Al mercato di Scutari, Albania (© viajeleve/Shutterstock)

Al mercato di Scutari, Albania (© viajeleve/Shutterstock)

Un libro in cui si incontrano Alexander Langer e Alessandro Leogrande. Una conversazione a distanza che ci chiama in causa e che spetta a noi proseguire

23/03/2020 -  Nicola Pedrazzi

Alexander e Alessandro non si sono mai conosciuti. Langer è nato nel ‘46 a Vipiteno, è un ragazzo del dopoguerra altoatesino; Leogrande è nato nel ‘77 a Taranto: le sue radici sono mediterranee e la sua generazione è la X, terra di mezzo tra i baby boomers e i millennials. Quando il primo si toglie la vita, nel luglio ’95 – a pochi giorni dall’inizio del massacro di Srebrenica – il secondo non è ancora maggiorenne. Quando il secondo ci lascia prematuramente, nel novembre 2017, al Langer persona si è già sovrapposta la memoria, il simbolo di una generazione.

Noncuranti dello spazio e del tempo, le consonanze tra i due Alex sono lì, nella prosa e nella postura dei loro scritti, quando non nella biografia. Siamo dinanzi a due non solo scrittori che hanno «inteso la vita come convivenza» (Massimo Cacciari lo ha scritto di Langer ma vale anche per Leogrande, che da questo si è lasciato ispirare); due vite in fin dei conti consumate dalla serietà che hanno esatto dal rapporto tra il dire e il fare, tra «noi» e «gli altri». Forse non è un caso che al tramonto del Novecento due spiriti di tal fatta abbiano frequentato l’Albania. E ne abbiano scritto.

Con felice intuizione, il libro curato da Giovanni Accardo e pubblicato per i tipi di Alphabeta Verlag indaga il filo rosso tra Langer e Leogrande a partire dai loro scritti albanesi, selezionati lungo un arco temporale che va dal 1990 al 2016. Non si tratta di un’operazione editoriale utile ai soli albanofili, perché ricostruendo la verità di un dialogo mai esistito il libro consegna a diversi pubblici diversi livelli di lettura. Il lettore esperto d’Albania, che ne ha seguito il cammino dalla caduta alla «democrazia», avrà l’occasione di confrontare i suoi ricordi con la testimonianza di chi scrive in presa diretta sugli eventi, senza senno del poi. Il lettore generalista è per certi versi ancor più fortunato, perché senza farsi distrarre dal contesto potrà vivere questa raccolta come una sorta di guida universale all’incontro con l’altro da sé.

L’Albania secondo Langer

L’Albania di Alexander Langer è il paese disperato da cui migliaia di albanesi cercheranno di scappare (l’indimenticabile Nave Vlora attracca al porto di Bari l’estate successiva). Langer la visita tra l’11 e il 17 dicembre 1990, nei giorni in cui la protesta degli studenti è al culmine e il regime di Ramiz Alia (il successore di Enver Hoxha) deve gestire la nascita del Partito Democratico, il primo partito di opposizione. Oggi sappiamo che Alia «accompagnò» il passaggio al pluralismo, ma è passato solo un anno dalla caduta del muro di Berlino e Langer teme che l’opzione della repressione «alla rumena» sia sul tavolo dei dirigenti albanesi.

Langer atterra nel paese su mandato della Commissione politica del Parlamento europeo, ma ad ogni occasione cerca di allargare i suoi interlocutori, muovendosi fuori dalla cerchia protocollare che limita la comprensione delle prime delegazioni occidentali. A caldo, il Langer giornalista affida le sue impressioni a una serie di articoli scritti da Tirana per il «Manifesto» – conoscendo il sequel della storia albanese fa un certo effetto leggere di Sali Berisha come di un volto nuovo, foriero di speranza: «Hanno parlato il capo degli studenti, un noto cardiologo, e un attore. […] L’atmosfera è di festa, nonostante l’illuminazione e la gente si abbraccia spontaneamente e dai loro volti traspare la felicità…» –, ma al netto della libertà con cui interpreta la missione, egli non dimentica l’istituzione che l’ha inviato oltre mare. Al fianco degli articoli del militante che continua a vivere in lui – pulsanti di aspirazioni politiche per un’Albania nuova, cui anche gli italiani hanno il dovere di lavorare, e su cui devono innanzitutto essere informati – nel volume troviamo le riflessioni del Langer capo delegazione del PE, annotate su un diario di viaggio che sarà utilizzato per redarre la prima risoluzione sulle relazioni Albania-CEE (l’aula di Strasburgo la voterà il 22 febbraio 1991). Con la penna asciutta dell’osservatore internazionale, giovedì 13 dicembre il nostro scrive:

«Andiamo a un incontro ufficiale col nuovo partito, che provvisoriamente ha il suo quartier generale in una “casa dello studente”. Nell’ufficio in cui ci riuniamo vediamo alla parete ancora la foto obbligatoria di Enver Hoxha, incorniciata, e sullo scaffale molti volumi delle sue opere. La nostra impressione è che la guida del movimento sia passata molto velocemente dalle mani degli studenti a quelle degli intellettuali. Il cardiologo Sali Berisha e l’economista Gramoz Pashko occupano il palcoscenico, lo studente Azem Hajdari interviene pochissimo, gli altri studenti ascoltano soltanto. La registrazione legale del nuovo partito appare ancora del tutto in forse. Esplicita e ferma è la condanna degli “eccessi” che vengono riportati da Kavaje e da Durazzo […]. Si prendono dunque le distanze dagli hooligani. Chiediamo se vi siano stato morti, feriti, arrestati (anche in seguito ai moti studenteschi dei giorni passati). Ci meravigliamo un po’ del peso relativamente scarso che i nostri interlocutori – compresi gli studenti – sembrano attribuire a questi interrogativi. […] La nuova opposizione sembra ancora ben lontana dall’essere all’altezza dei compiti che la Storia le sembrerebbe voler assegnare».

Passaggi come questo sono autentiche pepite d’oro. In primo luogo perché, messi di fianco a scritti di diverso genere e tenore, ci confermano la sconfinata pluralità di Alexander Langer – un difensore a tutto campo della democrazia, della pace e dei diritti umani, non per questo analista cieco dinanzi alle contraddizioni e alle continuità dei movimenti riformatori, né ignaro dei confini della propria carica politica –, ma soprattutto perché ci restituiscono l’immagine di un’Albania in mezzo al guado, di giorni caotici, ambigui e cruciali, su cui cominciano a esserci buoni studi, ma di cui scarseggiano testimoni oculari super partes. Per tutte queste ragioni, nell’economia del libro è centrale l’inedito con cui si chiude la prima parte: «Albania 1994». Redatto presumibilmente per il PE in mesi in cui l’attenzione di Langer si stava sempre più rivolgendo alle guerre della ex Jugoslavia – L’Europa muore o rinasce a Sarajevo sarà il titolo del suo ultimo scritto – questo rapporto sui primi anni della democrazia albanese assume fatalmente i contorni della profezia. Dalla corruzione endemica allo stato dell’informazione, dall’apparente ritorno del religioso alla mancanza di una vera e propria società civile, dai conflitti del Kosovo al riemergere di una questione albanese su scala regionale, Langer vede e anticipa i nodi dei decenni a venire. Giusto per fare due esempi, sulla crescente presenza internazionale egli ammette ciò che ancora oggi fingiamo di non sapere quando esaltiamo la «modernità» di Tirana:

«È chiaro che la massiccia presenza di operatori esteri – anche in veste di cooperanti e funzionari di agenzie internazionali – non contribuisce particolarmente alla pace sociale in Albania, visto l’enorme dislivello che essi comunque impongono nel settore dei salari, delle abitazioni, dei consumi, dello stile di vita. Inoltre è giustificato motivo di scandalo l’incidenza, spesso davvero ingiustificabile, dei costi di “consulenza”».

Ancor più importante il passaggio sul sistema giudiziario:

«Nel nuovo regime vi era una acuta mancanza di giudici non ipotecati dal passato: è stata risolta con immissioni in massa di giovani, spesso qualificati solo dalla loro fedeltà politica al nuovo potere, rinforzati talvolta da ex prigionieri politici che ovviamente non potevano portare con sé come maggiore dote la serenità di giudizio. Inoltre le carenze della legislazione penale e un vero e proprio caos nel settore della giustizia civile (affollata da controversie proprietarie sulla restituzione di beni ai privati), unita a un clima politico non proprio incline all’indipendenza della magistratura, hanno assai favorito la corruzione (forse più nel settore civile) e una giurisprudenza politicizzata e comunque spesso spettacolare, sino all’esecuzione capitale pubblica».

