Monte Zoncolan © zakaz86/Shutterstock

Monte Zoncolan © zakaz86/Shutterstock

Cercivento è uno di quei microcosmi italiani rimasti fuori dal sistema del turismo di massa. Vanta una natura incantevole e antiche tradizioni tramandate fino ai giorni nostri. Ed è luogo dove riflettere sull'umanità e la solidarietà

23/02/2022 -  Božidar Stanišić

Se quest’inverno doveste decidere di andare a sciare sul Monte Zoncolan, e se poi decideste di fermarvi a Cercivento per prendere un caffè o un bicchiere di vin brûlé, non perdete l’occasione di visitare Plan de Sine, una località situata a soli quindici minuti a piedi da Cercivento (la funivia di Ravascletto, che collega l’omonima località della Carnia alla cima del Monte Zoncolan, non è un coniglio, quindi non preoccupatevi, non scapperà).

Plan de Sine: su un pendio boscato, accanto ad un albero abbattuto, in mezzo alla neve, vedo un dipinto. L’unico in quella galleria senza muri, coperta dal cielo. Nella parte superiore del dipinto c’è una scritta, leggibile anche osservandola dal sentiero che attraversa il bosco: “Una giovane donna migrante ha dato alla luce il suo bambino in un bosco a Rakitovec nel dicembre 2020”.

“Madonna sulla neve”, ho chiamato così quel dipinto quella mattina dello scorso dicembre, prima di incontrare la sua autrice (a Cercivento ho scoperto facilmente dove abita l’autrice dalla “Madonna”.)

Annarita S. De Conti ha accettato volentieri di rispondere alle mie domande, ma prima di dirmi qualcosa di più su quel dipinto, eseguito su una lastra in cartongesso (52 x 92 cm), ha voluto parlarmi del suo luogo di nascita. Mi è sembrato di ascoltare una voce che ripercorre la storia di tutto ciò che ha reso, e rende tuttora, quel luogo un ambiente adatto all’insediamento umano.

“Il consiglio comunale di Cercivento a breve conferirà la cittadinanza onoraria ai soldati italiani fucilati [in questa località] durante la Grande guerra. In questo luogo, durante quel tramonto dell’Europa, furono combattute grandi battaglie. In questo paesino della Carnia, alcuni soldati, semplici operai e contadini, si rifiutarono di obbedire agli ordini assurdi dei loro superiori. È una drammatica storia ben documentata, ma rappresenta solo un tassello di una mole di dati sull’Italia che detiene il triste primato per numero di soldati fucilati. Piccoli uomini nella Grande guerra”, racconta Annarita, senza nascondere la sua soddisfazione per la notizia sul conferimento della cittadinanza onoraria ai fucilati di Cercivento.

Annarita ritiene che questo luogo sia degno di essere visitato, ma non vorrebbe che io interpretassi questa affermazione come parte integrante di una retorica patriottica, bensì come un discorso sulla storia, sull’arte e sulla cultura della memoria. Cercivento è uno di quei microcosmi italiani rimasti fuori dal sistema del turismo di massa, un microcosmo che, come afferma Annarita, vanta una natura incantevole.

Appena Annarita ha menzionato i cramars [termine friulano per indicare commercianti originari della Carnia che, a partire dal XVII secolo, viaggiavano in giro per l’Europa vendendo i loro prodotti] ho pensato ai venditori ambulanti della mia Bosnia e alle loro carovane dell’epoca preottomana di cui un’estate lontana – ah, non ricordo che anno fosse! – mi aveva parlato un frate del monastero di Kreševo. Annarita mi consiglia di visitare anche la Casa Tiridin, costruita nel XVII secolo, un bellissimo esempio dell’architettura carnica di quel periodo, caratterizzato dalla presenza di archi e logge. Nell’edificio visse un cramar, chiamato appunto Tiridin, che riuscì ad arricchirsi svolgendo il suo faticoso mestiere, e questo grazie al fatto di aver ottenuto l’autorizzazione per la vendita di “pillole miracolose e medicine magiche” a Vienna. Quindi, Tiridin era un sorestant [termine friulano che significa capo, potente, autorità], membro di un’élite benestante a cui appartenevano medici, notai, preti, ma anche alcuni commercianti che fornivano legname da costruzione alla Serenissima.

Annarita parla anche di quelli che io chiamo običnjakovići [termine serbo-croato per indicare persone comuni], il cui modo di vivere e lavorare è testimoniato dalla presenza, nella città di Cercivento, di una vecchia fucina e un mulino che hanno conservato il suo aspetto originale fino ai giorni nostri. Nei tempi antichi anche l’argilla fu molto utilizzata in queste zone.

