Svetozar Ćorović

Svetozar Ćorović

Nel centro di Mostar, in Bosnia Erzegovina, c'è un edificio a due piani, ispirato all’architettura mediterranea, massiccio, in pietra, con finestre a due archi. Oltre un secolo fa vi ospitò due importanti cittadini della città sulla Neretva: lo scrittore Svetozar Ćorović e il poeta Aleksa Šantić

12/01/2024 -  Božidar Stanišić

La casa di Ćorović – via Maresciallo Tito 178, nei pressi del Lučki most (1), uno dei nove ponti situati nel centro urbano di Mostar.

Oggi la casa di Ćorović è parte integrante del Museo dell’Erzegovina e ospita nei suoi spazi anche gli eventi organizzati dall’associazione culturale serba “Prosvjeta” [educazione, trasmissione della conoscenza]. I visitatori sono principalmente attratti dalla stanza memoriale di Aleksa Šantić (1868-1924), poeta serbo che nelle sue opere ha cantato Mostar e l’Erzegovina (oltre ad Emina, anche altre poesie di Šantić sono state musicate e a tutt’oggi suscitano ancora l’interesse del pubblico nell’interpretazione di Himzo Polovina, Jadranka Stojaković , Ibrica Jusić…)

Approfitto dell’occasione per suggerire a tutti quelli che intendono visitare la casa di Ćorović di rivolgersi al curatore Ibrahim Dizdar per ulteriori informazioni su questo edificio, su Šantić e Ćorović, e sulla vita culturale della città di Mostar a cavallo tra ‘800 e ‘900. Accompagnati dalle parole di Dizdar, ci si immerge più intensamente in quell’ambiente, osservando le numerose opere di Šantić, i suoi oggetti personali, le fotografie, la scrivania. Io sono rimasto particolarmente impressionato da una finestra della stanza in cui Šantić trascorse gli ultimi giorni della sua vita. Affacciato a quella finestra, il poeta, ormai morente, salutò il coro dell’associazione sarajevese “Sloga” [unità] che quel lontano giorno d’inverno 1924 cantò Emina in suo onore. Non perdete l’occasione di fare una passeggiata nel cortile – il Mediterraneo in miniatura. Dopo tutto quello che Mostar ha vissuto, sopravvivendo malgrado tutto, la casa è stata ricostruita e nel cortile vengono organizzati diversi eventi culturali. In quel cortile ho ascoltato a lungo le parole del curatore del museo Ibrahim Dizdar sull’amore che Šantić nutriva per la poesia di Heine, impegnandosi assiduamente anche a tradurla.

I visitatori avranno a disposizione le copie del volume Aleksa Šantić u Zbirci Muzeja Hercegovine Mostar [Aleksa Šantić nella collezione del Museo dell’Erzegovina di Mostar] curato da Ibrahim Dizdar. Il libro, realizzato con sobrietà e raffinatezza, presenta diversi documenti, fotografie, traduzioni, scambi epistolari e spartiti. Šantić partecipò alle attività dell’associazione corale serba “Gusle”, fondata nel 1888, come cantante, ma anche come maestro del coro e compositore (Non dovremmo quindi stupirci del ritmo e della musicalità dei suoi versi.) Il magico mondo delle note non era estraneo al poeta che non riusciva a stare lontano dalla sua Mostar. Recatosi a Ginevra nel 1902, vi trascorse solo qualche settimana, non potendo sopportare la vita in terra straniera, come lamenta nella poesia Ja ne mogu ovde [Qui non resisto]. Non vedeva l’ora di tornare anche dall’Italia dove, da oppositore del regime di Vienna, si rifugiò, insieme al suo caro amico Svetozar Ćorović, durante la crisi dell’annessione del 1908.

Attualmente il patrimonio museale dedicato a Ćorović è in fase di sistemazione, quindi non è ancora stato presentato al pubblico. Alcuni contenuti però sono disponibili su richiesta. A giudicare dal libro su Šantić, potremo godere anche di un ricco materiale testuale e visivo dedicato a Ćorović e allo scrittore e poeta Hamza Humo, due intellettuali mostarini a cui il museo finora ha dedicato solo alcune mostre.

