Immagine della folla con bandiere arcobaleno a Pride di Sarajevo lo scorso anno (foto © camobor/Shutterstock)

Il Pride di Sarajevo lo scorso anno (foto © camobor/Shutterstock)

Per questioni di sicurezza sanitaria il Pride sarajevese di quest'anno ha cancellato il corteo per le vie della città. Alcune iniziative si sono però svolte ugualmente, ed hanno rappresentato un'occasione di riflessione

29/09/2020 -  Alfredo Sasso

“Nessuno deve nascondere l’amore e vivere dentro quattro mura”: l’attivista Lejla Huremović pronunciava queste parole l’8 settembre di un anno fa, quando il corteo del primo Pride di Sarajevo aveva appena concluso la sua marcia, fermandosi davanti al palazzo del Parlamento per i discorsi finali. Quella giornata di colori e musica, di lotta e di orgoglio, era destinata a suo modo a fare storia, per tanti motivi: perché toglieva a Sarajevo il triste primato di unica capitale europea a non avere mai organizzato un Pride; perché segnava finalmente la conclusione di un ciclo pluridecennale di azioni violente – e rimaste impunite - contro gli eventi pubblici organizzati dalla comunità LGBTQ bosniaca; perché offriva una lezione di società civile, in quanto portata avanti da un gruppo di attivisti piccolo, ma straordinariamente determinato e inclusivo, rilanciato con una partecipazione del tessuto cittadino ampia e insperata alla vigilia.

Gli organizzatori del Pride avevano annunciato la seconda edizione della marcia per il 23 agosto 2020. Nel titolo, ancora una volta, vi era un riferimento alle pareti domestiche: “La vita non è tra quattro mura”. Nel comunicato , gli organizzatori collegavano questo slogan non solo agli ostacoli e alle repressioni che lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer incontrano nella società bosniaca per esprimere liberamente la propria identità, ma anche all’emergenza sanitaria che ha improvvisamente esteso all’intera popolazione la costrizione all’invisibilità, alla sospensione di socialità e affetti, all’insicurezza nello spazio pubblico.

Proprio l’esperienza del coronavirus, è l’auspicio espresso nel comunicato dei promotori del Pride, dovrebbe favorire l’empatia e la solidarietà dei cittadini bosniaci, avvicinandoli alla condizione comune delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer: “La comunità LGBTQ sa come è vivere quotidianamente nell’isolamento e nella paura di potenziali violenze. Per nessuno di noi è stato piacevole passare due mesi di isolamento tra quattro mura. Ci pensate se doveste vivere così per tutta la vita?”. Come è consuetudine, il Pride ha rilanciato un messaggio intersezionale, inclusivo di tutti i soggetti emarginati e minacciati (il comunicato citava esplicitamente la comunità rom, le persone con invalidità, i lavoratori sfruttati, i disoccupati) in un paese in cui i diritti di cittadinanza sono particolarmente limitati o segmentati. Nel documento emerge la preoccupazione che la situazione post-covid possa offrire alle istituzioni un pretesto per limitare la libertà di espressione di questi collettivi nello spazio pubblico.

L’aggravarsi della diffusione del Covid-19 in Bosnia Erzegovina quest’estate ha però costretto gli organizzatori del Pride, “in nome della responsabilità e della solidarietà”, a cancellare il corteo a pochi giorni dalla data prevista. Si sono comunque svolte una serie di iniziative alternative: lo stesso 23 agosto una fila di auto  con le bandiere arcobaleno percorreva le vie centrali di Sarajevo, mentre una campagna online veniva pubblicata su siti e sui profili social del Pride e dei diversi collettivi LGBTQ del paese, con dibattiti, testimonianze e performance. In una serie di video raccolti sul canale youtube del Pride , gli attivisti hanno chiesto ai cittadini di Sarajevo di leggere i racconti anonimi di esperienze quotidiane delle persone LGBTQ, e in particolare degli ostacoli che incontrano tra società, famiglia e istituzioni.

“Ho la sensazione che gli operatori sanitari condividano tra di loro le informazioni più intime sui loro pazienti. Come uomo gay, in passato i dottori mi chiedevano se fossi fidanzato con un uomo o una donna. Poi mi deridevano e mi facevano domande che non avevano a che fare con i miei problemi di salute. Si comportavano come se la causa dei miei problemi di salute fosse l’omosessualità. Per me ogni visita medica è causa di nuovo stress e timore di subire outing forzato”, è il messaggio letto dalla giornalista Mersiha Drinjaković. Altre testimonianze rivelano il persistente livello di esclusione sociale e legale: “La mia partner e io abbiamo provato ad aprire un mutuo, ma nessuna banca ci riconosce come coppia. Non abbiamo nessun beneficio, perché non siamo riconosciute come un’unione legittima”. “Durante qualunque colloquio di lavoro controllo ogni parola e movimento, tono di voce, così da non rivelare il mio orientamento sessuale. Ma molte volte questo è stato intuito, e subisco insulti e offese”. “Tante volte vorrei portare il mio compagno in un noto locale dove c’è la musica che ci piace ascoltare. Ma in quel locale non ci sentiamo sicuri, perché quello è il luogo di ritrovo della gente che ci disprezza. La sensazione di non essere accettati è costante”.

