleimanyan, 63 anni, si unisce alla conversazione. Alla domanda se si sia pentita di non aver portato con sé qualcosa lasciando il Karabakh, Ella risponde che avrebbe voluto prendere una manciata di terra dalla sepoltura di suo nipote, ucciso durante l’offensiva dell’Azerbaijan.

Rifugiati a Goris. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

Incertezza e morte

Tutti i rifugiati con cui ho parlato durante la mia permanenza a Goris erano travolti da un senso di incertezza per il futuro. Alcuni percepivano anche il destino dei propri cari in questa ottica di incertezza.

Il conflitto in Nagorno Karabakh ha provocato innumerevoli morti e tragedie personali, compreso l’ultimo esodo precipitoso.

Lo scorso 29 settembre la ministra della Salute armena Anahit Avanesyan ha confermato le voci secondo cui non tutti sarebbero sopravvissuti al viaggio da Stepanakert a Goris.

Sabato mattina, prima di tornare a Yerevan, nella piazza centrale di Goris ho incontrato una donna seduta su una panchina con un paio di borse. Accompagnava una famiglia del Nagorno Karabakh che ha ospitato per alcuni giorni.

La famiglia è andata a comprare una carta SIM per provare ad avere qualche notizia dal figlio e dal genero. Lo scorso 25 settembre i due erano andati a prendere carburante in un deposito. Nel caos dell’evacuazione il deposito era esploso, uccidendo almeno 170 persone. Da quel giorno la famiglia non ha più avuto loro notizie.

Ho dato alla donna il numero verde del ministero della Salute, così la famiglia potrà verificare se i nomi dei loro cari figurino nell’elenco delle persone ricoverate in ospedale. Se non dovessero essere ricoverati, con ogni probabilità anche loro sono rimasti uccisi in quell’esplosione, aggiungendosi alle decine di migliaia di vittime di un conflitto protrattosi per oltre tre decenni.


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