Il lavash, il pane armeno (Christian Eccher)

Un reportage dall'Armenia che è modulato secondo la struttura di una sinfonia classica, un viaggio che ci porta dal Cenozoico sino all'attualità

18/10/2016 -  Christian Eccher

(Questo reportage esce in contemporanea sulle pagine della rivista letteraria on-line Odissea)

PRELUDIO: Tbilisi, alle pendici del Monte Santo (Ode a Lima)

Lungo la riva destra del fiume Mtkvari, la città vecchia di Tbilisi biancheggia aggrappata al Monte Santo, sul quale troneggiano la grande ruota panoramica e il traliccio delle telecomunicazioni. Vista dagli aeroplani che incessantemente sorvolano il Caucaso e che collegano l’Occidente all’Asia, la città vecchia appare come una lastra di marmo bianca rigata da solchi neri e sottili.

Quei solchi sono in realtà strade lunghe e strette dove persino la luce si insinua a fatica; sui marciapiedi anziane signore passeggiano curve appoggiandosi al bastone con una busta della spesa inverosimilmente ricolma appesa al braccio sinistro; giovani con gli occhiali da sole si affrettano non si sa dove; coppie di fidanzati passeggiano tenendosi per mano; furgoni carichi di merci arrancano in salita e sfiorano pericolosamente i passanti con gli specchietti retrovisori.

In uno di quei vicoli (dalla via Rustaveli, l’arteria principale della città vecchia che scorre parallela al fiume, bisogna svoltare improvvisamente a sinistra dopo aver superato il Teatro dell’Opera e arrampicarsi di qualche metro per poi imboccare con prontezza la prima strada a destra), Lima gestiva il proprio negozio, che si chiamava semplicemente “Market”. Lima è armena, la sua famiglia vive da sempre in Georgia. A Tbilisi è a casa.

Nella sua bottega era possibile trovare di tutto: uova fresche, affettati, lampadine, bevande, oggetti per la casa. Magra e gentile, i capelli neri e lunghi raccolti da un fermaglio e lasciati cadere sulle spalle, Lima amava intrattenersi con gli avventori e li accompagnava fin sull’uscio una volta terminati gli acquisti. Dopo 30 anni, è stata costretta a chiudere l’attività: anche i clienti più fedeli hanno optato per i grandi centri commerciali che sorgono ovunque alla periferia della città e che hanno lo stesso aspetto, a Tbilisi come a Bishkek, a Novosibirsk come a Tomsk e a New York.

Lima non ha né annunciato né pubblicizzato la chiusura. Una mattina di giugno, una qualsiasi, con l’estate alle porte e gli abitanti di Tbilisi che si svegliano con i capelli già bagnati di sudore per via dell’aria calda e umida che ristagna nella valle, la saracinesca del “Market” è rimasta abbassata. Coraggiosa e decisa, Lima ha venduto il locale, ha lasciato la città e nessuno sa dove sia. “Lima non è più qui”, urlano alcune bambine a chi si avvicini al negozio, mentre saltellano sui contorni irregolari di una “campana” disegnata sul marciapiede con un gessetto colorato. Si arrestano un istante, con in mano il sasso da gettare sull’asfalto, per guardare in faccia coloro che ancora non sanno che il negozio rimarrà chiuso per sempre. Lima ha capito che, pur essendo riuscita a sopravvivere al crollo dell’URSS e al caos economico e politico che negli anni Novanta ha investito la Georgia, non si sarebbe potuta opporre alla forza omologatrice e distruttrice della globalizzazione neoliberista. I grandi consorzi internazionali sono arrivati anche nel Caucaso e hanno ormai quasi completamente soffocato le rivendite al dettaglio.

Il negozio di Lima è adesso in fase di ristrutturazione. Il nuovo padrone lo rinnova e spera presto di affittarlo. In un angolo del locale, Lima aveva il suo ufficio, dove spesso trascorreva anche la notte: una stanzetta ordinata, con i libri di contabilità, il computer, il crocefisso appeso alla parete. Ora è completamente vuota. Sul muro di fronte alla porta di ingresso sono rimasti soltanto l’ombra polverosa lasciata dal crocefisso, che probabilmente Lima ha voluto portare con sé, e un’icona della Madonna che piange inconsolabile sul corpo del figlio morto.

(Le finestre del palazzo di fronte spandono il riverbero del sole sui muri scrostati dell’edificio che a pian terreno ospitava il “Market”. Un muratore siede con le gambe piegate, come un pappagallo sul trespolo, su un mattone, proprio davanti al negozio. Fuma e centellina il caffè appoggiando appena le labbra al bordo della tazzina, quasi abbia paura di romperla. “Sì, certo, Lima, non è più qui, non si sa, non si sa dove sia... Il suo negozio? Va al primo che lo vuole”. Il caldo scioglie l’asfalto. Anche il palazzo signorile all’inizio della via è in ristrutturazione, c’è solo la facciata, come una scenografia a teatro; al di là delle finestre si intravvedono il blu del cielo e il bianco dei cumulonembi di condensazione sui monti del nord; sono le nubi che annunciano il meriggio. Il muratore fuma felice e incredulo di avere davanti a sé un uomo di “besa”, venuto dalla pianura del Danubio per far fede alla parola data molti anni prima in quel negozio della Città Vecchia).

Tbilisi, Flickr Vladimer Shioshvili

PRIMO MOVIMENTO: romantico e un poco solenne (come il primo atto di “Anush”)

La strada che collega Tbilisi all’Armenia ha solo due corsie. È percorsa da camion mastodontici, ricchi fuoristrada, vecchie e piccole “Lade” con il portapacchi coperto da teli di plastica i cui orli vibrano gioiosamente al vento, e dalle marshrutke, furgoni adibiti al trasporto dei passeggeri. Un solo treno al giorno va da Batumi, sulla costa del Mar Nero, a Yerevan, via Tbilisi, passando per la Colchide, la pianura in cui gli argonauti cercarono il vello d’oro e che oggi viene attraversata in fretta dai turisti diretti in Turchia o a Kutaisi, la città che ha aperto il proprio aeroporto alle compagnie aeree europee a basso costo.

La Georgia guarda sempre più a occidente e sembra voler dimenticare il proprio passato sovietico. Gli autobus pubblici sono quasi inesistenti; chi non è dotato di un mezzo proprio e voglia raggiungere la capitale armena si deve affidare alle marshrutke o ai taxi. Un sistema che dà lavoro a decine di persone, soprattutto a coloro che erano impiegati in aziende statali sovietiche, privatizzate dopo il crollo dell’URSS e fallite nel giro di pochi anni.

