Antica immagine del monastero di Sv. Jovan Bigorski

Antica immagine del monastero di Sv. Jovan Bigorski

Il ruolo dell'ortodossia nella nuova prospettiva europea della Macedonia, l'autocefalia della Chiesa ortodossa macedone, i rapporti tra comunità cristiana e comunità musulmana. Intervista con padre Parteniy, abate dell'antico monastero macedone di Sveti Jovan Bigorski

18/11/2010 -  Tanya Mangalakova Debar

Padre Parteniy è l’abate del monastero di Bigor, in Macedonia. Negli ultimi 15 anni, il religioso ha avuto un ruolo centrale nel processo di rinascita del monachesimo nel suo paese, dopo la marginalizzazione vissuta durante gli anni del socialismo. I monaci di Bigor, così come le monache del vicino monastero femminile “Sveti Georgi Pobedonosetz” (San Giorgio trionfante) supportano inoltre molti giovani nel difficile percorso di emancipazione dalla tossicodipendenza.

La Macedonia in questi anni è impegnata nel difficile percorso che dovrebbe portarla nell’Unione europea. Che ruolo immagina per l’ortodossia nella nuova Macedonia europea?

Non nascondo che mi allarmano alcune posizioni, presenti all’interno dell’Ue, di eccessivo liberalismo, che offende le tradizioni cristiane. D’altra parte una percentuale sostanziosa dei cittadini dell’Unione sarà composta da ortodossi. La Grecia, membro a pieno titolo da molti anni, può fungere da modello. E’ certo che gli ortodossi nel loro complesso dovranno cercare un loro posto all’interno della cornice dell’Ue.

Qual è la sua idea di identità europea? Che cosa rappresenta, che valori raccoglie?

Ognuno entra nell’Unione europea con i propri valori, ma è importante che ognuno riesca a salvaguardare le proprie specificità. Queste ci rendono davvero cittadini europei. L’obiettivo non può essere fondersi tutti in un’enorme massa informe. Spesso il destino delle nazioni nate come conglomerati, come ad esempio la Jugoslavia, è stato quello di un inevitabile disgregazione. Questo è un rischio che corre anche l’Unione europea, ed è appunto per questo che è di vitale importanza la conservazione delle proprie caratteristiche culturali e nazionali.

La Chiesa ortodossa macedone sta lottando per vedere riconosciuta la propria autocefalia. Quali i possibili sbocchi di questa intricata vicenda?

Si tratta di una questione più politica che religiosa. Oggi ci viene imposta la Chiesa ortodossa serba quale “chiesa madre”, cosa che non ritengo storicamente naturale. Dopo la rimozione dell’Arcivescovato di Ohrid, la Chiesa macedone è rimasta a lungo sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli. Questo cambia soltanto con la creazione di una nuova chiesa di carattere slavo, l’Esarchia bulgara, che diventa il punto di riferimento della maggior parte della popolazione ortodossa di Macedonia.

Nel 1918, con l’inclusione nel Regno di Jugoslavia, le cose cambiano ancora: la Chiesa serba allora si impone in modo violento. I macedoni, però, non hanno mai riconosciuto nella Chiesa serba la propria “chiesa madre”. Nel 1967 viene finalmente creata una Chiesa ortodossa macedone, con la benedizione della Chiesa ortodossa serba. Oggi però, per motivi politici, alla Chiesa macedone viene negata l’autocefalia, anche se secondo i canoni religiosi questa ne ha tutti i diritti. Oggi la Macedonia è uno stato indipendente, il popolo vuole una sua chiesa e la Chiesa ortodossa macedone è l’erede diretto dell’Arcivescovato di Ohrid, presente da secoli su questo territorio.

Ci troviamo in uno dei più antichi monasteri di Macedonia. Oggi nella vostra diocesi (Debar-Kichevo) vivono molti macedoni di religione musulmana. Nei villaggi da questi abitati, si trovano però ancora molte chiese. Come vengono curati questi luoghi di culto?

E’ molto difficile conservare questi templi, perché in molti villaggi ormai non ci sono più cristiani. Questo non significa che non ci impegniamo per mantenerli in vita. Un esempio, è la chiesa di Trebishte, dedicata a “Sveti Ahil Lariski”. Un tempio da salvaguardare anche per la preziosa iconostasi, opera dell’artista Dicho Zograf. E’ interessante notare che in questi villaggi le moschee generalmente non sono antiche, con l’eccezione di quella di Rostusha, edificata già ai tempi dell’Impero ottomano sulle rovine della chiesa della Vergine Maria. Per il resto, come a Yanche, si tratta di edifici nuovi, spesso costruiti negli ultimi 15 anni.

Dopo l’incendio che ha devastato il monastero lo scorso 30 settembre 2009, la comunità dei macedoni musulmani (torbeshi) locale si è impegnata in qualche modo nel processo di ricostruzione?

Una parte importante di questa comunità ha vissuto l’incendio come un dramma personale, ed ha portato aiuto nella prima fase dei lavori di recupero. Questi però sono stati poi portati avanti principalmente dalla comunità ortodossa, che li ha anche finanziati. Purtroppo tra ortodossi e musulmani il livello di comprensione e amicizia reciproca non è soddisfacente. Le persone più anziane mantengono rapporti migliori di convivenza, ma tra i più giovani non sono infrequenti posizioni più radicali. Così purtroppo le due comunità si stanno allontanando una dall’altra. 

Il monastero è uno dei capisaldi dell’ortodossia in Macedonia. Come convive con il fatto di trovarsi oggi in una regione, quella di Debar, oggi a forte maggioranza musulmana?

Per noi è un onore che il Signore ci abbia donato la missione di chiamare tutti alla pace e all’unità, soprattutto nazionale. Perché a prescindere dalla religione facciamo tutti parte della stessa nazione. Purtroppo, però, oggi parte dei musulmani di Macedonia manca del sentimento nazionale. Al contrario di quanto accade in Albania, dove ortodossi, cattolici e musulmani sanno di essere tutti albanesi. I nostri musulmani invece ne hanno una percezione debole, e spesso si identificano con i turchi o con gli albanesi piuttosto che con gli altri macedoni. E’ in corso un lento processo di assimilazione. In Zhupa, ad esempio, molti musulmani si riscoprono turchi, a Debar invece albanesi. Di questo, ovviamente, né i turchi né gli albanesi sono responsabili. Sono piuttosto i musulmani macedoni che dovrebbero lottare per la propria emancipazione culturale, per cercare le proprie radici lì dove si trovano realmente.


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