Cambiamento lento

Dunque non è cambiato proprio nulla, in questi dodici mesi? In verità qualche flebile segnale positivo in campo istituzionale c’è stato, anche se ancora insufficiente a garantire tutele concrete e cambiamenti sostanziali. Alla vigilia del secondo Pride il governo del cantone di Sarajevo aveva garantito sostegno all’iniziativa, con il premier Mario Nenadić che si era impegnato a “migliorare gli standard di difesa dei diritti umani dei cittadini”: sembrava un timido ma significativo passo in avanti, anche rispetto alle incertezze con cui un anno fa si era mosso il precedente esecutivo cantonale (che peraltro all’epoca era di orientamento prevalentemente progressista, mentre quello attuale è moderato-conservatore).

Qualche mese prima il governo della Federazione di BiH, una delle due entità amministrative autonome che compongono la Bosnia Erzegovina, aveva rilanciato la proposta di regolarizzare le unioni civili tra coppie omosessuali. L’istanza era stata approvata dall’esecutivo nell’ottobre 2018, ma era rimasta insabbiata da allora. Nell’aprile 2020 è stato finalmente nominato il gruppo di lavoro incaricato di preparare la legge, che include ONG di supporto ai diritti LGBTIQ, come il Sarajevo Open Centre (SOC). Poi però è sopraggiunta l’emergenza Covid-19: il gruppo di lavoro ha subito sospeso la propria attività e non è chiaro quando riprenderà.

In un’intervista per Radio Slobodna Evropa, dal SOC commentano che il cammino per la legge sarà ancora lungo, per le inerzie dentro l’amministrazione e le resistenze nell’opinione pubblica. Secondo sondaggi effettuati dal SOC, oltre il 70% dei bosniaci non sarebbe favorevole alle unioni civili. Ma è pur sempre un inizio. Si parla di timidi segnali positivi, almeno dietro le quinte, anche in Republika Srpska, l’altra entità della Bosnia Erzegovina. Tuttavia il governo di Banja Luka non ha ancora preso un’iniziativa e difficilmente lo farà a breve. Il clima socio-politico dominante in RS è saldamente modellato attorno al tradizionalismo clericale e patriarcale, garantito dall’egemonia dell’ultra-conservatore SNSD, unico partito al potere da quasi quindici anni.

Né il clima in Federazione di BiH appare più agevole. Quando ad agosto fu comunicato l’annullamento del Pride, hanno causato polemiche le posizioni di Muhamed Velić, imam della moschea di Ferhadija nel centro di Sarajevo e figura pubblica con un certo seguito. Sul suo profilo FB Velić aveva ringraziato Allah affermando, con riferimento alla pandemia, che “in ogni tragedia c’è un po’ di fortuna”. Queste parole sono state immediatamente denunciate dai sostenitori del Pride alla stregua di un discorso d’odio, ma hanno ottenuto anche un diffuso apprezzamento nella base sociale conservatrice musulmana. Dopo alcuni giorni, la Comunità Islamica bosniaca ha preso le distanze da Velić, affermando che “non ne rappresentava” l’orientamento.

Quella della Comunità è una posizione interlocutoria, che ricorda quella assunta alla vigilia del primo Pride, quando ne criticò la realizzazione, ma allo stesso tempo si pronunciò esplicitamente contro i discorsi d’odio e qualunque atto di violenza ai sostenitori dell’evento. Gli stessi attivisti del Pride hanno osservato che negli ultimi anni vi è qualche sporadico e implicito segnale di apertura verso la pluralità, sia dagli alti vertici religiosi quanto tra singoli imam e membri del clero. Un pronunciamento stabilmente conciliante da parte della Comunità, però, non è ancora arrivato.

Così come nelle istituzioni, anche nella società profonda si manifestano segnali contrastanti. Tra le voci dei diversi collettivi e individui LGBTQ della Bosnia Erzegovina, molti denunciano la persistenza di pregiudizi e oppressioni. Ed è noto che le restrizioni del lockdown hanno aumentato gli episodi di violenza verbale, psicologica e fisica, in particolare negli ambienti familiari. Dall’altra parte qualcuno esprime l’impressione che, seppure con lentezza e gradualità, qualcosa cominci a progredire nella coscienza sociale. “Il solo fatto che oggi parliamo pubblicamente di questi problemi è qualcosa che sarebbe stato inimmaginabile alcuni anni fa”, spiega Goran, trentenne omosessuale di Sarajevo.

L’esperienza virtuosa del Pride sarajevese è indubbiamente un fattore importante per incoraggiare il cambiamento, così come lo è la serie, lenta ma costante, di sviluppi per i diritti LGBTQ nella regione post-jugoslava. In Montenegro, dopo un lungo iter il Parlamento ha approvato lo scorso luglio la legge sulle unioni civili che entrerà in vigore il prossimo anno. In Croazia, dove le unioni civili sono realtà da diversi anni, lo scorso febbraio una storica sentenza della Corte costituzionale ha riconosciuto alle coppie omosessuali il diritto all’affido. I collettivi LGBTQ della Bosnia Erzegovina, così come quelli di Serbia, Kosovo e Macedonia del Nord, lottano con determinazione sullo stesso cammino.


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