L’altipiano che separa Tbilisi dalla frontiera è martoriato dal sole: la forte luce invade l’intera volta celeste e schiaccia l’erba al suolo, per giorni, fino a farla ingiallire a poi morire. Già agli inizi di luglio, i prati verdi si trasformano in un’enorme spianata di sabbia marrone, su cui si aprono qua e là le chiome di piccoli e coraggiosi alberi. Sono per lo più acacie, le cui foglie sono verdi e impassibili, indifferenti al caldo che soffoca il Caucaso. Lungo la strada, semplici casupole di cemento ospitano rivendite di frutta e verdura; impossibile scorgere l’interno di questi negozi che vivono del traffico frontaliero: lenzuola bianche o tende nascondono l’uscio per difendere commercianti e avventori dal caldo e dalle mosche.

A un certo punto, l’altipiano lascia il posto a colline dalle cime aspre e appuntite, che mimano montagne d’alta quota. La strada piega improvvisamente verso ovest e la frontiera si annuncia dietro a un’altura su cui svetta un traliccio con in cima un grappolo di ripetitori circolari e antenne di trasmissione rivolti verso Tbilisi. Le marshrutke si incolonnano indisciplinate al posto di blocco, cercano di superarsi a vicenda per arrivare prima ai controlli. I passeggeri scendono e si incamminano verso l’edificio bianco e lungo dove si trova la frontiera. Oltrepassato il confine, bisogna percorrere un centinaio di metri a piedi e superare il ponte sul fiume Debed, lungo il quale si attorciglia la ferrovia a un binario che si ostina a rimanere in territorio georgiano ancora per qualche chilometro prima di incontrare un cavalcavia e superare lo stretto corso d’acqua verde, che scorre veloce verso la piana del Mtkvari. Dal confine si intravvede già l’Armenia, mentre la Georgia rimane chiusa, invisibile al di là dell’altura su cui svettano i ripetitori. L’edificio della dogana, oltre il prefabbricato in lega metallica in cui alloggia la polizia di frontiera, è in tufo rossastro, a indicare l’ingresso in una terra di vulcani ormai spenti, di magma innocuo perché da secoli raffreddato, ma anche di terremoti improvvisi e violenti.

Confine Georgia-Armenia foto R.Bertoldi

Superato Bagartashen, un paese che si trova a ridosso del confine, il paesaggio cambia radicalmente. La strada percorre un tratto lungo la valle del Debed per poi arrampicarsi, fra continui tornanti, sulle alture dell’Armenia settentrionale. La vegetazione è fitta a valle e si fa più rada a mano a mano che si sale. I querceti e i faggeti lasciano il posto ai pini caucasici, che ornano i pendii a mezza costa; sotto la fascia delle pinete domina il verde confuso della vegetazione tipica delle quote più basse; al di sopra si estendono i piani alpini ricoperti di erbe e licheni che trasformano le montagne in calvi giganti.

Ai lati della strada, negli spiazzi polverosi fra la carreggiata e lo strapiombo, dove spesso gli automobilisti si fermano per riposare, compaiono bancarelle improvvisate dietro alle quali siedono anziani signori o adolescenti. Vendono frutta, verdura, acqua, pannocchie di granoturco appena abbrustolite. Fra le piramidi di cocomeri striati di bianco fanno capolino le teste abbronzate di bambini ubriachi di sole. Immobili, seduti per terra o su un mattone appoggiato sull’asfalto, guardano indifferenti e con gli occhi socchiusi le auto sfrecciare.

Nessuno sembra accorgersi che l’immobilità a cui il meriggio costringe la natura è solo apparente. Nelle viscere della terra, la placca tettonica europea continua a scontrarsi e a essere sommersa da quella iraniana, in un processo lento e inarrestabile che dura ormai da 25 milioni di anni. Le rocce si contorcono come serpenti arrabbiati, scivolano l’una sull’altra, si distendono fino all’inverosimile per poi rompersi di schianto, rilasciando calore ed energia a scuotere come un panno di bucato l’intera penisola caucasica. Le due placche cominciarono a scontrarsi nel Cenozoico; nello stesso periodo anche l’Africa iniziò a muoversi verso nord, verso l’Europa. Contemporaneamente al Caucaso, anche in Europa la terra si increspò e formò i primi corrugamenti alpini. I movimenti tettonici dell’Eurasia condannarono l’antico Oceano Tetide alla scomparsa; chiuso in una morsa mortale, l’antico mare si restrinse fino a diventare un golfo all’interno del Mediterraneo, destinato a sua volta a sparire fra pochi milioni di anni, quando la penisola italiana scivolerà su quella balcanica. Il grande Oceano di un tempo era stato già dai marinai della Serenissima declassato a “Golfo di Venezia”, anche se i geografi delle epoche successive gli hanno restituito la dignità di mare, mare Adriatico, dal nome di Adria, una città scomparsa, di cui non si sono mai trovati i resti.

Nel Caucaso, come in Italia e nei Balcani, la Grande Catastrofe sembra lontanissima; forse arriverà quando l’umanità non esisterà già più, in un tempo altro, mitico, in cui il passato si ricongiungerà al presente, chiudendo il Tempo in una circolarità letale, che annullerà anche lo spazio e ridurrà l’esistente a un unico punto nero nel vuoto del nulla. In ogni caso, i venditori ambulanti sanno che non vale la pena occuparsi di simili questioni e sembrano essere impensieriti esclusivamente dal fatto che solo raramente gli automobilisti sostano per rifornirsi di viveri. Le marshrutke invece non possono permettersi il lusso di fermarsi, e il viaggio verso Yerevan continua, fra sorpassi e bruschi abbrivi