No, non è colpa di Šantić se la casa di Ćorović viene principalmente associata al suo nome. Sta di fatto che oggi Šantić è molto più famoso del suo amico che in questa casa nacque e scrisse quasi tutte le sue opere.

A cavallo tra ‘800 e ‘900 Svetozar Ćorović (1875-1919) fu uno dei più importanti prosatori in Bosnia Erzegovina e una figura imprescindibile della letteratura serba. Nato da una ricca famiglia di commercianti, Ćorović, pur praticando anche lui questo mestiere, trovò la sua vera passione nello scrivere racconti, romanzi e drammi. Lasciò dietro di sé un vasto patrimonio letterario: una decina di raccolte di racconti, diversi romanzi, alcuni drammi. Era attivamente impegnato anche in politica, dando un enorme contributo alla vita culturale di Mostar (Suo figlio Vladimir fu un noto storico.)

Prima di tutto però, Ćorović fu un eccezionale osservatore di una società immersa nel vortice di profondi cambiamenti che, dopo il crollo dell’impero ottomano, e poi di quello austro-ungarico, portarono all’introduzione delle idee (mittel)europee, del tutto nuove, nell’apatico tessuto sociale ed economico di Mostar e dell’intera Erzegovina. Fu capace di percepire il tremolio dell’anima dei suoi personaggi (a prescindere – bisogna ancora sottolinearlo – dalla loro appartenenza etnica e religiosa.) Scriveva con leggerezza, ma mai nonchalance. Non scriveva mai pur di scrivere, mai troppo in fretta. Sì, era uno dei cosiddetti scrittori nati. Consapevole dell’importanza del lessico, sapeva – forse meglio di qualsiasi suo contemporaneo (ad eccezione di Petar Kočić) – che senza lessico non può esserci né stile né significato letterario.

Seguendo un criterio del tutto soggettivo, fra tutti i romanzi di Ćorović mi soffermo su Stojan Mutikaša (1907), e non solo per il suo realismo psicologico. Semplicemente, il protagonista – un parvenu giunto in città da un villaggio, arricchitosi rapidamente e velocemente calpestando gli altri – ricorda irresistibilmente i neoricchi di oggi in Bosnia Erzegovina, nella regione post jugoslava e nell’intero spazio ex comunista. Stojan Mutikaša del nostro tempo, quindi di un’epoca caratterizzata da una transizione infinita, parcheggia la sua jeep sul marciapiede (quando non riesce ad entrare in auto direttamente nel ristorante), ai suoi dipendenti paga metà dello stipendio in nero, possiede una villa protetta da un cancello in ferro, dotato di telecamere e allarmi, incorniciato da due colonne sovrastate da leoni in cemento. L’homo novus di Svetozar Ćorović finisce però tragicamente. Solo, in un angolo di una stanza buia. Sembra quasi un castigo tolstoiano (“A me la vendetta, io farò ragione”) nell’ambiente di una Mostar sconvolta da trasformazioni che fanno indietreggiare il Bene, e allo scrittore, che con la sua penna non riesce a cambiare né il mondo né l’uomo, non resta che narrare la morte di un parvenu. La vendetta dell’autore si concretizza in una storia osservata di nascosto dalla Coscienza, e forse anche da Dio stesso.

Quando venivo invitato nelle scuole italiane a spiegare “l’inspiegabile” della storia e cultura della Bosnia Erzegovina – un compito paragonabile alla descrizione della quadratura del cerchio – ho sempre preferito citare le opere degli scrittori che ancora meritano attenzione. Quindi, non di rado parlavo agli studenti anche di un racconto di Ćorović intitolato Ibrahim-begov ćošak [L’angolo di Ibrahim-bey], a cui sono sempre stato affezionato, ma non per il fatto che uno scrittore serbo narra la tragica vita di un musulmano, bensì perché si tratta di un esempio di uno stile narrativo convincente caratterizzato da una trama ben elaborata, dialoghi scorrevoli, soliloqui per nulla casuali, descrizioni efficaci.

