Tra le leggende sull'identità del presidente jugoslavo, quella trentina rimane probabilmente la più vicina alla storia e all'identità di una comunità, diversamente dalle altre che sono spesso ispirate da complottismi di varia natura
In Trentino si trova una valle dove il cognome Broz risulta particolarmente diffuso. Tra quelle montagne, nella seconda metà del Ventesimo secolo ha preso forma una singolare leggenda. Siamo in Vallarsa, a pochi chilometri dalla cittadina di Rovereto, dove secondo molti valligiani vanno cercate le origini di Josip Broz, passato alla storia con il soprannome di Tito. Il Maresciallo jugoslavo fu tra le personalità più singolari e discusse del Novecento: leader partigiano, capo di uno stato comunista che ruppe con l'Unione Sovietica, figura riconosciuta della scena internazionale, ma soprattutto guida e simbolo di quel paese dissoltosi in modo cruento non molti anni dopo la sua morte. Eppure del legame tra questo personaggio e la valle si parla da tempo e non solo in Trentino, tanto che oggi anche la pagina italiana di Wikipedia dedicata a Tito lo presenta come “settimo dei quindici figli di Franjo, croato di probabili origini della Vallarsa”.
La versione di Obra
Il racconto prende piede nella zona di Obra, abitato della Vallarsa, dove esiste una frazione denominata Brozzi e si dice che il cognome sia presente da centinaia di anni. Tramandata oralmente e diffusasi in modo sparso, la leggenda prende spesso forme e contorni mutabili. Esiste tuttavia una versione più o meno codificata. Si narra che la famiglia del futuro presidente jugoslavo vivesse presso Maso Geche, abitazione leggermente isolata rispetto all’abitato di Obra e alle sue frazioni. La vecchia costruzione venne rilevata da Valentino Broz, (“nonno di Tito”), che ne fece il casolare di famiglia. Valentino ebbe quattro figli. Uno di loro morì in tenera età, mentre Ferdinando, Giuseppe e Vigilio, cominciarono a contribuire al sostentamento della famiglia con l’impegno in campagna e come boscaioli, integrando per quanto possibile con lavori occasionali. Come in tutte le famiglie della zona, l’emigrazione rimaneva all’epoca un’opzione aperta.
I registri parrocchiali confermano con precisione la struttura della famiglia di Valentino Broz. Sono invece i ricordi tramandati ormai da alcune generazioni a sostenere che Giuseppe (secondo gli archivi Giuseppe Filippo Broz, nato il 29 agosto 1853) e Ferdinando (Luigi Ferdinando Broz, nato il 13 aprile 1848) – o secondo altre ricostruzioni Vigilio (Vigilio Andrea Broz, nato il 27 novembre 1843) – emigrarono dalla Vallarsa alla Croazia tra gli anni settanta e ottanta del XIX secolo. Secondo i più nel 1878 o nel 1879. All’epoca, entrambi i territori facevano parte dell’Impero asburgico e in quegli stessi anni la spinta migratoria portava gruppi di trentini a trasferirsi nei territori orientali dell’Impero. La vicenda della fondazione di Štivor, in Bosnia Erzegovina, è probabilmente la più nota. Secondo i racconti, i due contadini sarebbero stati spinti a partire dalla possibilità di lavorare alla ferrovia Vienna-Zagabria-Sarajevo. Effettivamente, in quegli anni si costruiva la nuova strada ferrata volta a collegare Bosanski Brod a Sarajevo, il primo tratto venne inaugurato nel febbraio del 1879, mentre l’ultimo nell’ottobre 1882.
Dopo qualche tempo Ferdinando (o Vigilio) sarebbe rientrato in Vallarsa, mentre Giuseppe avrebbe sposato una ragazza slovena, dando alla luce nel 1892 Josip Broz, divenuto noto nel mondo con il nome di Tito. Le notizie sulla sorte di Giuseppe avrebbero raggiunto quindi la valle, soprattutto grazie alle informazioni riportate dal fratello rientrato in paese.
Tito tra storia e complottismo
La leggenda della Vallarsa non rappresenta certamente un caso isolato. Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale in Jugoslavia e non solo cominciarono a circolare speculazioni sull'origine russa, polacca, austriaca o ebraica di Tito. La sua vicenda biografica, contraddistinta fin dalla gioventù dall'attività clandestina nel Partito comunista, da spostamenti repentini e dall'utilizzo di nomi falsi forniva il terreno ideale per la proliferazione di leggende e teorie complottiste. I dubbi sull'effettiva identità del Maresciallo, diffusisi soprattutto nel corso degli anni Novanta, hanno recentemente trovato nuovo slancio per via di alcuni documenti declassificati della CIA che mettevano in dubbio l'effettiva padronanza del serbo-croato da parte del Maresciallo.