(I paesaggi del nord dell’Armenia non sono cambiati molto da come li aveva rappresentati il pittore Stepanos Nersissian a metà ‘800. Le ragazze dei paesi e delle contrade sprofondati nelle vallate non vanno più alla fonte per prendere l’acqua, ma la natura è rimasta selvaggia come un tempo. In uno di questi villaggi nacque anche il poeta armeno romantico Hovhannes Tumanyan, che creò la sua opera pricipale, “Anush”, nel 1892. Il poema è scritto nella variante orientale della lingua armena, che è anche l’idioma ufficiale dell’attuale Repubblica Armena. La variante occidentale era invece parlata nei territori dell’ovest, nell’ex impero ottomano, ed è oggi la lingua della diaspora. Le due varianti si discostano a tal punto da far pensare che si tratti di due lingue diverse. Il compositore Armen Tigranyan musicò il testo di Tumanyan e nacque così il primo melodramma armeno. Era il 1912, il paese viveva, in ambito culturale, il proprio risorgimento nazionale. La musica di Tigranian accosta motivi popolari armeni a quelli tipici del romanticismo russo, soprattutto di Pietr Ilich Chajkovski. A Vienna, il compositore Gustav Mahler – colui che fece letteralmente esplodere la tradizione classica europea e aprì le porte a una nuova era in campo musicale – riposava già da un anno nel cimitero di Grinzig insieme alla figlia Maria “Putzi”, morta nel 1907. L’Armenia arrivava in ritardo rispetto all’Europa, ma ciò non vuol dire che l’arte di questa piccola nazione sia meno interessante di quella occidentale. Nella musica di Tigranyan, inoltre, non mancano echi wagneriani, a testimoniare che il nuovo aveva comunque fatto breccia anche nel Caucaso. Le ragioni del Risorgimento culturale tardivo armeno vanno ricercate nelle complicatissime vicende storiche del paese: alla fine del XIV secolo, gli armeni avevano perduto per sempre il proprio impero – che nei tempi antichi si estendeva dall’attuale Turchia orientale fino al Mar Caspio – a causa delle continue e snervanti invasioni dei Turchi, dei Persiani e dei Mammalucchi sirio-egiziani. Soltanto nel XIX secolo gli armeni dell’est si sono ritrovati sotto un’entità statuale stabile. Nel 1813, infatti, passarono sotto il dominio degli zar russi, insieme alla Georgia. Furono gli armeni e i georgiani stessi a chiedere protezione ai russi affinché li difendessero dalle continue scorribande dei persiani, popolo musulmano. A unire russi, armeni e georgiani era la religione, il cristianesimo ortodosso. Gli zar garantirono quella tranquillità politica necessaria allo sviluppo di una coscienza e di un’arte davvero nazionali. Gli armeni dell’ovest, invece, erano già da secoli sotto il giogo dell’impero ottomano. Fino al 1991, anno in cui fu proclamata l’indipendenza, non è esistito un vero e proprio stato armeno, a eccezione della breve parentesi costituita dalla Prima Repubblica, nata nel 1918 e spazzata via dai Bolscevichi due anni più tardi. Nell’attuale Repubblica Armena il russo è ancora molto diffuso, anche se i giovani tendono ad abbandonare l’idioma di Tolsoj per concentrarsi sull’inglese, una lingua molto prestigiosa non solo perché parlata ovunque, ma anche perché veicola ideologie e modelli di vita occidentali. I rapporti fra Yerevan e Mosca sono rimasti comunque ottimi, e non sono come quelli che solitamente intercorrono fra uno Stato colonizzato e quello colonizzatore. Non si può parlare di vera e propria dominazione da parte dei russi in Armenia: piuttosto di simbiosi, di coesistenza di culture, in cui il Cremlino ha avuto spesso l’ultima parola per via della propria superiorità demografica, politica e, soprattutto durante il periodo sovietico, anche militare).

All’improvviso, dopo una lunga galleria, la strada abbandona le montagne e digrada verso valle, per costeggiare il lago Sevan, uno dei più grandi del Caucaso, i cui colori e le cui spume ricordano il mare. L’azzurro cobalto dell’acqua profonda e dolce contrasta con il marrone scialbo, spoglio e polveroso delle alture limitrofe. Il cielo dialoga con il lago, quasi a voler ribadire la dominazione incontrastata del blu sul paesaggio circostante. La strada diventa più comoda, a quattro corsie, e le marshrutke possono accelerare; Yerevan dista solo un’ora dal bacino di Sevan e i primi grattacieli si stagliano all’orizzonte, sagome regolari che compaiono e scompaiono fra gli scheletri dei magri cespugli cresciuti lungo il bordo dell’autostrada e già seccati dal sole.

SECONDO MOVIMENTO: allegro con moto – notturno, allegro sostenuto alla Khachaturyan

Il centro di Yerevan è racchiuso all’interno di un anello, costituito a ovest da un largo boulevard al centro del quale si trova un parco lungo e stretto, costellato di caffè e ristoranti. A est e a nord, invece, i declivi delle colline cingono la città, quasi fossero gli spalti di uno smisurato teatro a cielo aperto di cui la stessa Yerevan costituisce l’immensa platea. Yerevan è moderna, quasi interamente edificata in tufo rosa-rossastro. Agli inizi del secolo scorso, l’architetto Alexander Tamanyan ridisegnò la pianta urbanistica del centro storico; i palazzi da lui progettati sono ispirati al classicismo italiano e al Medioevo armeno: la piazza principale, Piazza della Repubblica, non solo ricorda l’architettura italiana del periodo fascista, ma sembra anche ricalcare la metafisica delle “Piazze d’Italia”, la serie di dipinti realizzata da Giorgio De Chirico agli inizi del secolo scorso.

I fregi e gli ornamenti dei palazzi sono quelli tipici delle chiese medievali armene. Anche l’imponente scalinata delle “Cascate”, adagiata sulla collina a nord-est della città, ricorda in maniera impressionante Piazza di Spagna a Roma. Yerevan sembra voler a ogni costo rimarcare le proprie radici occidentali e rimuovere quelle orientali, russe, persiane e in misura minore anche turche.

Yerevan, Piazza della Repubblica, foto R.Bertoldi

L’Armenia è un paese fortemente nazionalista e ciò è visibile persino nella struttura urbanistica della capitale. La via principale, che taglia l’anello del centro da nord a sud-est, è intitolata a Mesrop Mashtos, il monaco e linguista che nel 405. d.C. codificò l’alfabeto armeno. Via Mashtos, dopo aver attraversato trionfalmente il cuore della città, finisce ai piedi del Matenadaran, un maestoso edificio in stile neoclassico che ospita tutti i manoscritti e i libri stampati della tradizione armena, dal Medioevo fino al Novecento. Il Matenadaran non è un semplice museo, ma un vero e proprio tempio: le sale sono state progettate in maniera tale da assumere le sembianze delle antiche chiese armene che si trovavano in territorio ottomano, quelle distrutte dai “Giovani Turchi” ai tempi del genocidio. I manoscritti non sono solo dei documenti storico-culturali, ma anche dei veri e propri feticci. La visita al Matenadaran è sentita come un obbligo morale da ogni cittadino armeno e ha una valenza patriottica e quasi religiosa.