Poi vi è la tradizione popolare legata all’uso delle erbe, una tradizione talmente lunga che Annarita potrebbe parlarne fino a notte inoltrata. Oggi a Cercivento c’è una cooperativa sociale che custodisce questa antica tradizione. In passato le conoscenze legate alle erbe si intrecciavano con gli antichi riti religiosi tramandati nei secoli (come, ad esempio, la benedizione del mazzo di fiori di San Giovanni). Sì – afferma Annarita – le conoscenze legate alle erbe venivano tramandate di generazione in generazione allo stesso modo in cui la tradizione dei canti sacri viene mantenuta viva dalla Cantoria di Cercivento. Ancora oggi, ogni 31 dicembre, i cantori di Cercivento girano per la loro città, passando di casa in casa eseguendo il tradizionale canto del “Gesù cjamin”.

Dopo aver taciuto per un po’, Annarita mi spiega che ormai da una decina di anni a Cercivento esiste una struttura privata per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, che si occupa anche della promozione dell’inclusione sociale dei giovani migranti. Dal suo sguardo intuisco l’essenza, inespressa, delle sue parole: “Le brave persone fanno quello che possono. E gli altri? Non parliamone ora”.

Chiedo ad Annarita di dirmi qualcosa di più sulla “Madonna sulla neve”. Riporto qui di seguito le sue parole.

“Ho studiato arte e architettura, ma ormai da anni svolgo un lavoro ‘invisibile’ come addetta alla contabilità presso una scuola pubblica. Tuttavia, ad oggi ho curato anche numerose mostre e organizzato vari eventi culturali. A spingermi a dedicarmi a queste attività è la passione, ma anche il rispetto nei confronti del lavoro artistico. Così ho l’occasione di conoscere persone genuine e umane e queste esperienze mi rendono felice... Sono rimasta sconcertata dalla notizia [1] riguardante una giovane donna migrante che ha partorito in un bosco vicino ad Acquaviva dei Vena (Rakitovec), nei pressi di Capodistria. Con questo dipinto ho voluto rendere omaggio alla grande forza di quella donna e del suo bambino, ma soprattutto riflettere sulle condizioni in cui la giovane donna si trovava mentre dava alla luce il suo bambino. Ho sentito il peso della responsabilità di fronte alla grande domanda: ‘Chi siamo noi, donne e uomini di oggi?’. Chiedendomi, ovviamente, anche quale futuro spettasse a quella donna ignota. Ho voluto realizzare quel dipinto nel periodo immediatamente precedente al Natale. Non potevo fare a meno di chiedermi quanti ‘Cristi’ a noi sconosciuti fossero nati in situazioni segnate da povertà e tragedie...”.

“Il mio dipinto è privo di ambizioni estetiche, il suo obiettivo è quello di mettere alla prova la mia coscienza e quella dello spettatore. Ho utilizzato materiali a me vicini. Ho realizzato il dipinto nel novembre 2021 sulla base di alcuni disegni fatti in precedenza. L’ho eseguito con acrilici su una lastra di cartongesso, usando i colori primari arricchiti con il colore oro. Infine ho aggiunto un foglio di carta su cui c’è quella scritta. Questo dipinto è frutto della mia immaginazione. In fin dei conti, è l’unico linguaggio che conosco. L’importante è che ci comportiamo in modo corretto e che ogni giorno, nel nostro piccolo, pratichiamo certi principi”.

“Per me la pittura e il disegno rappresentano anche un modo di riflettere sulla realtà. Cerco di approfondire alcune questioni attraverso una rilettura dei fatti di cronaca e delle notizie che mi colpiscono. Ti invierò via email alcuni miei dipinti e disegni: un soldato bosniaco che, al ritorno dal fronte, trova la sua casa devastata e vuota, e comincia a piangere abbracciando un albero nel suo giardino; i bombardamenti su Gaza, la vittoria dei talebani in Afghanistan. Oltre a queste questioni con cui ci confrontiamo quotidianamente e che mettono alla prova la nostra coscienza, mi interessano anche le questioni legate al passato. Qualche anno fa ho trovato una fotografia – credo risalga agli anni Quaranta – che mostra un bambino in una discarica, poi ho deciso di inserirla in alcuni miei disegni cercando così di affrontare la forte sensazione di abbandono che mi sommergeva guardando quella immagine”.

“Ho deciso di collocare quel dipinto [raffigurante la donna col bambino] in un bosco vicino a casa mia. Le lastre di cartongesso sono fragili, ma cercherò di aggiungere a quel dipinto anche altre mie opere. Lì nel bosco. La vedo come una microgalleria, frutto della mia fiducia nelle persone e nella loro prontezza a intraprendere un pellegrinaggio laico, per riflettere, in solitudine, su se stessi, sugli altri, sull’arte...”.

Infine siamo tornati ad osservare brevemente la “Madonna sulla neve”, per poi salutarci.

“Arrivederci!”

“Arrivederci!”

