Oliver Ivanović

Oliver Ivanović

Nel settembre del 2017 Oliver Ivanović rilasciò un'intervista al settimanale Vreme, in cui descriveva con franchezza la situazione del nord del Kosovo, le tensioni politiche e sociali, la situazione scomoda del suo partito. Parole rivelatrici da rileggere con attenzione in seguito al suo recente omicidio

25/01/2018 -  Dejan Anastasijević

(Originariamente pubblicato dal settimanale Vreme , il 29 settembre 2017)

Oliver Ivanović è un personaggio politico insolito. Da giovane voleva diventare pilota ma, a causa di una malformazione congenita dell’occhio, dovette abbandonare gli studi intrapresi presso l’Accademia aeronautica di Zagabria e tornare in Kosovo, dove divenne ingegnere e campione di karate. Salì alla ribalta dell’opinione pubblica a seguito della guerra in Kosovo del 1999, come uno dei leader dei cosiddetti “guardiani del ponte” che controllavano il ponte che collega la parte settentrionale di Mitrovica a quella meridionale. Dopo la caduta del regime di Milošević, per un certo periodo fu presidente del Consiglio nazionale serbo del Kosovo settentrionale, ma ben presto divenne scomodo per le autorità di Belgrado, tra l’altro perché era apertamente favorevole alla partecipazione dei serbi alle elezioni kosovare. Per due volte fu eletto deputato del parlamento di Pristina, mentre dal 2008 al 2012 svolse l’incarico di segretario di stato presso il ministero serbo per il Kosovo e la Metohija, all’epoca guidato da Goran Bogdanović. Inoltre, è uno dei pochi politici serbi in grado di parlare correntemente l’albanese.

Nel gennaio 2014, Ivanović viene inaspettatamente arrestato su richiesta della procura di Eulex – la missione dell’Ue in Kosovo – con l’accusa di crimini di guerra. È stato uno shock per molti, perché fino ad allora nessuno, nemmeno i nazionalisti albanesi più estremi, aveva mai collegato il suo nome ai crimini di guerra. L’imputazione rivolta a Ivanović era quella di aver organizzato, come membro delle formazioni paramilitari serbe, maltrattamenti e uccisioni di civili albanesi a Mitrovica in due occasioni (nel 1999 e nel 2000). Per la maggior parte della durata del processo penale, protrattosi per tre anni e mezzo, Ivanović è stato in prigione, prima a Pristina, e poi, dopo aver intrapreso uno sciopero della fame, a Mitrovica, mentre gli ultimi sei mesi li ha passati agli arresti domiciliari. Dei due capi di imputazione, per uno è stato condannato in primo grado a nove anni di reclusione, mentre per l’altro è stato assolto. È stato rilasciato solo nel giugno 2017, dopo che la Corte d’appello di Pristina aveva confermato la sentenza di assoluzione e annullato la sentenza di condanna, disponendo un nuovo processo. La stragrande maggioranza dei testimoni chiamati dall’accusa si è rifiutata di incolpare Ivanović davanti al giudice, mentre la maggior parte degli osservatori riteneva che il processo fosse montato.

Chi pensava che dopo tutto questo Ivanović si sarebbe ritirato dalla politica aveva torto. Nell’agosto 2017 ha annunciato di volersi candidare alla carica di sindaco di Mitrovica alle elezioni amministrative dell’ottobre, suscitando una nuova ondata di ostilità nei suoi confronti: la sua automobile è stata data alle fiamme, mentre alcuni membri del suo partito (Iniziativa civica “Libertà, democrazia, giustizia”, SDP) hanno improvvisamente deciso di voltargli le spalle.

Abbiamo incontrato Ivanović a Belgrado dove, come lui stesso ci ha spiegato, trascorre almeno un paio di giorni al mese per riposarsi un po’ da quel clima di inquietudine e di paura che da qualche tempo regna a Mitrovica.