Il racconto? Tipico della fase di piena maturità letteraria di Ćorović, è incentrato sulla figura di Ibrahim, economicamente e socialmente devastato, figlio di un bey a suo tempo molto ricco. Nel passaggio da un’epoca all’altra, ad Ibrahim sono rimasti solo un angolo (una casa d’angolo, l’ultimo ricordo di ciò un tempo era la sua famiglia) e il titolo di bey, ormai spogliato dalla sua ricchezza. Si guadagna da vivere pulendo le strade. Un nuovo potere, tanti cambiamenti che si concretizzano anche nella costruzione di nuove case e nella demolizione di quelle vecchie. Quando però il potere chiede che venga distrutto l’angolo di Ibrahim, nel protagonista del racconto si risvegliano quell’orgoglio e quella ostinazione che caratterizzano gli abitanti di quelle terre anche quando perdono. Forse i due frammenti del racconto che propongo qui di seguito permetteranno ai lettori di cogliere la forza narrativa di Ćorović.

Quel giorno d’estate dello scorso anno, lasciando Mostar, riflettevo su Ćorović e Šantić non tanto come due mostarini di nazionalità serba quanto come esseri umani. Cosa direbbero oggi di Mostar, una città tristemente divisa in due, dove, dopo tutto quello che è accaduto, non è rimasto quasi nessun serbo? Me lo chiedevo pur sapendo che tali interrogativi ormai possono trovare risposta solo nella letteratura. I morti tacciono e i vivi non possono che intuire i loro pensieri. Ad ogni modo, erano uomini straordinari, tutti e due, anche come oppositori delle forze di occupazione austro-ungariche. Il loro nazionalismo era di stampo patriottico, diverso da quello sciovinismo brutale e desolante in cui all’inizio degli anni Novanta sprofondarono i tre popoli della Bosnia Erzegovina. Nel 1914, dopo l’attentato di Sarajevo, Šantić e Ćorović furono imprigionati. Šantić fu più fortunato – scarcerato, trascorse gli anni di guerra con altri serbi di Mostar nel villaggio di Borke, nei pressi di Konjic. Ćorović invece fu mobilitato, trascorse un periodo in Ungheria, per poi ottenere un congedo nel 1917 per malattia. Morì due anni dopo per via delle precarie condizioni di salute, causate dalla guerra.

Tuttavia, né nelle opere di Šantić né in quelle di Ćorović vi è una sola riga di amarezza e di lamento per il proprio destino, nessun invito alla vendetta per essere stati condannati non solo come oppositori di un regime, ma anche per via della loro appartenenza etnica. Si tratta di una caratteristica meravigliosa dei grandi individui.

Alcuni frammenti tratti dal racconto L’angolo di Ibrahim-bey

[Nel lessico architettonico con angolo si intende una parte prominente e sovrastante di una casa costruita in stile orientale]

Una volta entrato in quella stanza, Ibrahim-bey crollò sul divano e, appoggiando la schiena sui cuscini, rimase fermo per qualche istante ansimando. Lo faceva sempre quando tornava a casa sfinito dal duro lavoro quotidiano. Questa volta però non tirò fuori la pipa. Tutte le altre sere invece fumava e – sbuffando – osservava le persone che attraversavano la čaršija oppure, sorvolando con lo sguardo i vecchi mobili, ritornava con la mente ai giorni dell’infanzia e ne assaporava i ricordi. Queste cose gli rammentavano che non era uno straniero né un neoarrivato, bensì un uomo di buona famiglia e un padrone di casa senza eguali… Gli pareva di vedere quei feudatari e potenti che, seduti sul divano, allungavano la mano per prendere la pipa preparata dai loro servi, mentre suo padre stava seduto in un angolo e, sempre con la sciabola sul grembo, raccontava loro cosa stava accadendo nel mondo, dissipando i dubbi su eventuali nuove guerre.

- Quindi, mi dovrò separare da questo? – disse a mezza voce, osservando la stanza. - Perderò anche questo, e così sarò uguale agli altri poveracci?

E, appoggiando una mano sul mento, iniziò a scuotere tristemente la testa.