Al di là delle decine di articoli e della pubblicistica, la questione non è tuttavia mai stata oggetto di una vera e propria indagine storiografica. Nessuno studioso che si sia occupato seriamente di Jugoslavia ha mai dimostrato particolare interesse per tali questioni. Anche le più recenti biografie di Tito, pubblicate da storici di riconosciuta fama come Geoffrey Swain e Jože Pirjevec, non ritengono necessario nemmeno fare riferimento alle diverse voci, riproponendo la versione tradizionale sulle origini di Tito. Josip Broz era figlio di Franjo Broz, croato di Kumrovec nello Zagorje e di Marija Javeršek, originaria del paesino sloveno di Podsreda. L'unica parziale eccezione è rappresentata dalle considerazioni riportate da Vladimir Dedijer nel suo monumentale lavoro biografico sul Maresciallo del 1981. L'ex membro del Partito comunista jugoslavo, epurato ai tempi dell'affare Đilas e divenuto storico di professione, si preoccupa nella sua indagine di smentire le diverse voci sulle origini di Tito che avevano ripreso vigore in seguito alla sua morte nel maggio del 1980.
Nascita e vita di una leggenda
Tra le precisazioni fornite da Vladimir Dedijer nel suo libro si trova anche il riferimento al caso trentino, che proprio alcuni mesi prima era stato rilanciato in Italia da un articolo pubblicato dal settimanale “Gente”. L’articolo era uscito a pochi giorni dalla morte di Tito, riprendendo le voci tramandate in forma orale negli anni precedenti. Secondo alcuni già dai tempi della Seconda guerra mondiale, quando il nome Josip Broz cominciò a trovare spazio sui giornali di mezzo mondo. Oltre alle fotografie della valle e di Maso Geche, l’articolo riportava le parole dei discendenti della famiglia di Valentino Broz. Un ruolo di primo piano veniva svolto in quella fase dall’allora anziano parroco di Vallarsa, Don Giuseppe Rippa, che partecipò alla maggiore definizione dei contorni della vicenda con apposite ricerche nei registri parrocchiali, contribuendo a consolidarne la credibilità.
È possibile che Vladimir Dedijer fosse venuto a sapere della leggenda trentina per via dell’attenzione alla vicenda dedicata dalla stampa della minoranza italiana in Jugoslavia. Poco dopo l’uscita dell’articolo su “Gente”, infatti, il settimanale “Panorama” di Fiume, si interessa alla vicenda, inviando una troupe in Vallarsa per capirne di più. I fiumani parlano con Don Rippa, si confrontano con personalità locali come Sandra Frizzera, studiano i registri parrocchiali, ma concludono che non vi sono prove del legame tra Broz trentini e jugoslavi. Vladimir Dedijer da parte sua risponde fornendo l’albero genealogico di Tito, realizzato da Andrija Lukinović - studioso dell’archivio storico di Zagabria - sulla base dei registri parrocchiali ancora conservati. I dati disponibili ricostruiscono la genealogia della famiglia Broz di padre in figlio dall’inizio del XVII secolo, quando cominciano ad essere tenuti i registri a Kumrovec. Sul periodo precedente Dedijer resta naturalmente cauto, ma riporta le voci che parlano di origini in Bosnia, Erzegovina, Spagna, Istria, Francia e perfino in Italia. Parliamo comunque di un eventuale insediamento nello Zagorje risalente a più di 400 anni fa.
Queste informazioni tuttavia non giungono in Trentino, anzi si diffonde la voce che non si trovino tracce del cognome Broz in tutta la Jugoslavia. Gli stessi eredi della famiglia di Valentino Broz continuano a rilasciare interviste nelle quali si soffermano su vicende e aneddoti di famiglia. Si racconta inoltre del passaggio di rappresentanti jugoslavi a Obra e di una visita segreta forse da parte dello stesso Tito. In molti casi articoli di giornale e reportage fanno riferimento persino a prossimità fisionomiche: i lontani parenti avrebbero un’“impressionate rassomiglianza” con il leader jugoslavo.
Nel 1984, nell’ambito del “Comitato popolare di Obra di Vallarsa” si decide di istituire un’apposita commissione composta da storici locali, giornalisti e dal sindaco di allora, decisi a dare una risposta definitiva alla questione attraverso ricerche e indagini accurate. Non si giunge tuttavia a una risposta definitiva o a una prova concreta. Tito era o non era trentino? Negli anni continuano a circolare le stesse informazioni, ma il racconto in qualche modo si consolida.
È in questa fase che si giunge inoltre a un riconoscimento pubblico sempre più autorevole. Una personalità di primo piano a livello nazionale come il politico Flaminio Piccoli, ad esempio, arriva ad affermare pubblicamente la “trentinità” degli avi di Tito nel corso di un convegno romano del 1991. L’esponente trentino della DC del tempo afferma di avere “grande rispetto” nei confronti del Maresciallo in quanto “il bisnonno era un trentino, originario della zona di Rovereto”. La vicenda si deforma un’altra volta– non è il padre ma il bisnonno di Tito ad essere trentino – ma viene riportata da un politico di primo piano, che aveva conosciuto di persona il leader jugoslavo.