Quando dopo tre anni e mezzo di reclusione è stato finalmente rilasciato, ha notato qualche cambiamento nella situazione nel nord del Kosovo?

Sì, la situazione è cambiata in peggio. Vi è un incredibile senso di insicurezza e di paura nella popolazione. Tra circa un centinaio di persone con cui ho parlato nelle prime settimane dopo il mio rilascio, non ce n’è una sola che non abbia sollevato, già all’inizio della conversazione, la questione della sicurezza. Intendiamoci: queste persone non hanno paura degli albanesi, bensì dei serbi, dei kabadahije [termine di origine turca che significa prepotenti, ndt] e criminali locali che guidano jeep senza targhe. Si vende droga ad ogni angolo della strada, e questo suscita inquietudine in ogni genitore. La criminalità c’era anche prima, ma non in questa misura, né questa gente si comportava in modo così arrogante come adesso. La polizia sta a guardare senza reagire, e i cittadini si sentono insicuri, nonostante le forze di polizia locali siano costituite esclusivamente da serbi. Alcuni di loro sono poliziotti di grande esperienza, che in passato lavoravano presso il ministero dell’Interno serbo, ma nessuno fa niente.

Per illustrare meglio la situazione, solo negli ultimi anni a Mitrovica si sono verificati più di 50 episodi di automobili date alle fiamme e esplosioni di bombe a mano, nonché due omicidi ancora irrisolti. Tutto questo è avvenuto su un territorio di 2,5 chilometri quadrati, interamente coperto da videosorveglianza. È evidente che la polizia ha paura di affrontare i responsabili dei delitti, o questi ultimi sono legati alle strutture di sicurezza. C’è chi dice che la polizia è semplicemente incapace, ma mi risulta difficile crederci. Voglio dire, sì, è incapace, ma non così tanto.

Anche la sua automobile è stata recentemente data alle fiamme, e i responsabili non sono ancora stati identificati…

Sì, la mia auto è stata data alle fiamme non appena ho annunciato di volermi candidare a sindaco [di Mitrovica]. Prima hanno dato alle fiamme l’automobile di Dragiša Milović, il medico di Zvečan con il quale ho parlato della possibilità di presentarsi con una lista unitaria alle elezioni in quel comune, e subito dopo anche la mia. È bastato che ci vedessero parlare un paio di volte.

Chi è che fa queste cose?

Sono strutture criminali legate alla politica che temono la nostra candidatura. Per qualcuno che dispone di infrastrutture e risorse finanziarie enormi, e gode del sostegno del governo di Belgrado, il nostro piccolo partito non dovrebbe rappresentare un problema. Tuttavia, loro sanno come sono visti dalla popolazione e hanno paura di poter perdere se ai cittadini venisse offerta un’alternativa. Alle scorse elezioni amministrative non c’era alcuna alternativa – io ero in carcere, e Milović non si era candidato. Ora loro sono nel panico.

Alcuni candidati della sua lista hanno improvvisamente cambiato idea…

Sì, il caso più recente è quello di Zoran Spasojević, medico, che era il sesto candidato nella nostra lista. Sette giorni prima del suo ritiro dalla lista, Spasojević è stato costretto a rinunciare alla specializzazione. Stava per concludere gli studi di specializzazione, pagati di tasca propria, quando è stato trasferito a Leposavić [comune a maggioranza serba nel nord del Kosovo, ndt], presumibilmente per esigenze urgenti. Si è trattato di un palese tentativo di esercitare pressione su di lui affinché si ritirasse. In un primo momento non ha ceduto ma, dopo essere stato sottoposto a pressioni per due giorni, ha rinunciato alla candidatura, appoggiando pubblicamente Srpska lista (Lista serba). Posso solo immaginare con che cosa lo hanno minacciato, perché non è facile piegare un uomo come lui.