Accanto al Matenadaran si trova la gigantesca statua in bronzo della “Madre Armenia”, una donna dai tratti fisici squadrati (ispirati di nuovo alla retorica fascista italiana, soprattutto alla statua della Sapienza che si trova all’Università di Roma) con in mano una spada, a proteggere la città e l’intera nazione. I turisti camminano lentamente per le vie del centro, con le macchine fotografiche appese al collo e la bottiglia dell’acqua in mano come unica difesa dal sole forte e dal caldo che assedia la città. La vera Yerevan, quella sincera, autentica, non imbellettata di lussuosi negozi e dei simboli tipici della globalizzazione neoliberista, si trova però a sud, lì dove i visitatori stranieri raramente si avventurano.

La metropolitana, costruita durante il periodo sovietico e costituita da treni con due soli vagoni, collega la periferia settentrionale, dove si trovano i quartieri residenziali, a quella meridionale, che fino agli inizi degli anni Novanta ospitava le principali fabbriche del paese. Nell’Unione Sovietica una città acquistava prestigio e poteva vantarsi di essere una metropoli solo se aveva la metropolitana. Tbilisi e Yerevan erano capoluoghi piccoli e la costruzione di una ferrovia urbana sotterranea è stata un dono politico del Cremlino alle due capitali del Caucaso e non il frutto di una scelta legata alla necessità di muoversi velocemente e di diminuire il traffico di superficie.

L’Armenia era famosa per le sue industrie metalmeccaniche, che producevano materiale rotabile per le ferrovie dell’intero impero sovietico. C’erano anche fabbriche specializzate nell’alta tecnologia (un settore che è ancora oggi abbastanza forte nel resto del paese, ma non nella capitale), in particolar modo nella creazione di microchip e componenti aero-spaziali. Negli anni ’90, dopo una sciagurata politica di privatizzazioni, la maggior parte delle industrie è fallita.

La periferia sud di Yerevan è un triste monumento ai tempi passati, emblema di decadenza e di abbandono. Ai lati della linea della metropolitana si susseguono gli edifici che un tempo ospitavano operai e macchinari. I vetri alle finestre sono rotti o scheggiati, il ferro degli infissi, che nessuno più ha verniciato, cola sotto forma di ruggine sui mattoni di tufo rosso. All’interno dei cancelli la vegetazione ha preso il sopravvento sulle panche e sugli spazi in cui i lavoratori si riunivano per fumare durante le pause. I binari di servizio, che collegavano alcune aziende con la linea ferroviaria per Tbilisi e l’Iran, si snodano per decine di metri incorporati nell’asfalto di stradine secondarie. Si interrompono all’ingresso degli ex stabilimenti: la morsa dell’asfalto si allenta e le rotaie tornano a scorrere sulla terra; vengono però subito soffocate da erbacce altissime e persino da qualche albero da frutto, cresciuto per caso fra le traversine.

Yerevan, periferia, foto R.Bertoldi

Le uniche fabbriche ancora attive sono quelle legate alla produzione di materiali edili e alla manifattura del tabacco. Lungo il grande boulevard che unisce il centro della città all’autostrada, ci sono solo alcune officine, davanti alle quali giovani apprendisti abbronzati e a petto nudo sorseggiano un caffè o bevono una coca-cola ghiacciata. Guardano sornioni i rari passanti, con gli occhi semichiusi per l’albedo solare che spande luce ed energia non solo dal cielo, ma anche dall’asfalto e dagli edifici circostanti. Le uniche abitazioni a mostrare qualche traccia di vita sono le vecchie “krusciovke” a 5 piani, i condomini che il Presidente dell’URSS Nikita Krusciov fece costruire per risolvere l’annoso problema della casa che costringeva le famiglie dell’impero a condividere gli appartamenti.

La situazione economica in Armenia è critica proprio perché non c’è produzione industriale. Anche in centro, sono numerosi i segnali che indicano il disagio in cui la popolazione è costretta a vivere: balza agli occhi l’enorme quantità di “Lombard”, una parola che in russo sta a indicare i monti di pietà: già nel Medioevo, infatti, i primi ad aprire i banchi dei pegni ovunque in Europa furono dei ricchi commercianti lombardi. In uno di questi locali c’è anche Astrid, professoressa di chimica all’Università di Yerevan. Alta e dinoccolata, la pelle olivastra, i capelli nerissimi e gli occhi grandi e allungati, sta impegnando la collana d’oro ereditata anni fa dalla nonna: “Non è un grande problema – dice Astrid con un sorriso che non riesce a nascondere la delusione – a settembre comincerò di nuovo a tenere lezioni private e ricomprerò la collana. Purtroppo adesso è estate e gli studenti sono in vacanza. Solo dello stipendio universitario non è possibile vivere: la paga media di un docente è di circa 180 dollari al mese...”

TERZO MOVIMENTO: lento ma non troppo – ostinato

Azhad Saryan vive in un appartamento in centro città, in un edificio in mattoni di tufo rosso che si trova proprio lungo la via Mashtos. Siede al tavolo di lavoro e con un monocolo appoggiato all’occhio sinistro incastona con grande precisione una pietra preziosa nel gambo di un anello d’oro. Azhad ha appreso sin da bambino dal padre Serzh l’arte orafa. Ogni domenica mattina vende i gioielli che produce in una specie di fiera che ha luogo in un ampio locale nella centralissima Piazza della Repubblica.

Azhad è in realtà un assistente sociale, lavora in una cooperativa da lui stesso fondata insieme a degli amici alcuni anni fa, quando ha capito che non avrebbe potuto impiegarsi in un ente pubblico senza l’appoggio di un politico o di un qualche potente amministratore. Dopo un anno trascorso in Russia, a Mosca, in cerca di una sistemazione migliore, Azhad ha deciso di tornare a Yerevan per non lasciare soli i genitori ormai anziani, Serzh e Iulia. Serzh ha lavorato per 40 anni come ingegnere presso l’Azienda Trasporti di Yerevan. Ha una pensione di circa 90 euro al mese. Iulia ha insegnato lingua armena per tutta la vita nella scuola elementare del quartiere e la sua pensione è uguale a quella del marito. La famiglia Saryan, per potersi permettere una vita decente, non solo crea e vende gioielli, ma ospita anche a casa propria studenti e volontari stranieri, per lo più giovani, la seconda o la terza generazione di emigranti armeni che decide di tornare nella terra dei progenitori per imparare la lingua.

La Repubblica Armena ha circa 3 milioni di abitanti; più di 8 milioni di armeni vivono all’estero, soprattutto in Russia, negli Stati Uniti d’America e in Ucraina. La diaspora armena è cruciale per la sopravvivenza della stessa Repubblica: le rimesse degli immigrati non solo contribuiscono a risanare le casse dello Stato, ma anche quelle delle singole famiglie rimaste in patria che possano vantare almeno un parente in terre lontane. I Saryan all’estero non hanno nessuno, e per questo si arrangiano come possono per arrivare alla fine del mese. In una calda sera d’estate, Iulia si intrattiene con gli ospiti stranieri nella spaziosa cucina del suo appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti dell’abbondante cena: il lavash – il pane armeno, piatto come una piadina – il formaggio salato, le melanzane affumicate e trifolate in padella, la carne, il vino rosso della piana di Areni, la località dove per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno scoperto la vite e i segreti della sua coltivazione.