A ventisei anni da questa lucidità, la riforma della giustizia continua a essere al centro del monitoraggio degli internazionali (che con la loro presenza continuano a «staccare» l’economia della capitale dal resto del paese). Oggi l’Unione europea non ha più un inviato di fortuna, ma una rappresentanza permanente a Tirana; tuttavia, per precisione e autenticità del quadro, il «rapporto Langer» rimane ineguagliato dai report che la Commissione stila ogni anno sul paese. Nonostante lo struggente afflato europeistico che trasuda da queste pagine anni Novanta, già allora le scorribande balcaniche di Langer si spegnevano un po’ mestamente nei debriefing di Bruxelles, dove – citiamo dal diario – «tutto appare già un po’ lontano: a noi viene servito caffè o tè, e l’Albania è un punto all’ordine del giorno, insieme a molti altri».

L’Albania secondo Leogrande

L’Albania di Alessandro Leogrande è l’Albania del millennio: un paese in cammino, che si lascia alle spalle le crisi sociali e migratorie del post-comunismo, che aderisce alla Nato, si candida all’Ue e ottiene la liberalizzazione dei visti verso l’area Schengen; un paese che con l’aiuto delle rimesse della diaspora prova a rimettersi in sesto e a godersi i primi consumi, le prime luci del capitalismo. Leogrande è giustamente ricordato come il biografo della crisi del ‘97 e dell’affondamento della Katër i Radës nel canale d’Otranto – «Il naufragio» è probabilmente il libro per cui è più noto in Italia e per il quale nel 2018 il comune di Tirana gli ha dedicato una via del parco cittadino –, ma l’Albania che frequenta da adulto e di cui sovente scrive è successiva alla tragedia, è un caos allegro che ispira nuovi film e promuove concerti profanatori dentro la piramide del dittatore. L’ultimissima Albania commentata da Leogrande è, in buona sostanza, quella ridisegnata dal premier Edi Rama, una capitale fatta di festival, gallerie d’arte e illustri ospiti stranieri, finalmente ben recensita dalla stampa internazionale. Un paese desideroso di rimuovere i ricordi degli anni Novanta, e con loro – avverte Leogrande – «la possibilità di un’indagine obiettiva delle responsabilità politiche».

Leogrande è un abitué delle contraddizioni dell’Albania, e con sensibilità e intelligenza si muove tra l’immagine e il paese reale, tra il paese che cambia e il paese che continua: non vuole negare il primo, perché lui stesso è testimone dei passi avanti, ma non vuole smettere di narrare il secondo, perché farebbe torto ai problemi e ai bisogni degli albanesi. Tra gli scritti più importanti raccolti nel libro vi sono due disamine storico-letterarie di Ismail Kadare, che si inseriscono appunto in questa dicotomia. Da un lato il grande scrittore senza epoca, l’albanese vivente più famoso al mondo, lustro di un popolo; dall’altro il controverso «Kadare storico», che Leogrande legge e interpreta con doveroso distacco, collocandolo nel Novecento albanese:

«Qualcuno ricorderà le immagini televisive che mostravano migliaia di studenti intenti ad abbattere una statua di Enver Hoxha alta più di dieci metri, in segno di sfida contro il regime agonizzante. Bene, in quei giorni Kadare era ancora deputato del regime. Kadare è la massima autorità della letteratura albanese contemporanea. Non da ieri, ma dagli anni Sessanta. Hoxha non ha mai disprezzato il suo talento, lo ha omaggiato nella misura in cui, sul piano strettamente letterario, lo scrittore di Argirocastro (lì è nato nel 1936) è riuscito comunque a far uscire le patrie lettere dalle secche del dilettantismo e del provincialismo, dando loro un respiro internazionale».

La disamina di Leogrande è più letteraria che politica: certo denuncia le falsità del cosiddetto «Dossier Kadare» – assemblato postumo per suggerire l’idea che anche il numero uno subì la censura del regime –, ma non gli interessa pronunciare giudizi morali sulla persona – «il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo fa certo venire davanti ai plotoni di esecuzione» –, quanto una corretta valutazione dell’opera, della letteratura, perché prima e dopo il muro la penna di Kadare scrive in maniera diversa, e bisogna dirlo:

«I suoi libri scritti dopo la caduta del comunismo sono profondamente diversi da quelli scritti sotto il terrore. A meno che non si voglia, in modo invero molto dozzinale, separare con l’accetta forma e contenuto, sostenendo che la forma, lo stile, siano grossomodo simili. A dimostrare che così non è, che il prima e il dopo sono quasi opposti, vi è proprio l’ultimo libro di Kadare, in Italia tradotto da Longanesi nel 2005: Freddi fiori d’aprile. Proprio con questo romanzo non v’è dubbio che la sua opera sia mutata, abbandonando il passato remoto e l’allegoria, e consegnandosi completamente al presente: Kadare racconta le tensioni della società albanese del nord, la parte montanara, non urbana e confinante con il Kosovo, alla fine del ventesimo secolo. […] Chiunque capirebbe che un libro del genere sarebbe stato impossibile scriverlo sotto il regime o anche solo nei primi anni del postcomunismo. È stato scritto molto tempo dopo, in piena tranquillità: a Parigi, in democrazia. È tutto sommato un bel libro, ma non si può certo dire che sia un’operazione audace, almeno non secondo i parametri di chi era rinchiuso a Spaç. Se il dopo è la democrazia (in cui tutti possono dire quel che gli pare, migliorando di molto la propria opera), e il prima è il totalitarismo (sotto al quale anche un diario privato è causa di lunghi periodi di detenzione), tutto questo andrebbe riconosciuto. E proprio Kadare, prima di ogni altro, dovrebbe riconoscerlo, ammettere le profonde differenze della sua opera, il raggiungimento della possibilità di criticare il presente, anziché abbandonarsi a pensose riflessioni sulla “libertà interiore” dello scrittore».

Chi ha conosciuto Leogrande racconta che si capiva chi era da come parlava con gli ultimi: alla pari, senza bisogno di dissimulare senso di superiorità o pietismo (perché evidentemente non li provava). Ecco, anche il modo in cui Leogrande maneggia il primo albanese del mondo – senza riverenza e senza scandalo, con una fermezza che fa a meno del narcisistico desiderio di denuncia – ci racconta molto di lui, come scrittore e come persona. Ci racconta del suo modo di ispirarsi a Langer, che egli ammira in quanto «pacifista concreto», estraneo al «pacifismo dogmatico e parolaio» e «attento alla realtà dei fatti». Similmente a Langer, Leogrande annovera nel suo bagaglio una formazione cristiano-sociale che lo rende propenso ad empatizzare, ad avvertire in sé la libertà dell’altro, a comprendere in senso etimologico («tenere insieme»). Come Langer anche Leogrande sviluppa una profonda (quasi dolorosa) sensibilità ambientalista, vissuta da tarantino, come questione sociale. Come Langer, Leogrande pensa che l’Italia e l’Europa abbiano grandi responsabilità, nei confronti del Mediterraneo e dell’Albania in particolare. A differenza del primo, Leogrande può misurare la perdita di influenza dell’Italia e dell’italiano in Albania. E se ne rammarica, perché al pari di Langer ha un cuore geopolitico, e considera l’Italia un’«Albania dell’ovest».

A ben vedere è su queste concezioni che Leogrande costruirà la sua riflessione definitiva, sulla migrazione e sulla frontiera. Diversamente da come fu per Langer, per Leogrande l’Albania è stata al centro sin dagli albori della sua vita intellettuale. Agli occhi di un ventenne abituato a seguire il padre, direttore della Caritas di Puglia, in campi di lavoro oltre Adriatico, il naufragio della Katër i Radës provocato da una manovra di respingimento della Marina Militare italiana, diviene la fondazione dell’uomo adulto e dello scrittore. Un momento che non lo abbandonerà mai: la pietra di paragone di tutti i parallelismi futuri, negli anni in cui la frontiera si sposterà dall’Albania al Nord Africa. Nel libro uscito quattordici anni dopo, Leogrande racconterà così il suo viaggio dall’Albania all’universale.

Più volte ho avuto la sensazione di venire sommerso da tutte quelle storie che, benché avessero il proprio acme alle 18.57 del 28 marzo 1997, raccontavano ferite diverse. Ognuna mi è apparsa a suo modo incredibile, inaccettabile, quasi fosse il segno della più intima violazione delle leggi dell’universo. Allora ho capito che un naufragio è solo apparentemente un fatto collettivo. Lo è solo nel racconto storico dell’evento, o nella sua percezione giornalistica. Un naufragio è invece la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, ma pienamente narrabile.

Vivere, vedere, sperare

Nell’incolmabile assenza dei due Alex, spetta a noi proseguire il loro dialogo. Ne saremo in grado? Come fare? Questo libro ci indica la via in due modi, mostrandoci la forza e la fragilità di due grandi.