In una recente intervista rilasciata a Vreme, il deputato del parlamento serbo Slaviša Ristić ha avanzato accuse simili, sostenendo che queste strutture criminali sono direttamente legate al Partito progressista serbo (SNS), ma nemmeno lui ha citato qualcuno per nome e cognome. Il Kosovo settentrionale, come lei stesso ha detto, è un piccolo ambiente. Perché nessuno osa dire pubblicamente chi sono queste persone che tutti temono?

Perché in questi casi non bisogna speculare se non si dispone di prove solide. E se si dispone di prove, bisognerebbe presentarle agli organi giudiziari prima di rivelarle pubblicamente. Ho l’impressione che sia i giudici sia i procuratori temano queste persone. Nel mio caso evidentemente non temevano niente, visto che mi hanno subito messo dietro le sbarre, tenendomi rinchiuso per tre anni senza alcuna prova. Potevano tranquillamente accusarmi anche di aver causato un terremoto in Messico, perché ne sono colpevole nella stessa misura in cui sono colpevole di quello che mi si imputa.

Hanno tentato di convincere anche lei a ritirare la candidatura?

No, sanno bene che ciò non avrebbe alcun senso.Anche la mia auto l’hanno data alle fiamme non tanto per intimidire me, bensì le persone che mi stanno intorno. E in una certa misura ci sono riusciti, perché finora si sono ritirati quattro candidati dalla lista dell’SDP. Mi dispiace dover dire che alcuni miei ex compagni di partito, voltagabbana, hanno giocato un ruolo disonorevole in tutto ciò, trasmettendo messaggi e avvertimenti… Ho sporto denuncia contro ignoti per tre episodi di intimidazione, prima presso la procura di Belgrado, e poi presso quella kosovara. Mi aspetto che qualcuno reagisca, perché se si continua così, ci saranno gravi conseguenze.

È tragico che, dopo diciotto anni di vita con la paura degli estremisti albanesi, i serbi [nel nord del Kosovo] ora abbiano paura degli estremisti serbi e per questo se ne vanno via. Questo cambiamento è avvenuto mentre ero in carcere, e probabilmente lo percepisco meglio di quelli che lo hanno vissuto gradualmente, ma è ovvio: le persone sono spaventate e tacciono, oppure fanno le valigie.

Se lo stato non fa qualcosa per fermare questa tendenza, c’è il serio rischio che il nord del Kosovo crolli e che tutto ciò che abbiamo difeso in questi anni sparisca. Prima sapevamo dove era il fronte, oggi non lo sappiamo, perché il fronte è tra di noi.

È evidente che l’obiettivo è quello di garantire a Srpska lista il monopolio della rappresentanza politica dei serbi nel nord del Kosovo, e parliamo di un partito i cui leader affermano orgogliosamente di essere “voce e mano di Aleksandar Vučić in Kosovo”…

A differenza di Belgrado, dove gli scontri politici avvengono perlopiù sul piano verbale, noi in Kosovo siamo impetuosi, tendiamo ad adirarsi e a reagire con veemenza… Forse è proprio grazie a questa caratteristica che siamo sopravvissuti. Si tratta di cose molto pericolose, soprattutto quando è Belgrado a surriscaldare gli scontri. Nessuno dovrebbe mettere l’interesse del partito al di sopra dell’interesse nazionale, ed è nell’interesse nazionale che i serbi rimangano in Kosovo e che la Serbia li tratti al pari degli altri suoi cittadini.

Alle scorse elezioni parlamentari Srpska lista si è aggiudicata nove dei dieci seggi riservati alla minoranza serba nel parlamento di Pristina, e si aspetta di conseguire un simile risultato alle elezioni amministrative [dell’ottobre 2017, ndt]…

Possono conseguirlo soltanto rubando voti. Loro in realtà non conducono alcuna campagna, solo si preparano a rubare. Continuano a ripetere che rappresentano un progetto statale, ma finora non ho sentito alcuna nuova idea provenire da loro. Se le elezioni saranno oneste, non potranno vincere.