Iulia esalta le gesta del popolo armeno, che è eroicamente sopravvissuto al genocidio e che per secoli non ha avuto un proprio Stato. Ricorda che nel Medioevo l’Armenia occupava l’intero Caucaso, prima che arrivassero gli “usurpatori”, vale a dire georgiani, azeri e turchi. Nello stesso tempo, però, è molto critica nei confronti delle attuali élite politiche, soprattutto del presidente Serzh Sargsyan, che governa ininterrottamente il paese dal 2008. Nel 2018, Sargsyan non si potrà più candidare ma il Parlamento ha prontamente cambiato la Costituzione e dal 2017 l’Armenia non sarà più una Repubblica presidenziale bensì parlamentare. Questo significa che i poteri politici non si concentreranno più nelle mani del presidente ma in quelle del premier. Inutile dire che Sargsyan sta già pensando di presentare la propria candidatura a Presidente del Consiglio. Iulia era una compagna universitaria di Sargsyan. Lo ricorda come un ragazzo silenzioso, timido, ma con grandi capacità organizzative.

Il presidente appartiene al Partito Repubblicano, che ha stravinto alle elezioni politiche del 2012 e che controlla in toto la vita pubblica e i mezzi di comunicazione di massa del paese. In ogni caso, la popolarità del Presidente sembra lentamente ma inesorabilmente incrinarsi: nonostante abbia ancora l’appoggio della maggioranza della popolazione, nelle strade di Yerevan si sentono sempre più spesso lamentele nei confronti delle scelte politiche dei governanti. Nel 2013, dopo un incontro a quattr’occhi con il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin, Sargsyan ha deciso di interrompere le trattative legate a una collaborazione economica e culturale con l’Unione Europea per avvicinarsi all’Unione Eurasiatica, in cui l’Armenia è entrata nel 2015. Dell’Unione Eurasiatica fanno parte la Federazione Russa, la Bielorussia, il Kazakistan e il Kirghizistan.

La decisione di Sargsyan non è campata in aria: la Russia – che ha promosso con tutte le proprie forze la formazione di questa organizzazione internazionale – è un partner importantissimo per l’Armenia. Nell’immenso territorio compreso fra Mosca e Vladivostok vive più di un milione di armeni e il fatto che per loro non sia necessario il visto di ingresso è un vantaggio notevole. In più, la Russia non ha soltanto interessi nel Caucaso, ma è anche fisicamente presente nel nord della penisola: paradossalmente, la sua influenza è più forte in Armenia o in Sud Ossezia che non in Cecenia e nelle altre repubbliche caucasiche direttamente controllate da Mosca.

La rottura delle trattative con l’UE ha però costretto l’Armenia all’isolamento geo-politico: le frontiere con la Turchia sono chiuse a causa dei problemi legati al genocidio di inizi Novecento, quando il governo dei “Giovani turchi” fece uccidere 1 milione e mezzo di armeni presenti sul territorio ottomano: l’UE avrebbe potuto contribuire a scongelare i rapporti fra i due paesi. Le relazioni diplomatiche con l’Azerbaigian sono ai minimi storici a causa della guerra in Nagorno-Karabakh; quelle con la Georgia sono assai precarie: Tbilisi ha optato per una decisa e chiara politica pro-occidentale, soprattutto dopo l’aggressione russa che fra il 1991 e il 2008 ha sottratto al paese l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Solo l’Iran, con cui l’Armenia condivide il confine meridionale, gode apparentemente della totale fiducia di Sargsyan e dei suoi uomini. Frotte di turisti iraniani si aggirano per le vie di Yerevan: per loro non è necessario il visto di ingresso. Coppie scure di carnagione che si tengono per mano e ragazze giovani con lo chador appena appoggiato sui capelli, in maniera sensuale e provocante, mangiano nei ristoranti e fotografano piazze e fontane, persone e luoghi di culto.

L’Iran, però, sembra preferire come partner commerciale caucasico l’Azerbaijan, con cui ha stipulato degli accordi per la costruzione di una ferrovia che unirà la Russia a Teheran. Il progetto iniziale prevedeva che il tracciato passasse per l’Armenia, ma si è rivelato troppo costoso e gli Ayatollah hanno preferito accordarsi con Baku.

Richard Giragosyan, direttore dell’ONG “Regional Studies Center”, ha lavorato per molti anni negli Stati Uniti, al servizio della Casa Bianca. Ha deciso di tornare nella terra dei suoi avi e di dedicarsi alla sua ONG, che è legata al governo degli Stati Uniti ma che mantiene un ampio margine di autonomia e si dedica soprattutto a studiare la situazione politica armena. Energico e deciso, alto e sportivo, non risparmia parole e commenti quando qualcuno gli pone domande di scottante attualità. “In Armenia, la Russia controlla completamente settori strategici quali quello dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti e, indirettamente, l’intera economia. Adesso che siamo nell’Unione Eurasiatica, ritengo sia estremamente difficile che Mosca permetta l’ingresso di investitori stranieri nel nostro paese... Certo sarebbe un suicidio rompere le relazioni con la Russia”. Secondo Giragosian l’Armenia ha tutte le carte in regola per posizionarsi fra Oriente e Occidente, fra l’UE e la Russia, approfittando anche dei litigi fra le grandi potenze che ancora oggi, così come cento anni fa, tentano di estendere la propria influenza sul Caucaso. “Il nostro ceto politico non è in grado di attuare una così alta politica estera, che prevede scelte delicate e oculate. I governanti armeni – continua Giragosian – sono dei vecchi dinosauri che non hanno idea di quello che avviene oggi nel mondo contemporaneo. I più pericolosi, poi, sono quelli che indossano abiti occidentali, parlano la stessa lingua degli europei e degli americani, conquistano il loro appoggio e le loro simpatie ma hanno una mentalità sovietica e un solo obiettivo – la presa del potere a qualsiasi costo”.

