Giovani con i propri telefonini © - View Apart/Shutterstock

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Come descrivere il rapporto tra giovani e social media? Se da un lato è tossico, problematico e pericoloso, è proprio la generazione più giovane ad esplorare nuove strategie di comunicazione e relazione attraverso le piattaforme digitali. Un’analisi del fenomeno nel contesto balcanico

04/04/2025 -  Sara Varcounig Balbi

I social network creano un mondo alternativo, parallelo alla realtà, fatto di post, video e contenuti multimediali. Qui gli utenti si incontrano, scambiano commenti e reazioni reciproche, condividono attimi di quotidianità e accedono a milioni di informazioni. Definiti come “piazze digitali”, i social si presentano così come un reticolo di interazioni diverse.

La “generazione Z”, i giovani di oggi, sono nati e cresciuti con questa tecnologia e - nell'epoca dell’iperconnessione - vivono in un mondo in cui è difficile tracciare il confine tra virtualità e realtà. La facilità con cui usufruiscono di queste piattaforme li avvantaggia ma contemporaneamente ne fanno un uso inconsapevole, sottovalutando i rischi. Questa dualità si riflette nel mondo reale, con effetti ambivalenti. 

Dentro la tana del coniglio 

L’ultimo report sulle violazioni digitali del Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) mette in luce i pericoli insiti nel mondo virtuale. Oltre al cyberbullismo e al rischio di adescamento online, gli adolescenti sono più vulnerabili anche agli effetti sulla propria salute mentale. 

Diversi studi hanno ormai dimostrato l’esistenza di una correlazione con problemi quali ansia e depressione coadiuvata dal meccanismo alla base di queste piattaforme. Per citarne uno , nel 2023, Amnesty International ha verificato come l’applicazione TikTok tendesse a promuovere contenuti che "incoraggiano" l’autolesionismo o pensieri suicidi per chi fosse già affetto da una situazione di sofferenza mentale.

Sui social network infatti l’algoritmo suggerisce i contenuti in base agli interessi della persona. Quando si mette like ad un post o ad un video la piattaforma registra il dato e lo sfrutta in seguito. In particolare, lo usa nel momento in cui si finisce nella “tana del coniglio”. Il “rabbit hole effect”, si verifica quando, dopo aver selezionato un video, si continua a scrollare per un tempo indefinito per vedere altri contenuti, precipitando in un “Paese delle meraviglie” caotico e virtuale.

Nel caso specifico esaminato da Amnesty si è notato che, se un adolescente mette like a post o reels che promuovono comportamenti autolesionisti, l’algoritmo proporrà successivamente contenuti simili, con il rischio di aggravare un problema di salute mentale.

Questo vale anche in altri contesti, per esempio, per le “challenge” ovvero le “prove” social, in cui l’utente viene “sfidato” a riproporre il video. Per lo più riguardano coreografie e balletti da fare da soli o in compagnia, ma in alcuni casi diventano virali anche contenuti pericolosi per la vita dei partecipanti. Per esempio, BIRN riporta come la “blackout challenge” abbia provocato la morte di un bambino anche in Serbia e come, a Bečej e Pančevo, due ragazzini abbiano messo in pericolo la propria vita mentre venivano filmati dagli amici per un video.

Secondo gli analisti del report, gli adolescenti sarebbero spinti a sfide sempre più rischiose per attirare l’attenzione e ottenere l’approvazione dei coetanei. Questo sarebbe aggravato dal clima estremamente competitivo dei social, che premia i contenuti più estremi e nel quale diventa fondamentale ottenere popolarità attraverso i like e un numero elevato di followers. 

Divieto o educazione? 

Virtuale e reale sono interconnessi. Nel mondo digitale vengono replicati gli stessi rapporti di potere interni alla società e la violenza offline trova risonanza anche online, influenzando anche le generazioni più giovani. Per rendere questo concetto più concreto basta citare qualche caso. In Serbia , per esempio, un gruppo di tredicenni ha usato l’intelligenza artificiale per “svestire” le proprie compagne di classe e insegnanti, producendo foto e video deepfake che poi hanno condiviso su diverse chat.

In Bosnia Erzegovina, secondo un report di BIRN, almeno un terzo degli studenti delle scuole superiori è stato vittima di discorsi d’odio online e di discriminazione. Episodi simili sono presenti in tutta la regione, come anche una certa glorificazione della violenza sugli account. Dopo la sparatoria nella scuola di Belgrado nel 2023, a Bihać, in Bosnia, un ragazzo ha condiviso su Instagram un post in cui alludeva ad un possibile massacro alla Scuola di Economia. Spostandosi più a sud, in Albania, a fine 2024 sono comparsi diversi video su TikTok che celebravano l’omicidio di un ragazzo, avvenuto a causa di una diatriba online. 