Come è stato accolto dai serbi del Kosovo il sostegno di Srpska lista al governo di Ramush Haradinaj, costituito perlopiù dagli ex combattenti dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK)?

È stato accolto male. Innanzitutto devo dire che fin da subito era chiaro che questa “coalizione bellica” avrebbe formato il governo, per cui ci sarebbe stato sufficiente tempo per preparare i cittadini e l’opinione pubblica a tale risvolto. Invece, si è cominciato a parlare di Haradinaj come un boia e mostro, abbiamo persino intrapreso azioni diplomatiche contro la Francia a causa sua. E poi, all’improvviso, entriamo in coalizione con Ramush come premier. E, cosa ancora peggiore, invece di condurre una politica proattiva, Srpska lista non ha nemmeno partecipato ai negoziati per la formazione del governo, come se il sostegno dei serbi fosse dato per scontato. Invece di aspettare che i negoziati giungessero al termine e che Pacolli voltasse gabbana, avrebbero subito dovuto avanzare le loro richieste. Il nostro popolo dice che le intese si fanno in fondo al campo, e non in cima, quando tutto è ormai finito.

I serbi del Kosovo devono essere rappresentati da politici seri e competenti, e non dagli attivisti di partito. Non è che non ci siano politici competenti, ma se guardate Srpska lista non c’è nemmeno un professore universitario, giurista, ingegnere, medico… Le persone che sono rispettate nel proprio ambiente non possono pretendere di essere rispettate dagli albanesi e dai diplomatici stranieri. Questi ultimi semplicemente ignorano i rappresentanti di Srpska lista, perché a cosa serve parlare con loro se tutto si decide a Belgrado? Basta ricordare come il precedente governo kosovaro abbia destituito il ministro Jablanović, a meno di un mese dalla sua nomina, per una dichiarazione maldestra, e Srpska lista non ha fatto nulla per proteggerlo. Perché in quell’occasione non sono usciti dalla coalizione? Quello che fanno loro non è politica, bensì pura improvvisazione.

Il presidente Vučić ha giustificato il sostegno a Haradinaj con motivi pratici, affermando che senza aver appoggiato il suo governo, i serbi non avrebbero ottenuto l’Associazione delle municipalità serbe nel nord del Kosovo…

Haradinaj ha appena annunciato che la creazione dell’Associazione delle municipalità serbe (ZSO) sarà posticipata al 2021. Ne ho già parlato quando è stato firmato l’Accordo di Bruxelles. Loro semplicemente non attueranno la parte dell’accordo relativa all’istituzione della ZSO. Se Isa Mustafa, che godeva di un’ampia maggioranza parlamentare, non ha osato farlo, come aspettarsi che lo faccia Haradinaj che può contare su una maggioranza striminzita? Non pensino mica che rischierà la caduta del governo per una cosa del genere?

Tra i politici albanesi-kosovari prevale l’opinione che non bisogna fare ulteriori concessioni ai serbi, perché ogni atto del genere equivarrebbe a un tradimento. Questo atteggiamento è molto diffuso anche nell’opinione pubblica: loro [albanesi del Kosovo] semplicemente non vogliono che i serbi ottengano un’istituzione interposta tra potere centrale e locale.

Ed è per questo che già nel 2014, mentre ero in carcere, ho fatto appello affinché si procedesse alla costituzione degli organi della ZSO, senza aspettare il via libera di Pristina. Si tratta di qualcosa che è stata concordato a Bruxelles e che avremmo dovuto attuare unilateralmente, come abbiamo fatto con alcune altre disposizioni dell’accordo. Possono essere organi provvisori, chiamateli come volete, ma devono essere funzionali. Avremmo dovuto costituirli per due ragioni: per dimostrare che non abbiamo intenzione di arrenderci e per guadagnare tempo, perché si tratta di una nuova istituzione la cui struttura deve essere ancora elaborata. Anche se la ZSO dovesse essere costituita domani, ci vorrebbero anni affinché cominci a svolgere appieno le sue funzioni, perché bisognerà collegare istituzionalmente tutti i servizi comunali esistenti.