Eppure, qualcosa sta lentamente cambiando: “Le nuove generazioni hanno una mentalità completamente diversa rispetto a quella dei nostri politici. Sono in contatto con il mondo, sanno le lingue, si informano attraverso internet. Prima o poi i giovani arriveranno al potere e le cose dovranno cambiare. L’Armenia ha un grande potenziale umano e culturale”. Giragosian conclude l’intervista con una nota personale, inaspettata ma gradita perché molto sincera: “Io non sono pazzo. Non avrei mai lasciato gli USA, dove lavoravo per il governo, per trasferirmi in un paese che non ha futuro. Se sono qui è perché so che le cose cambieranno, e in meglio”. Giragosian ha ragione: le giovani generazioni, anche se a livello politico non sono affatto attive, hanno una nuova mentalità che potrebbe davvero modificare il volto del paese, nonostante siano molto più isolate rispetto a quelle georgiane, azere e turche. Perché? La colpa è della politica estera di Yerevan: i problemi con la Turchia, come accennato, sono di vecchia data.

(Se Yerevan piange, Ankara e Istanbul non ridono. In questa calda estate del 2016, una delle più torride da quando si hanno misurazioni meteorologiche attendibili, in tutte le città della Turchia si respirano nervosismo e terrore, che si appiccicano alle pelle come l’umidità contenuta nell’aria bollente. Gli elicotteri sorvolano di continuo i quartieri di Istanbul con piccole telecamere attaccate ai pattini. Carri armati e mezzi blindati della polizia stazionano immobili come pachidermi nella piazza davanti alla Moschea Blu, dove i turisti si radunano per poi disperdersi nei vicoli a ridosso del mare. La libertà di movimento per i cittadini turchi è sospesa, le foto del presidente Erdoǧan giganteggiano ovunque, sui muri delle case, in metropolitana, sui cartelloni pubblicitari. Un’enorme bandiera, rossa con in mezzo la mezzaluna bianca, pende davanti a un negozio di alimentari; si agita alla brezza della sera e accarezza per un istante il volto delicato di un transessuale iraniano che cerca fra i turisti un compagno con cui trascorrere il tempo che lo separa dall’alba).

Dopo l’indipendenza, proclamata nel 1991, l’Armenia aveva instaurato contatti diplomatici con Ankara, ma la guerra in Nagorno-Karabakh ha fatto precipitare la situazione. Durante il conflitto, infatti, la Turchia ha appoggiato l’Azerbaigian, che già ai tempi dell’URSS contendeva all’Armenia questa piccola regione montuosa al confine con l’Iran. Il Nagorno-Karabakh era abitato sia da armeni sia da azeri. Lo scontro armato è cominciato nel 1988 ed è ufficialmente terminato nel 1994, anche se al fronte le scaramucce continuano con sparatorie e provocazioni reciproche da parte di entrambe i contendenti. Il Nagorno-Karabakh ha anche proclamato l’indipendenza ma nessuno stato al mondo l’ha riconosciuto. Dal 1994 in poi, gli azeri sono stati cacciati dalla neonata e sedicente repubblica, così come da tutto il territorio armeno. La stessa cosa è accaduta agli armeni residenti in Azerbaigian.

Certo è che dopo centinaia di anni di contatti e scambi economici e culturali, i rapporti fra Yerevan e Baku si sono completamente interrotti e, per la prima volta nella storia, le giovani generazioni dei due paesi in lotta non hanno alcun tipo di rapporto con i vicini. Come è possibile che un conflitto armato duri da così tanto tempo e che non si sia ancora trovata una soluzione? Il Nagorno-Karabakh è una terra estremamente povera e i pochi giacimenti petroliferi non giustificano odi così profondi e una guerra così lunga e snervante. La verità è che i governi armeno e azero utilizzano la regione per creare un sentimento nazionale forte e distrarre l’attenzione dei propri cittadini dai numerosi problemi interni.

Uwe Halbach, ricercatore presso la “Stiftung Wissenschaft und Politik” di Berlino, afferma che la politica azera e armena è completamente “karabachizzata”. La retorica bellica, che è presente quotidianamente sui media, ha il compito di accrescere il patriottismo all’interno dei due paesi e di addossare le colpe del malcontento sociale a un nemico esterno. Fonti vicine al presidente Sargsjan, che vogliono restare rigorosamente anonime, asseriscono che sono in corso dei tentativi da parte del governo armeno per trovare una soluzione definitiva al problema legato al Nagorno-Karabakh. L’Armenia sarebbe pronta anche a restituire alcuni territori illegalmente occupati che appartengono senza dubbio all’Azerbaigian. Le trattative sono però segrete: dopo anni di propaganda, il popolo armeno non è pronto ad accettare alcun tipo di compromesso. Il primo presidente armeno, Levon Ter-Petrosyan, ha perso le elezioni nel 1998 proprio perché stava cercando una soluzione pacifica al problema, che potesse accontentare anche gli azeri e smorzare una volta per tutte le tensioni. Per questo Sargsyan è molto cauto e non esce allo scoperto con proposte pubbliche.

In ogni caso, nell’aprile del 2016 la polizia ha arrestato Zhiran Sefilyan, un eroe di guerra che da anni organizza proteste pacifiche in tutta l’Armenia contro il governo e il presidente e che si è apertamente schierato contro ogni eventuale cessione di territori all’Azerbaijan. Sefilyan ha fondato un movimento che si chiama “Riformare il parlamento” ed è stato accusato di voler organizzare un attentato terroristico volto ad abbattere il ripetitore delle telecomunicazioni di Yerevan. Le accuse erano in realtà tendenziose; fatto sta che a luglio un gruppo di veterani di guerra ha occupato una stazione di polizia alla periferia della capitale, uccidendo anche alcune guardie, per richiedere la liberazione di Sefilyan. I combattenti speravano che il popolo si riversasse nelle piazze e nelle strade della città per sostenerli, ma vicino alla caserma si sono radunate poco centinaia di manifestanti. Dopo giorni di trattative, i “terroristi” sono stati arrestati, nonostante le autorità avessero promesso loro l’amnistia. La loro protesta non era legata solo al Nagorno-Karabakh, ma anche alla situazione politica interna, alla corruzione e alle numeroso difficoltà in cui l’economia armena si dibatte.

In generale, i veterani di guerra, molti dei quali soffrono di stress post-traumatico e vivono in condizioni di estrema povertà, sono stati quasi dimenticati dal governo, non hanno un lavoro e ricevono pensioni miserrime; oltre a ciò, non hanno alcun riconoscimento o prestigio sociale. Si possono rifugiare solo nell’alcol oppure nella lotta armata. La famiglia Saryan è rimasta sconvolta dagli eventi di luglio e segue con interesse e passione le proteste dei pochi cittadini che ogni venerdì si riuniscono nella piazza del teatro dell’Opera per chiedere le dimissioni di Sargsyan e del governo. Quelle rare volte che i manifestanti sfilano in corteo per la via Mashtos, dove si trova l’appartamento dei Saryan, Iulia chiude la finestra per non far sentire agli ospiti stranieri gli slogan e le urla arrabbiate. Non solo, sono proprio quelli i momenti in cui Iulia esalta le gesta passate del suo popolo.