Quel giorno di dicembre mi sono ritrovato, del tutto inaspettatamente, in una delle tante – seppur invisibili – microscuole, italiane ed europee, di empatia che invitano alla solidarietà con gli ultimi del Mondo. Scuole che si trovano lontano dai muri di filo spinato europei, lontano dal gelido pragmatismo politico e dalla retorica utilizzata dai difensori di turno delle piccole Heimat e delle anime e menti ancora più piccole, lontano dall’indifferenza e dall’ipocrisia di cui soffre la maggior parte dei cittadini europei di oggi. Pochi sono riusciti a intuire il futuro in modo così intenso e profetico come ha fatto Želimir Žilnik nel suo documentario “Tvrđava Evropa” [Fortezza Europa] del 2001. Davanti a quella fortezza, gli altri e i diversi, colpiti dalla tragedia della guerra, aspettano a lungo per farvi ingresso, e a volte rimangono fermati per sempre alle porte dell’Europa. E a noi non frega niente del fatto che siamo complici delle guerre da cui quelle persone fuggono, guerre di cui i potenti hanno tanto bisogno per soddisfare i loro interessi. Chi fugge dalla guerra lo fa in nome della vita e della speranza, cercando di raggiungere un altrove.

Un simile percorso affrontò anche quella giovane donna di Nazareth, il cui figlio divenne non solo il principale simbolo di una religione, ma anche un importante punto di riferimento dell’etica della civiltà europea. Ha ragione quel filosofo italiano che sostiene che – a prescindere dal fatto che siamo credenti o atei – Cristo e la sua nascita si pongono come un metro di giudizio per misurare la nostra consapevolezza e coscienza, anche tra montagne di pandori e panettoni, disperse nella fatuità delle feste natalizie ormai commercializzate.

I negozi sono stracolmi di merce, una moltitudine infinita di potenziali regali – regali che ormai da tempo sono stati svuotati dal loro significato originario – ma, in mezzo a quell’abbondanza, viene da chiedersi cosa portiamo nell’anima? Cosa custodiamo nella nostra anima e, per parafrasare Primo Levi, nelle nostre case riscaldate, a prescindere dal fatto che siamo credenti, indecisi tra fede e scetticismo o atei impenitenti? Una domanda che dovremmo porci ogni volta che davanti alle porte della nostra Europa unita giunge una Maria, come quella trovata a Rakitovec, in un bosco in mezzo alla neve. Una donna che, per arrivare fino alla nostra Fortezza, ha percorso una strada troppo lunga. L’Afghanistan è lontano, ma ai migranti l’Europa sembra ancora più lontana quando, giunti alla fine della rotta balcanica, si imbattono in un muro bulgaro, ungherese, sloveno o polacco.

Chi ha salvato quella giovane donna aveva un volto umano, provava un senso di pietà. Per favore, leggete quella breve notizia riportata nella nota a piè di pagina.

Dove si trova oggi quella donna senza nome? Come vivono lei e suo figlio?

Annarita S. De Conti ha voluto mettere in luce la storia di una donna migrante – storia che racchiude in sé tutte le storie migranti – e lo ha fatto con modestia, entro i limiti delle sue capacità umane, utilizzando linee e colori dell’empatia. La sua Madonna è immersa nella neve che emana una certa serenità, ma la sua coltre bianca non può nascondere le ombre delle nostre ipocrisie.

Se non fossimo così ipocriti, quel migrante iraniano di nome Mehdi rimarrebbe imprigionato per ben nove anni nel Park Hotel di Melbourne, nell’Australia “democratica”, senza essere riconosciuto colpevole di un reato?

 

[1] Drammatico salvataggio nella mattinata di domenica ad opera della polizia di Capodistria. Dalla località periferica di Acquaviva dei Vena (Rakitovec), nel comune di Capodistria, al confine con la Croazia, è giunta al centro operativo la chiamata di un cittadino che riferiva di aver accolto due migranti. Dai loro racconti è venuto a conoscenza del fatto che nel vicino bosco erano nascosti altri otto clandestini, tra i quali una puerpera che aveva appena partorito. Con l’aiuto dell’esercito sloveno e grazie alla localizzazione delle chiamate le persone bisognose d’aiuto sono state soccorse con l’ausilio anche dei Vigili del fuoco. La giovane madre con il suo bambino sono stati ricoverati all’Ospedale di Isola e le loro condizioni non destano preoccupazione. Il gruppo dei migranti era composto da quattro cittadini iraniani e altri sei afgani. Lo stesso giorno, ma qualche ora più tardi, le forze dell’ordine rinvenivano nei pressi del Castello di San Servolo una cittadina marocchina con un bambino di pochi mesi, nato in territorio bosniaco, nei pressi di Bihać. Tutti i fermati hanno chiesto tutela internazionale e sono stati affidati ai servizi sociali per l’assistenza del caso. Recentemente la polizia aveva salvato da morte certa un gruppo di migranti intrappolati dalla neve nell’area boschiva di Villa del Nevoso. (Nell’entroterra di Capodistria: migrante partorisce nel bosco, La voce del popolo, 22 dicembre 2020)


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