Mentre gli otto signori della Terra si riunivano nel cuore blindato di Genova, in Macedonia le armi riprendevano il sopravvento sul dialogo. Quasi ad avvalorare l'idea che in fondo i Balcani siano "altro" rispetto ai processi della globalizzazione, un'area di crisi certamente nell'agenda del G8 ma rispetto alla quale l'impegno e il disimpegno delle maggiori potenze industrializzate del pianeta venisse misurato sul piano militare piuttosto che nella malcelata idea che in quell'area ognuno gioca per sé.Un mondo a parte, per usare l'espressione di Gustaw Herling, rimasto tale anche dopo l'89 per la funzionalità della destabilizzazione ai processi di accumulazione senza regole e di finanziarizzazione dell'economia. Oppure per non turbare schemi consolidati e pigrizie culturali.
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione i tradizionali punti cardinali hanno assunto un significato diverso, il mondo non è più diviso fra nord e sud, fra paesi ricchi e paesi poveri o impoveriti. Nella "globalizzazione reale" si sono delocalizzate le disuguaglianze e le grandi contraddizioni del presente per cui il sud è nel nord e viceversa, est e ovest si confondono (nel rincorrere il mercato, tanto per fare un esempio). E dentro questa nuova dislocazione a-spaziale e a-temporale delle economie (ma per non sbagliarsi sostenuto da un accentuato controllo politico e militare nelle aree considerate strategiche), il sud est europeo assume un ruolo tutto particolare (e indicibile), tutt'altro che favorevole alla prospettiva dell'integrazione europea.
Di questa partita, che fa dei Balcani uno dei simboli della modernità, non sembra affatto esserci consapevolezza. Evidentemente, dieci anni di guerra e di deregolazione selvaggia nell'est europeo non sono serviti a mettere a fuoco il significato profondo di quegli avvenimenti.
Un ritardo di analisi che sembra prevalere anche nei commenti che dai paesi dell'area balcanica vengono sul summit di Genova, dall'atteggiamento che emerge dai media bosniaci, quasi a rivendicare col cappello in mano la possibilità di essere parte di un processo del quale non ci si accorge di essere (ahimè) protagonisti; all'approccio quasi rancoroso dei media croati, dopo aver preso atto che la quarantena durerà ancora a lungo, affidandosi nel giudizio sul vertice del G8 - non senza ipocrisia - alla critica vaticana verso il mondo dei ricchi; al più maturo e distaccato atteggiamento dei media serbi, dove prevale una lettura più politica e fortemente critica verso la natura di una globalizzazione concepita come strumento di delegittimazione delle sovranità nazionali.
Ne esce un quadro che se riflette molto bene gli stati d'animo dei contesti nazionali, non sembra percepire che nei Balcani la globalizzazione è il presente ed ha la faccia che abbiamo conosciuto nella tragedia balcanica di questi anni. Una riflessione che deve investire anche lo stesso movimento "no global", che purtroppo poco ha coinvolto finora i possibili interlocutori del sud est Europa.
Eppure nei Balcani esistono già gruppi e associazioni della società civile che in questi anni si sono attivati sul piano del dissenso alla guerra e alle politiche di regime, della difesa dei diritti dei gruppi socialmente ed economicamente più deboli, della difesa dell'ambiente, benché solo una piccola rappresentanza di essi partecipi alla rete che da Seattle a Genova ha raccolto le molte anime critiche verso questa globalizzazione. Qualcosa dunque comincia a muoversi, tanto che negli ultimi giorni in Croazia si è costituito il movimento HAG anti-global.
Anche nel ragionamento sui temi della globalizzazione è dunque possibile immaginare un percorso comune "dal basso" che rompa l'isolamento dei Balcani dall'Europa e dal resto del mondo. E anche a partire da quest'ultima considerazione nasce la proposta di collocare qui, in una delle grandi capitali dell'est europeo, una delle prossime sessioni del World Social Forum.