- Pulirò la čaršija, farò tutto quello che fanno i poveri… non sarò affatto migliore degli altri operai… e una volta che sarà scomparso anche l’angolo, Grga mi denigrerà ancora di più. Perché finché c’è l’angolo lui non può dimenticare che suo padre era il mio maniscalco e io il suo padrone. Si prendeva cura del mio cavallo, lo sellava e teneva la staffa mentre io montavo. Una volta salito in sella, correva davanti a me come un levriero, e il cavallo saltellava, tanto che la saliva gli usciva dalla bocca… Grga lo sa… Lo sa bene, e finché ci sarà questo angolo, si vergognerà di denigrarmi come fa con gli altri operai, e continuerà a considerarmi padrone. Quando poi l’angolo scomparirà… eh… mi deriderà con ancora maggiore insistenza. Finora tutti mi compiangevano, d’ora in poi si faranno beffe di me…

- Dov’è la tua ricchezza? – mi chiederanno - Dov’è l’angolo, dov’è la casa? E io arrossirò dalla vergogna e mi nasconderò…

Ibrahim-bey si coprì il volto con le mani e cacciò un urlo. Gli sembrava che una folla di persone gli stesse addosso, che lo stesse perseguitando, sgridando e denigrando… Anche molti feudatari che, pur compiangendolo, finora lo avevano salutato con un certo rispetto, ora gli toglieranno il saluto. Diranno che ha venduto la sua eredità ad un crucco per due spicci.

- Dio mio, Dio mio! – sospirò – Finché vivrò, non lo permetterò. Dirò all’ingegnere e a tutti gli altri che questa è la mia eredità e non ci rinuncio. Glielo dirò, a costo di essere cacciato… Se non potrò lavorare per lui, lavorerò per qualcun altro, sarò sempre un signore e non perderò questa eredità…

A quel punto Ibrahim-bey aprì la finestra che faceva angolo e, infilando la testa tra le sbarre, si sporse in avanti osservando i negozi attigui. Aveva l’impressione che tutti i vicini conoscessero le intenzioni dell’ingegnere, quindi gli venne voglia di gridare, di dire ad alta voce di non voler rinunciare al suo angolo…

Alla fine si stufò. Chiuse la finestra, sprofondò nel divano e accese la pipa…

Il giorno successivo Grga lo svegliò. Entrato nella sua stanza, lo trovò addormentato e, spingendolo con un piede, iniziò a svegliarlo. Ibrahim-bey fece un balzo, si strofinò gli occhi e si guardò intorno stupefatto... Accanto a Grga stavano altri cinque operai comunali con arnesi sulle spalle.

- Dormi eh, vecchia carcassa! – gridò Grga. – Non sai che l’ingegnere ci ha ordinato di demolire l’angolo di prima mattina… È invecchiato… Dai, prendi anche tu un badile e dacci una mano.

Ibrahim-bey lo guardò cupamente, con un certo disprezzo, e per la prima volta dopo tanti anni, disse con tono dispettoso:

- No…

Grga batté le mani, strabuzzando gli occhi.

- A chi ti rivolgi, disgraziato? Ti rivolgi a me? – urlò. Ibrahim-bey avvertì un leggero brivido. La voce di Grga, quella rigida voce che ben conosceva, dissipò tutta la sua audacia… Iniziò a guardarsi intorno come se cercasse qualcosa, poi mormorò tra i denti:

- Non ve lo posso dare…

- Ma l’ingegnere ti ha chiesto cosa ne pensassi? – gli domandò Grga sporgendosi verso di lui.

- Sì…

- Allora se l’ingegnere te lo ha chiesto, come puoi dire di no? Se lui dovesse dirmi di abbattere anche la casa di mio padre, lo farei!... Te lo assicuro!... Chi sei tu per impedirlo?... Non sei riuscito a salvare tutta quella ricchezza, e ora pretendi di salvare questo sfasciume…

- Questo non è uno sfasciume! – lo interruppe Ibrahim-bey alzando la testa. Questa è una casa dei bey, qui mio padre… Grga arrossì e batté il piede a terra.

- Non parliamo di padri! Come ti permetti di dirmelo in faccia, tu? Se l’ingegnere mi ha ordinato di abbattere…

A quel punto Grga si volse verso gli operai.

- Buttate fuori queste cose e demolite.

- No! – gridò Ibrahim-bey spaventato da quella intimazione.

- Io ascolto l’ingegnere. – rispose orgogliosamente Grga. E tu se non sei d’accordo, sporgi pure denuncia.

Poi, fingendo di compiangerlo, ammorbidì la voce e gli indicò un badile.

- Ma io ti dico che sarebbe meglio se ti impegnassi a guadagnare una paga giornaliera. Prendi quel badile e, mettendoti davanti alla porta, spingi lentamente dal basso verso l’alto in modo che possiamo demolire più facilmente. Spingerà Husejin, ma fallo anche tu!