Quello che rende Langer e Leogrande di gran lunga superiori alla media degli osservatori stranieri che da trent’anni si avvicendano in Albania è la rettitudine, che per un narratore significa sostanzialmente non cedere alla prima apparenza, allo stereotipo, a quello che ti è utile o più facile raccontare, anche rispetto al pubblico per cui scrivi o alle tue preferenze. Langer si emoziona, è vero, per gli abanesi che «escono dalle catacombe», che per la prima volta si organizzano, che provano a superare la dittatura, ma questo non gli impedisce di distinguere le divisioni e le aporie del movimento studentesco, di coglierne la debolezza e registrare come via via questo venga inglobato dal potere di turno, in continuità con il potere precedente. Allo stesso modo, Leogrande è un letterato e un ammiratore della letteratura albanese, ma questo non gli impedisce di vedere e di affermare che il più grande scrittore albanese vivente è stato il campione internazionale del regime enverista, e che i tentativi di nascondere questa verità storica – che peraltro non lede alla qualità delle opere – si spiegano con il fatto che al pari dell’Albania comunista, l’Albania democratica non può fare a meno del suo campione nel mondo.

Queste parole di verità, disturbanti perché pronunciate con cognizione di causa e in libertà, senza timore o calcolo delle conseguenze, sono quello che dobbiamo proseguire. Sapendo che anche noi sbaglieremo, perché anche Langer e Leogrande sbagliavano. Un esempio eclatante preso dal libro: in un articolo del 2016, nei mesi in cui in Italia impazzava la riscoperta mediatica dell’Albania, Leogrande riporta la cifra (inventata ad arte dal ministro Erion Veliaj) dei 19.000 italiani residenti con permesso di soggiorno nel paese. C’è da chiedersi perché uno scrittore così serio e preparato abbia potuto riportare una bugia di un politico. La risposta, paradossale, è nei valori che abbiamo sin qui elogiato: Leogrande amava l’Albania, quell’amore disinteressato che gli ha consentito di sferzare Kadare e il potere politico che lo ha sostenuto è lo stesso sentimento che gli ha fatto ripetere una bufala. Perché il fatto che tu sia impermeabile al potere, libero da interessi di parte, empatico con gli ultimi, parco di ego, non ti garantisce l’immunità dal tuo bagaglio valoriale, da quello che desideri vedere.

Nella sua vivacissima vita, Langer – «uno dei migliori prodotti del Sessantotto italiano», per usare la sintesi di Gad Lerner – era stato uno studente di Lotta continua, e dinanzi agli studenti albanesi i suoi sentimenti e le sue sensibilità non potevano prescindere da questo fatto (gli articoli de il Manifesto scritti nei ritagli di una missione internazionale stanno lì a dimostrarlo). Dal canto suo, Leogrande aveva cominciato a frequentare l’Albania negli anni della migrazione, aveva assistito alla miseria e alla deflagrazione di un paese dirimpettaio, e un ventennio dopo, dinanzi a sempre più italiani che finalmente attraversano l’Adriatico, il suo bagaglio esperienziale non può non accompagnarlo nelle riflessioni sullo sviluppo albanese. Leogrande crede ai 19.000 italiani in Albania (in verità sono qualche migliaio…) perché quella cifra realizza un suo ideale, fornisce una prova al suo progetto di riscatto, apertura, equità, scambio interculturale.

Eccolo, dunque, il secondo insegnamento di un libro postumo, a cui essere doppiamente grati. Quando, da italiani – e dunque da stranieri – guardiamo all’Albania, quando raccontiamo l’altro, non dobbiamo mai nasconderci che all’altro si guarda con occhi propri, correndo il rischio della proiezione. Indro Montanelli ha visitato l’Albania nel 1939, ha visto e raccontato lo sviluppo di una terra sconosciuta ai più, ma in procinto di entrare nella comunità imperiale di Roma. Joyce Lussu ha vistato l’Albania alla fine degli anni Sessanta, ha visto e raccontato lo sviluppo di una terra sconosciuta ai più, ma che aveva avuto il coraggio della Resistenza, di contestare lo schema della Guerra Fredda, di emancipare le proprie donne. Langer e Logrande hanno visitato l’Albania al tramonto del Novecento, una terra sconosciuta ai più, e vi hanno visto e raccontato la fine di una frontiera, l’inizio di una nuova storia europea. Non tutti questi racconti erano parimenti vicini al vero. Da tutti traiamo l’insegnamento che il visibile non è separabile dalla speranza.

In libreria

Dialogo sull’Albania

a cura di Giovanni Accardo

prefazione di Goffredo Fofi

Edizioni Alphabeta Verlag

Cosa legava Alessandro Leogrande, tra i più brillanti scrittori e reporter della sua generazione, ad Alexander Langer? Cosa trovava il giovane Leogrande nel pensiero e nell’attività politica di uno dei più autorevoli esponenti del pensiero ecologista e non violento europeo? Questo libro indaga proprio tale legame a partire da un luogo speciale, l’Albania, al quale entrambi hanno dedicato diversi scritti, frutto di viaggi, incontri, relazioni.


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