Il passato diventa mito quando il presente è insopportabile e il futuro sembra essere destinato a non arrivare mai. La situazione attuale in Armenia è molto simile a quella balcanica degli anni Novanta: da un lato c’è un’insoddisfazione diffusa e radicale per via delle pessime condizioni di vita, dall’altro la propaganda bellica impedisce che quella stessa insoddisfazione diventi aperta e chiara protesta politica. I cittadini avvertono inconsciamente che le contestazioni – a cui spesso guardano con simpatia – sono sinonimo di tradimento; introiettano un senso di colpa che impedisce loro di schierarsi del tutto contro le autorità. Una situazione schizofrenica, che spinge gli abitanti di Yerevan a simpatizzare con i manifestanti del venerdì ma a non uscire di casa per unirsi a loro. La polizia, dal canto suo, fa di tutto per bloccare chi il venerdì sera voglia raggiungere il Teatro dell’Opera: chiude le vie del centro al traffico e i vicoli prossimi al luogo delle manifestazioni. “Come hanno potuto arrestare Sefilyan, un vero eroe e difensore della Patria, e come hanno potuto arrestare coloro che difendevano Sefilyan, anche loro ex-combattenti nel Nagorno-Karabakh”, dice Iulia con un’espressione amareggiata sul viso solcato da pochissime rughe, nonostante abbia da poco compiuto 70 anni.

A luglio, la polizia ha arrestato anche Armen Martirosyan, vice-presidente del partito di opposizione “Eredità”, perché aveva manifestato per la liberazione di quelli che il governo definisce terroristi. Iulia ama ripetere che Martorisyan è “uno del popolo, uno di noi”. È stato liberato dopo tre settimane di carcere e dopo che i suoi compagni hanno pagato una cauzione in denaro. Appena uscito di prigione, ha raggiunto immediatamente il Teatro dell’Opera e ha trovato il tempo di scambiare quattro chiacchiere con i giornalisti stranieri, nonostante decine di persone lo acclamassero ininterrottamente e facessero la fila per stringergli la mano: “Negli ultimi 25 anni i problemi si sono accumulati – dice Martirosyan – i giudici non fanno il proprio dovere, la corruzione è onnipresente, della polizia meglio non parlare. Il popolo è davvero stanco di tutto ciò”.

Perché allora le proteste non riescono a essere efficaci, a cambiare davvero le cose? Nel settembre del 2016 il Presidente del Consiglio Hovik Abrahamyan si è dimesso per calmare gli animi, ma si ha l’impressione che ogni trasformazione sia funzionale al mantenimento dello status quo. Cambiare tutto affinché nulla muti per davvero. Il senso di colpa legato al tradimento del sentimento patriottico può spiegare fino a un certo punto l’attuale immobilità della società armena. Ci aiuta a capire cosa si cela dietro questa situazione di stallo Karen Harutyunyan, direttore del giornale-televisione on-line “Civilnet”, finanziato dall’Occidente (soprattutto dall’UE) e dalla diaspora armena. Harutyunyan ci accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di un nuovo edificio in centro a Yerevan, proprio di fronte al Teatro dell’Opera. Parla con voce calma, dietro di lui ci sono scaffali ricolmi di libri in armeno, inglese e russo. Attraverso la porta a vetri del suo ufficio è possibile scorgere molti giovani collaboratori intenti a scrivere e a prepararsi per una diretta dallo studio televisivo ricavato all’interno della redazione. “Quello che in Armenia manca – sostiene Harutyunyan – è una massa critica in grado di pensare con la propria testa. I media non sono affatto obiettivi, addirittura non è chiaro chi siano i padroni e i finanziatori dei giornali e delle televisioni più popolari. Quando si legge un articolo, è difficilissimo distinguere la notizia in sé dal commento di chi scrive. Questo crea ovviamente confusione. I cittadini non sanno a chi rivolgersi per capire davvero ciò che accade e non sanno distinguere propaganda e realtà.” In ogni caso, anche Harutyunyan, così come Richard Giragosyan, è convinto che le cose siano destinate a mutare e che le nuove generazioni cambieranno completamente il volto del paese nel giro di pochi anni.

FINALE: sostenuto, allegro ma non troppo - di tufo e di vento

Yerevan si trova in una grande vallata, fertile e ubertosa, fra due grandi montagne, vulcani mansueti perché ormai spenti: L’Ararat e l’Aragats. L’Ararat è il monte mitico su cui si incagliò l’arca di Noè subito dopo il Diluvio. Alle sue pendici Noè bevve del vino e si ubriacò: cominciò a correre nudo sull’erba mentre i figli, impietositi e pudici, cercavano di raggiungerlo e di coprirgli le membra ormai vecchie e mollicce. L’Ararat si trova adesso in territorio turco, ma appartiene, con le sue due gobbe inconfondibili, rispettivamente di 5000 e di 3000 metri, all’immaginario collettivo armeno.

Monte Aragat

L’Aragats invece è situato alle spalle della città e si nasconde dietro le colline della periferia settentrionale. È alto più di 4000 metri. A sera, l’aria sulla cima dell’Aragats si raffredda molto velocemente, mentre a valle rimane calda. Si crea così una drammatica depressione barica che costringe l’aria fredda in quota a discendere verso la pianura. Poco prima che il sole tramonti e poi fino a tarda sera, Yerevan viene spazzata da un vento forte e insistente, che in armeno si chiama “kami”. L’aria fresca entra nei minuscoli fori dei mattoni di tufo e fa suonare come uno strumento musicale tutti gli edifici, in un unisono armonico e appena percettibile. Il vento fa danzare i fili dell’alta tensione, disperde in minuscole e invisibili goccioline il getto d’acqua che esce dalla grande fontana di Piazza della Repubblica, solleva le gonne leggere delle ragazze che passeggiano nelle vie del centro e che abbassano gli orli dei vestitini con la mano destra, urlano “uh” e poi corrono a piccoli e rapidi passi a cercare riparo sotto ai portici del Museo di Storia Armena, lì dove il vento si placa come una bestia domata.