Quella voce ammorbidita ebbe uno strano effetto su Ibrahim-bey. Senza nemmeno rendersene conto, prese in mano il badile e si diresse verso la porta. Si fermò proprio sotto l’angolo come se volesse spingere… Però non lo fece. Si appoggiò al badile e, assorto nei propri pensieri, si mise ad osservare la gente che girava su e giù per la čaršija.

- Perché non lavori? – chiese Husejin con tono risentito, asciugandosi il sudore con la manica sporca della camicia.

- Cosa? – disse distratto Ibrahim-bey.

- Lavora! Pensi di poter prendere la paga senza fare nulla? Questa non è vita da signori, bisogna rimboccarsi le maniche per guadagnare.

Un boato che veniva dall’alto interruppe la conversazione. Gli operai stavano tagliando e battendo già da un po’. Volevano, seguendo l’ordine di Grga, abbattere l’angolo “tutt’intero”, quindi si impegnarono con tutte le forze per tagliare le travi su cui poggiava.

- Oh! Questo non è un buon posto! – strillò Husejin sobbalzando. L’intonaco iniziò a staccarsi cadendo sulle loro teste.

Ibrahim-bey rimase fermo, appoggiato al badile.

- Scappa anche tu! – gridò Husejin – Quando tutti si sforzeranno al massimo, lo abbatteranno. Ibrahim-bey rimase in silenzio, continuando ad osservare tranquillamente la čaršija come se non sentisse quel boato sopra la sua testa e lo spaccarsi delle travi.

All’improvviso si udì la voce di Grga: - Se c’è qualcuno intorno, si tolga di mezzo e stia attento!...

L’angolo iniziò a dondolare lentamente come una grande nave che stava prendendo il largo.

- Scappa! – gridò ancora Husejin lanciando un sasso verso Ibrahim-bey. – Ti ammazzerà.

Ibrahim-bey si limitò ad alzare la testa guardando all’insù, senza preoccuparsi dell’intonaco che finì nei suoi occhi… Osservava l’angolo che dondolava.

Poi abbassò nuovamente la testa e prese in mano la pala.

- Scappa!

Si udì uno schianto tremendo. Le travi si spaccarono, facendo tintinnare le finestre, e l’angolo cadde a terra producendo un forte boato. Si alzò una nube di polvere densa e asfissiante, non permise a nessuno di avvicinarsi, impedendo all’occhio umano di vedere come il povero Ibrahim-bey spirò serenamente sotto le macerie del suo angolo.

note

(1) È conosciuto anche come il Ponte di Mujaga Komadina, sindaco di Mostar, grazie al quale fu costruito nel 1913. Dopo il Ponte Vecchio e il Ponte, è il terzo ponte più grande costruito a Mostar. A quel tempo, il Lučki most era un’impresa architettonica. È stato costruito in cemento armato ed è il primo del suo genere in Bosnia Erzegovina. Si caratterizza per la sua larghezza e i marciapiedi pedonali, ed è ornato da due lampioni alle due estremità. Fu demolito il 24 maggio 1992. Fu ricostruito nel periodo 2004-2005, come l'ultimo dei sei demoliti a Mostar durante la guerra. È stato ricostruito secondo i progetti originali.

“La casa fu costruita intorno al 1874. Si tratta di un edificio a due piani, ispirato all’architettura mediterranea, massiccio, in pietra, con finestre a due archi – bifore. Il tetto è rivestito di tegole. Il cancello d’ingresso è realizzato in legno. Nel cortile ci sono due grandi cipressi e un albero di fico, piantati da Svetozar Ćorović, e un albero di melograno, piantato da Aleksa Šantić. In questa casa visse Svetozar Ćorović, e anche Aleksa Šantić vi trascorse gli ultimi anni della sua vita poiché sua sorella Persa era sposata con Svetozar Ćorović. Fino al 1992 vi rimasero conservati lo studio di Aleksa Šantić e quello di Svetozar Ćorović. L’edificio fu gravemente danneggiato durante la guerra (1992-1995), per poi essere ristrutturato nel 1999”, scrive Tibor Vrančić nel suo Glossario mostarino.


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