La psicologa Lejla Gabela, del Centro di salute mentale di Sarajevo, sostiene che la pervasività della violenza sui social network ha delle conseguenze negative sullo sviluppo della personalità e potrebbe incoraggiare i ragazzi a comportarsi in maniera più rischiosa. Nella sua opinione, gli adolescenti fanno fatica a capire la distinzione tra interazioni online e offline. Cercare una soluzione alla crescente proliferazione della violenza digitale è complesso perché investe più fattori e se da un lato servirebbe un meccanismo di responsabilità da parte delle piattaforme social, dall’altro la società dovrebbe farsi carico di questa questione.

Il report di BIRN infatti sottolinea come nell’area balcanica la legislazione ad hoc sia inadeguata e l’educazione digitale assente. Per citare un dato , all’interno delle scuole superiori della Bosnia Erzegovina, più della metà degli studenti (52%) non aveva mai sentito parlare del concetto di “diritti digitali”, nonostante la stragrande maggioranza di loro (95%) usi internet principalmente per comunicare sui social. Inoltre, per risolvere il problema, diventa fondamentale una comunicazione aperta in famiglia.

Intervistata da BIRN a riguardo, Ana Protulipac, psicologa dell’infanzia, pone l’accento sull’importanza del ruolo dei genitori. “Dovrebbero dare l’esempio” spiega “mostrando un uso moderato e consapevole dei social network e discutendone con i propri figli”.

Un approccio diverso è stato invece quello adottato in Albania, dove il primo ministro Edi Rama ha optato per il divieto temporaneo di un anno dell’applicazione TikTok. In seguito agli eventi dello scorso dicembre, Rama aveva dichiarato che il problema non erano i ragazzi, ma la società e le applicazioni come TikTok “che tengono i bambini in ostaggio”, promettendo un blocco provvisorio dell’app di Bytedance.

Pochi giorni fa, la ministra dell’Educazione Ogerta Manastirliu ha confermato l’entrata in vigore del divieto, dichiarando che la decisione è frutto di un gruppo di lavoro che ha collaborato con le istituzioni responsabili per la protezione e la sicurezza dei bambini nell’ambiente digitale. In risposta, è stata organizzata una manifestazione di protesta. Resta da chiedersi se un approccio così restrittivo possa sul serio risolvere il problema o se invece sposterà la violenza digitale su altre piattaforme. 

Social media, luogo di incontro

Ridurre il rapporto tra giovani e social network ad una relazione tossica e problematica sarebbe semplificatorio. La realtà è molto più variegata e complessa di una distinzione tra “buono” e “cattivo”. Come viene sottolineato dal rapporto sulle violazioni digitali di BIRN, i social media possono essere sia un luogo in cui i giovani esprimono rabbia e violenza, sia un modo per costruire nuove reti di supporto e interazione. Le recenti proteste in Serbia rappresentano un esempio di quest’ultimo caso.

A guidare l’ondata di manifestazioni che sta travolgendo la società serba, a partire dal crollo della stazione di Novi Sad dello scorso novembre, sono soprattutto studenti, quei giovani della generazione Z che sono cresciuti in un mondo digitale. Abituati alla comunicazione sui social network, sono riusciti ad utilizzare queste piattaforme a proprio vantaggio, creando così un sistema di connessioni in grado di aggirare l’influenza governativa sui media tradizionali. Spostandosi sul mondo virtuale, i giovani hanno avuto la possibilità di coinvolgere un maggior numero di persone, creando un dialogo intergenerazionale che unisce le varie città della Serbia.

Non solo. Facebook, Instagram, TikTok e le altre app trascendono i confini nazionali e hanno permesso una diffusione più veloce su scala globale, mobilitando movimenti di solidarietà in tutta Europa. Per esempio, la pagina Instagram “Studenti_u_blokadi ”, gruppo autorganizzato di studenti delle università di Belgrado, conta ormai più di 200 mila followers e tiene costantemente aggiornati sull’andamento delle manifestazioni. 

Altre iniziative sono arrivate dai cittadini serbi emigrati all’estero, che attraverso i social hanno avuto la possibilità di informarsi quotidianamente su quanto stava accadendo, permettendo una partecipazione “a distanza” e arrivando a creare un “Parlamento della diaspora”, su ispirazione dei plenum studenteschi.

Così, nell’esperienza dei giovani serbi, i social network assumono la funzione originaria di luoghi di incontro, diventando anche strumenti di mobilitazione, di scambio reciproco e recuperando il significato autentico di “piazze digitali”.


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