Bere dalle fontanelle che sono disseminate ovunque nelle vie del centro diventa impossibile, perché il fiotto d’acqua che esce dalle bocche di metallo viene spazzato via senza pietà e bagna l’asfalto lucido circostante. Alla periferia sud, dove di sera nessuno cammina e non c’è neppure un’anima che si affacci alle finestre, il vento alza al cielo le foglie seccate dal sole e cadute precocemente dagli alberi; di loro non ci sarà più traccia al mattino successivo, forse riescono ad arrivare ad alta quota e a sorvolare la frontiera con la Turchia, per poi cadere al di là del confine, innocenti e inconsapevoli di essere arrivate in territorio nemico. Il vento entra anche dalle finestre aperte delle case: le tende all’interno si sollevano come fantasmi, le carte e i giornali lasciati sulle scrivanie si sparpagliano ovunque nel corridoio e i lampadari dei salotti traballano felici, liberi dall’immobilità polverosa a cui sono stati per anni costretti.

Il vento si calma solo intorno a mezzanotte, quando la depressione barica fra la valle e il monte si colma del tutto. Yerevan rimane immobile, stanca e sconvolta dalla violenta sfuriata d’aria, ma pulita, e scintillante anche.

 

Yerevan, Novi Sad – agosto, settembre 2016

 

VARIAZIONI SUL TEMA: GYUMRI

Lento e dissonante, per arpeggione solo

Era il 7 dicembre 1988 quando la terra tremò per circa 30 secondi nel nord dell’Armenia, ai piedi del monte Aragats. I pendii e i picchi dell’Aragats furono scossi da onde potenti, ripetute, per lo più ondulatorie, del settimo grado della scala Richter. La città di Gyumri, che si trova nel nord-ovest dell’Armenia, al confine con la Turchia, fu rasa quasi completamente al suolo. Gli edifici costruiti all’epoca di Stalin resistettero e furono semplicemente danneggiati. Le “Kruschovke” rimasero in piedi ma erano pressoché inabitabili. I palazzi edificati al tempo di Brezhnev si disintegrarono completamente, quasi a rimarcare la progressiva decadenza dell’URSS nel corso dei decenni.

Un anno dopo la potente scossa, la vecchia Unione Sovietica si sarebbe dissolta del tutto e l’Armenia avrebbe cominciato il proprio percorso verso l’indipendenza, proclamata nel 1991. Per Gyumri, però, questi sconvolgimenti storici non ebbero alcun significato fondamentale. Le macerie sono rimaste lì dov’erano per anni. Già l’8 dicembre del 1988, i sopravvissuti capirono a quale destino stessero andando incontro: nessuno arrivò a soccorrere i feriti e a scavare fra i resti delle case per recuperare i cadaveri. Passarono giorni interi prima che Mosca si decidesse a spedire i primi aiuti.

Negli anni successivi, Yerevan sarebbe stata troppo impegnata nel conflitto con l’Azerbaigian per pensare alla ricostruzione di Gyumri. La città è così lentamente ma inesorabilmente morta; si è spenta ed è diventata un monumento, il cippo funebre di sé stessa. Il centro è ancora in parte distrutto, come se il terremoto fosse avvenuto ieri e non trent’anni fa. Le case, in pietra vulcanica nera, sono per lo più disabitate. Le famiglie che ci vivevano hanno preferito emigrare o risiedono ancora nei container – ormai arrugginiti – alla periferia del centro urbano. Molte abitazioni hanno gli usci sprangati. Le vie del centro sono piastrellate con blocchetti di leucite, lucidi a tal punto da sembrare bagnati, un po’ come i sanpietrini a Roma. Le case hanno spesso un ampio cortile interno e un balcone che corre lungo tutta la facciata, a ripetere il perimetro della corte. Serviva per collegare gli appartamenti delle varie famiglie, che dividevano in condominio la corte stessa e l’ampio ingresso all’edificio, costituito spesso da un largo e corto corridoio, una sorta di entrata trionfale dai portali scolpiti.

Gyumri, Flickr Goggins World

Alcune case sono ancora abitate: all’interno, gli alberi da frutto, soprattutto susini, regalano ombra e appigli per stendere le corde da bucato. Due signore lavorano in un cortile, preparano la salsa di pomodoro per l’inverno o mettono sotto sale i peperoni. Alcune case hanno la facciata signorile, ancora intatta; l’interno, però, è infestato da erbacce e quel che resta del pavimento è spesso nascosto da un alto strato di pattumiera. Il primo piano di un appartamento è stato letteralmente troncato a metà dal terremoto: sono ancora visibili una poltrona rossa sospesa sul nulla e la tappezzeria alle pareti, verde, impreziosita da eleganti motivi floreali.

Ai tempi dell’impero sovietico, Gyumri si chiamava Leninakan ed era una città ricca e culturalmente molto viva, che ospitava spesso concerti, opere e rappresentazioni teatrali. Risuona ancora per le strade l’eco del concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturyan, che fu suonato per la prima volta a Mosca nel 1940 e che venne eseguito diverse volte anche qui, a Gyumri. Dello splendore antico non è rimasto più nulla. Le strade sono quasi deserte: un bambino guarda i rari passanti dal garage in cui suo padre sta facendo delle riparazioni a una vecchia “Lada” e sembra non avere il coraggio di avventurarsi oltre. Un anziano signore, che cammina curvo, appoggiato a un bastone, dà la mano in segno di rispetto a tutti coloro che incontra. Una signora di mezza età entra con uno scolapasta in mano nel container con il simbolo della Croce Rosa ormai sbiadito, vicino a quella che era la sua casa, di cui rimangono intatti solo i muri portanti. In una via secondaria giacciono le carcasse di due auto, chissà da quanto tempo dimenticate lì. La piazza principale è immensa ma non vi passeggia quasi nessuno; la chiesa in tufo nero è stata ricostruita ma a terra giace ancora la vecchia cupola, abbattuta dal terremoto.

C’è chi, come Alexan Ter-Minasyan, cerca di restituire nuova vita a Gyumri: con l’aiuto del governo tedesco, Alexan ha costruito un ospedale e un hotel, le cui stanze sono impreziosite dalle opere pittoriche e scultoree dei principali artisti armeni viventi. C’è in realtà poco da fare. Gyumri sembra essere in coma irreversibile. I politici compaiono in città solo alla vigilia delle elezioni. Non sanno più neppure cosa promettere, per questo i loro comizi sono molto brevi. Scappano via il prima possibile; le guardie del corpo impediscono alla popolazione di avvicinarsi a quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Alle scorse elezioni politiche, il partito del presidente ha preso pochissimi voti, sia in città sia nei villaggi che, come satelliti, ruotano intorno a Gyumri. Da quel 7 dicembre 1988, la politica nazionale e Gyumri sembrano aver divorziato per sempre.


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