Fonti: Lino Veljak da Zagabria, Ada Sostaric da Belgrado, Dario Terzic da Mostar

31/07/2001 -  Michele Nardelli

Mentre gli otto signori della Terra si riunivano nel cuore blindato di Genova, in Macedonia le armi riprendevano il sopravvento sul dialogo. Quasi ad avvalorare l'idea che in fondo i Balcani siano "altro" rispetto ai processi della globalizzazione, un'area di crisi certamente nell'agenda del G8 ma rispetto alla quale l'impegno e il disimpegno delle maggiori potenze industrializzate del pianeta venisse misurato sul piano militare piuttosto che nella malcelata idea che in quell'area ognuno gioca per sé.Un mondo a parte, per usare l'espressione di Gustaw Herling, rimasto tale anche dopo l'89 per la funzionalità della destabilizzazione ai processi di accumulazione senza regole e di finanziarizzazione dell'economia. Oppure per non turbare schemi consolidati e pigrizie culturali.
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione i tradizionali punti cardinali hanno assunto un significato diverso, il mondo non è più diviso fra nord e sud, fra paesi ricchi e paesi poveri o impoveriti. Nella "globalizzazione reale" si sono delocalizzate le disuguaglianze e le grandi contraddizioni del presente per cui il sud è nel nord e viceversa, est e ovest si confondono (nel rincorrere il mercato, tanto per fare un esempio). E dentro questa nuova dislocazione a-spaziale e a-temporale delle economie (ma per non sbagliarsi sostenuto da un accentuato controllo politico e militare nelle aree considerate strategiche), il sud est europeo assume un ruolo tutto particolare (e indicibile), tutt'altro che favorevole alla prospettiva dell'integrazione europea.
Di questa partita, che fa dei Balcani uno dei simboli della modernità, non sembra affatto esserci consapevolezza. Evidentemente, dieci anni di guerra e di deregolazione selvaggia nell'est europeo non sono serviti a mettere a fuoco il significato profondo di quegli avvenimenti.
Un ritardo di analisi che sembra prevalere anche nei commenti che dai paesi dell'area balcanica vengono sul summit di Genova, dall'atteggiamento che emerge dai media bosniaci, quasi a rivendicare col cappello in mano la possibilità di essere parte di un processo del quale non ci si accorge di essere (ahimè) protagonisti; all'approccio quasi rancoroso dei media croati, dopo aver preso atto che la quarantena durerà ancora a lungo, affidandosi nel giudizio sul vertice del G8 - non senza ipocrisia - alla critica vaticana verso il mondo dei ricchi; al più maturo e distaccato atteggiamento dei media serbi, dove prevale una lettura più politica e fortemente critica verso la natura di una globalizzazione concepita come strumento di delegittimazione delle sovranità nazionali.
Ne esce un quadro che se riflette molto bene gli stati d'animo dei contesti nazionali, non sembra percepire che nei Balcani la globalizzazione è il presente ed ha la faccia che abbiamo conosciuto nella tragedia balcanica di questi anni. Una riflessione che deve investire anche lo stesso movimento "no global", che purtroppo poco ha coinvolto finora i possibili interlocutori del sud est Europa.
Eppure nei Balcani esistono già gruppi e associazioni della società civile che in questi anni si sono attivati sul piano del dissenso alla guerra e alle politiche di regime, della difesa dei diritti dei gruppi socialmente ed economicamente più deboli, della difesa dell'ambiente, benché solo una piccola rappresentanza di essi partecipi alla rete che da Seattle a Genova ha raccolto le molte anime critiche verso questa globalizzazione. Qualcosa dunque comincia a muoversi, tanto che negli ultimi giorni in Croazia si è costituito il movimento HAG anti-global.
Anche nel ragionamento sui temi della globalizzazione è dunque possibile immaginare un percorso comune "dal basso" che rompa l'isolamento dei Balcani dall'Europa e dal resto del mondo. E anche a partire da quest'ultima considerazione nasce la proposta di collocare qui, in una delle grandi capitali dell'est europeo, una delle prossime sessioni del World Social Forum.

Fonti: Lino Veljak da Zagabria, Ada Sostaric da Belgrado, Dario Terzic da Mostar


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