Al processo di costruzione della credibilità della leggenda contribuisce lo spazio che le viene dedicato nelle diverse pubblicazioni dedicate all’emigrazione trentina, tema che a partire da quegli stessi anni raccoglie interesse sempre maggiore. Già nel 1984 Bonifacio Bolognani – francescano e studioso trasferitosi negli Stati Uniti – accenna alla vicenda in una storia dell’emigrazione trentina pubblicata in inglese. Sono quindi gli stessi scrittori e storici locali a riproporre la storia: Daniela Stoffella ne parla nel suo libro sull’emigrazione dalla Vallarsa, mentre Renzo Grosselli riporta le voci in un lavoro sugli emigranti trentini che gode di grande diffusione. Remo Bussolon e Aldina Martini la rilanciano poi nel principale lavoro sulla storia della valle. Ma alle radici trentine di Tito si arriva a fa cenno perfino in saggi accademici internazionali (Frédéric Spagnoli, 2009). Si tratta di pubblicazioni più o meno precise, dove non mancano le cautele, ma che spesso citandosi tra loro contribuiscono in qualche modo a rafforzare l’autorevolezza della leggenda.
Nel frattempo è la stessa sezione locale della Rai a parlarne, con servizi che rilanciano periodicamente la vicenda. Nel 2008 viene dedicato uno speciale che porta per la prima volta i trentini a sentire l’altra campana, in Croazia. La troupe parte alla volta di Kumrovec, dove visita la casa natale del leader jugoslavo, verifica i registri parrocchiali, conosce la storia della famiglia e la figura del “padre croato” Franjo Broz. La porta però viene lasciata aperta: “è possibile che Marija abbia sposato il croato Franjo in seconde nozze?” Ovvero dopo la nascita di Tito e la morte del trentino Giuseppe Broz? Nell'estate 2015, la visita in Vallarsa della nipote del Maresciallo, Svetlana Broz, invitata a presentare il suo lavoro sulle guerre jugoslave nell’ambito di un festival culturale, diventa occasione per un confronto diretto sulla vicenda. Incalzata nel corso di un’intervista , Svetlana Broz risponde in modo vago e conciliante, sostenendo che “questa teoria è solo una teoria: ho prove documentate che mio nonno è nato esattamente nel villaggio croato di Kumrovec, come riporta la sua biografia ufficiale. Non posso però né negare né confermare niente riguardo ai suoi antenati”. In tali spazi di ambiguità la leggenda continua ad essere tramandata in Trentino. Raccontata e ripetuta soprattutto a livello locale, non manca però di riemergere anche nel resto del paese.
Una storia trentina e jugoslava
Tra le leggende sull'identità del presidente jugoslavo, quella trentina rimane probabilmente la più vicina alla storia e all'identità di una comunità, diversamente dalle altre, spesso ispirate da complottismi di varia natura. Rievoca la storia non facile di un territorio segnato radicalmente dal fenomeno migratorio. È paradigmatica della più ampia storia dell'emigrazione trentina di fine Ottocento e della sua pervasività nelle memorie collettive di queste valli. La sua diffusione fuori dai confini della Vallarsa a partire dagli anni Ottanta in qualche modo si accompagna alla sempre maggiore apertura del territorio trentino al contesto internazionale e al rafforzamento della consapevolezza del proprio “posto nel mondo”. Soprattutto, sembra parte di un processo di rielaborazione del trauma della migrazione che ha segnato fortemente le comunità di questo territorio: la ricomparsa di figli lontani illustri può aiutare a dare un senso a quella perdita.
Al contempo la leggenda fa riflettere sull'immagine della Jugoslavia socialista all’estero, sull’evoluzione della sua percezione in Italia e tra gli abitanti di una valle tra le più remote del Trentino. Considerato paese ostile nell’immediato dopoguerra, diviene vicino sempre più familiare nei decenni successivi, tanto da rendere i legami con i leader del paese socialista tema di pubblico interesse. In Vallarsa, nel maggio del 1980, si parla di una diffusa commozione per la morte di Tito, in quei giorni persino il parroco arriva a “recitare una preghiera anche per Josip Broz”. Interrogato sulla figura del Maresciallo alcuni anni dopo, un altro valligiano sottolinea il cambiamento di percezione: “non si riesce a conciliare le vicende oscure e sanguinose del suo esordio, l'ambizione, la voglia di potere, il settarismo e la violenza del primo Tito con il politico accorto e prudente, magnanimo verso gli avversari che fu il secondo Tito”.
Le origini trentine del Maresciallo jugoslavo restano leggenda. In tutti questi anni non è emerso nulla che provi come quel Giuseppe Broz, partito verosimilmente per lavorare tra Croazia e Bosnia, sia divenuto il Franjo Broz che diede i natali a Tito. Mentre resta sostanzialmente inconfutata la versione ufficiale. Ma come tutte le leggende, al di là dell’aderenza alla realtà, anche quella su Tito “trentino” ci immerge tra le percezioni, gli immaginari e le memorie che si depositano sull’intreccio tra storie di vita personali, vicende locali e “Grande storia”.
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