Una scena del film" Valter brani Sarajevo"

Una scena del film "Valter brani Sarajevo"

La lotta di liberazione dall'occupazione nazifascista ha riguardato molti Paesi europei, ma restano poco conosciute le esperienze di reti partigiane che hanno superato i confini nazionali. Il progetto 'Wer ist Walter?' cerca di farle uscire dall'oblio

25/04/2025 -  Federico Baccini

Non solo la guerra di liberazione italiana. Quella dei movimenti di resistenza all'occupazione nazifascista che ha portato alla liberazione di diversi Paesi europei 80 anni fa è un pezzo di memoria collettiva che rischia di andare perduta, se non viene coltivata quotidianamente. O se non viene riscoperta in uno dei suoi aspetti meno noti: quello delle esperienze transfrontaliere delle reti partigiane che hanno operato anche oltre i confini nazionali.

"La conoscenza della lotta partigiana è piuttosto superficiale, se non inesistente, acriticamente glorificata o demonizzata, in altre parole spesso molto selettiva per facilitare la strumentalizzazione", è la denuncia di Nicolas Moll, coordinatore di Wer ist Walter?  (chi è Walter?, in tedesco), progetto che coinvolge quattro Paesi europei "non solo per la conoscenza storica, ma anche come riflessione su ciò che sta accadendo oggi a questa memoria".

Un progetto transfrontaliero

Il progetto Wer ist Walter? nasce su iniziativa di Moll, storico tedesco e co-fondatore del think tank Crossborder Factory, e della direttrice del Museo della Storia di Bosnia Erzegovina, Elma Hašimbegović. "Ci siamo chiesti quale sia oggi il ruolo della memoria della resistenza al nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e cosa possa ancora trasmetterci", racconta Moll a proposito delle riflessioni su cosa fare del patrimonio culturale di quello che era l'ex-Museo della Rivoluzione a Sarajevo, dedicato alla lotta partigiana ma riconvertito dopo la disgregazione della Jugoslavia.

Partendo proprio dai Paesi post-jugoslavi - "dove l'eredità antifascista può rappresentare una sfida" - il campo di interesse è stato allargato, come spiega lo storico tedesco: "Le stesse domande valgono anche in altri Paesi, l'idea è quella di lavorare sulla storia e sulla memoria in una prospettiva europea".

È così che Wer ist Walter? ha preso in considerazione Francia, Germania, Croazia e Bosnia Erzegovina, con un focus sulla memoria nei territori dell'ex-Jugoslavia. Perché quando si parla di storia europea, il pensiero corre subito all'Europa centrale e occidentale, mentre l'Europa sud-orientale sembra quasi un buco nero. "Con questo titolo abbiamo voluto rafforzare il ruolo della memoria jugoslava all'interno della storia europea", conferma Moll.

Ma, quindi, chi è questo Walter? "Era il nome di battaglia di Vladimir Perić, che si distinse come leader della resistenza antifascista clandestina nella Sarajevo occupata", spiega la direttrice del Museo della Storia di Bosnia Erzegovina Hašimbegović.

Una figura entrata subito nella leggenda della resistenza jugoslava dopo la morte nella notte tra il 5 e il 6 aprile 1945, alcune ore prima dell'ingresso delle unità partigiane a Sarajevo. Non solo nel 1953 gli fu assegnata la medaglia postuma di eroe nazionale, ma nel 1972 la sua fama raggiunse il culmine con il film Valter brani Sarajevo (Walter difende Sarajevo).

Proprio una frase ricorrente di quel film ha ispirato il progetto di Moll e Hašimbegović. A causa della sua falsa identità, i generali tedeschi continuano a chiedersi "Chi è Walter?" e solo alla fine, osservando Sarajevo dall'alto, un ufficiale afferma: 'Vedi la città? Questo è Walter'.

"Per noi è importante questo punto interrogativo", sottolinea Moll: "Oggi la resistenza non è un argomento molto discusso nelle società europee, noi ci siamo voluti concentrare su ciò che sappiamo dei 'Walter' in ogni luogo".

Sviluppato tra il 2022 e il 2024, il progetto Wer ist Walter? ha raggiunto tre obiettivi: una pubblicazione scientifica, una mostra al Museo di Sarajevo e una piattaforma digitale con cento storie di resistenza accessibili a tutti.

Anche se "è un po' arbitrario" concentrarsi solo su quattro Paesi, come ricorda Moll "uno degli aspetti più importanti della nostra ricerca è la dimensione transnazionale, anche se non c'è stata una resistenza europea unificata". Un esempio su tutti, "le regioni di confine tra Italia e Jugoslavia e il coinvolgimento dei partigiani jugoslavi nella lotta di liberazione nel Nord Italia."

Il caso del Campo n. 43

La partecipazione degli jugoslavi nella lotta di liberazione nel Nord Italia ha interessato lo studio  di Alfredo Sasso, pubblicato all'interno del progetto Wer ist Walter? "La vicenda del Campo n. 43 va inquadrata nel contesto della presenza dei prigionieri di guerra jugoslavi sul territorio italiano", spiega il ricercatore dell'Università di Firenze. Montenegrini, sloveni, croati e serbi dell'esercito monarchico catturati nei territori della Jugoslavia monarchica occupata dalle forze dell'Asse nel 1941.

Quello di Garessio (in Piemonte) era "uno di circa una dozzina di campi per prigionieri di guerra che contenevano tra i seimila e gli ottomila jugoslavi". Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 la maggior parte di questi prigionieri riuscì a fuggire, dal momento in cui - a causa dello sfaldamento delle strutture amministrative dello Stato fascista - i campi furono quasi tutti abbandonati prima che le forze tedesche potessero riprenderne il controllo.

"In questa fuga ha avuto un ruolo importante la solidarietà degli abitanti dei territori circostanti, che nascosero gli ex-prigionieri e offrirono loro cibo e vestiti borghesi", precisa Sasso, riferendosi alla "solidarietà civile di massa" del caso di Garessio: "Praticamente tutti i 400 prigionieri sfuggirono al tentativo di cattura da parte dei soldati della Wehrmacht".

Si è trattato, insomma, della prima ribellione al dominio nazifascista, che ha dimostrato il "legame tra resistenza armata antifascista e solidarietà civile, entrambi fenomeni favoriti dagli stessi nuclei sociali".

Nonostante ci sia una differenza importante con i prigionieri civili jugoslavi (circa 100mila in tutto, alcuni dei quali avevano una formazione politica e un'esperienza di guerriglia partigiana, e per questo erano stati internati), anche gli ex-prigionieri di guerra si ritrovarono spesso coinvolti nella resistenza dell'Italia settentrionale, con modalità e ragioni diverse. Non per ultima la propria competenza militare, molto utile alle bande partigiane locali.

Gli ufficiali dell'esercito monarchico - tendenzialmente conservatori - "non avevano una predisposizione alla guerriglia, né un'affiliazione al movimento partigiano o al partito comunista", precisa Sasso. Ecco perché alcuni tra loro "si misero in contatto con le forze partigiane più vicine ai loro ideali".

Questo in Piemonte era possibile grazie alla "forte presenza degli autonomi", che spaziavano da posizioni liberali a conservatrici, fino a quelle legate al vecchio esercito monarchico. Ci furono anche ex-ufficiali jugoslavi che combatterono nelle brigate garibaldine, dal momento in cui la resistenza italiana presentava un ampio spettro non solo ideologico ma anche geografico: "Nello stesso territorio, da valle a valle potevano operare formazioni diverse, e non sempre per gli ex-prigionieri c'era la possibilità di scegliere con chi combattere".

Alla fine della guerra nell'aprile del 1945 la maggior parte degli ex-prigionieri internati nel Campo n. 43 di Garessio tornò in Jugoslavia. Altri ex-ufficiali invece decisero di emigrare "verso l'Europa, gli Stati Uniti o l'Australia", sia per l'eredità "ambigua" della collaborazione tra l'esercito monarchico e le forze cetniche serbe, sia per un vasto insieme di motivazioni: "Dall'anti-comunismo all'assenza di opportunità nel ritornare nei contesti periferici di origine in Jugoslavia, come nel Montenegro e nella Serbia rurale", conclude il ricercatore.

Memoria nazionale, memoria europea

Il rischio di perdere la memoria collettiva delle esperienze di resistenza, nazionale e transnazionale, è un tema che riguarda tutti i Paesi europei, anche se per ragioni che variano in base alle fasi storiche della seconda metà del Novecento.

Per esempio, il primo livello di oblio dell'esperienza dei partigiani jugoslavi in Italia è legato alla rimozione generale di tutto ciò che è legato all'invasione italiana della Jugoslavia. "Parlare di loro vorrebbe dire innanzitutto parlare dei campi di prigionia e di internamento, una vicenda che è stata taciuta fin dall'alba della Repubblica per attribuire tutte le responsabilità ai nazisti", ricorda Sasso.

Non si può poi dimenticare il contesto della Guerra Fredda e della scelta del non-allineamento della Jugoslavia di Tito. Come spiega Moll, "in un certo senso quest'area è rimasta fuori dal confronto tra l'Europa occidentale e quella orientale" e dopo la caduta dell'Unione sovietica e la dissoluzione della Jugoslavia, il "processo di esclusione" della memoria jugoslava non si è arrestato.

Il risultato è che, per tutti gli otto decenni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la memoria europea della resistenza è rimasta monca di una sua componente fondamentale: "I partigiani jugoslavi riuscirono a creare un vero e proprio esercito e furono gli unici a liberarsi da soli dagli occupanti e collaborazionisti, seppur con il sostegno degli Alleati", continua lo storico tedesco.

Ultime, ma non per importanza, le conseguenze degli anni Novanta. Come evidenzia Sasso, la narrazione nazionalista dei sette Stati emersi dalle guerre di dissoluzione della Jugoslavia "implicava l'oblio di tutto il passato comune della lotta antifascista e internazionalista".

Un'analisi condivisa dalla storica bosniaca Hašimbegović: "I nuovi Stati non avevano bisogno dei vecchi eroi, della fratellanza, dell'unità e dei musei della Rivoluzione, perciò cancellarono la storia e l'eredità comune dallo spazio pubblico e dalla memoria".

Anche a Sarajevo, Walter 'ha perso' la scuola a lui dedicata, quando la Seconda Guerra Mondiale ha iniziato a essere letta e reinterpretata "con le stesse lenti etno-nazionaliste che hanno portato alle guerre degli anni Novanta".


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