Quanto è stato saggio entrare in una coalizione che non è ben vista neanche dagli stessi albanesi perché afflitta da corruzione e nepotismo, e che, a causa di una maggioranza fragile e conflitti interni, potrebbe dissolversi in pochi mesi?

Non è saggio entrare a far parte di qualsiasi coalizione senza ottenere certe garanzie. Srpska lista non solo non ha partecipato ai negoziati, ma non ha nemmeno chiesto che le venisse garantito da parte degli attori internazionali che la ZSO sarebbe stata creata. Se la coalizione dovesse sciogliersi, nessuna promessa ottenuta da Haradinaj avrà più alcun peso, perché arriverà un nuovo governo. Se avessero chiesto garanzie agli ambasciatori dei paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ciò avrebbe avuto un impatto. Ma non hanno nemmeno potuto chiedere alcuna garanzia, perché nessuno li prende sul serio.

Vučić invece viene preso sul serio sia da Bruxelles e Berlino sia da Mosca, e durante la recente visita a New York ha stretto la mano, ben quattro volte, al presidente statunitense Donald Trump. Questo non ha alcun peso?

In questo caso no, perché si tratta di una questione di importanza locale nella quale i governi centrali non vogliono immischiarsi, ma lasciano che siano i loro ambasciatori ad occuparsene. Gli ambasciatori dei paesi che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo cercano di coltivare i migliori rapporti possibili con le autorità di Pristina e non vogliono certo rischiare di guastarli a causa della ZSO. L’unico modo per porre questa questione sul tappeto è cambiare la situazione sul campo, ovvero costituire autonomamente la ZSO.

Alcuni media hanno riportato la notizia che il presidente russo Vladimir Putin aveva appoggiato, tramite il suo partito (Russia Unita), l’ingresso di Srpska lista nel nuovo governo kosovaro…

Quella era una bufala. Nella delegazione del Partito progressista serbo (SNS) recatasi in visita a Mosca è stato inserito un membro di Srpska lista e questo è stato interpretato come un appoggio da parte di Putin all’ingresso nella coalizione con Haradinaj e, peggio ancora, come un appoggio a Srpska lista alle elezioni amministrative in Kosovo. Il ministero degli Esteri russo ha subito smentito questa “notizia”.

È una vergogna talmente tale da non poter essere descritta a parole. Qualche giorno fa, mentre passavo davanti al monumento di Shcherbina a Mitrovica (console russo ucciso in Kosovo nel 1903), mi è sembrato che anch’egli fosse arrossito dalla vergogna. Nessuno ha il diritto di mettere a repentaglio le relazioni con la Russia o con qualsiasi altro paese del cui appoggio abbiamo bisogno, solo per guadagnarsi facili punti politici.

Cosa ne pensa dell’invito al dialogo interno sul Kosovo lanciato dal presidente Vučić?

Penso che sia una buona idea, anche se si poteva fare prima. Non ho motivo di dubitare che il dialogo sarà aperto e ampio come annunciato, ma penso che non debba avere limiti temporali. La questione del Kosovo è troppo delicata per essere affrontata frettolosamente. Inoltre, è importante che vengano inclusi tutti i partiti, grandi e piccoli, le organizzazioni non-governative, la Chiesa, ecc., in modo da evitare che l’attuale governo, che un domani sarà all’opposizione, prenda una decisione che il prossimo governo annullerà, e allora bisognerà ricominciare tutto da capo. Non si potrà mai raggiungere un consenso assoluto, ma è importante che il maggior numero possibile di attori politici trovi un accordo. Sono proprio i frequenti cambi di rotta nella politica sul Kosovo ad averci portato a questo punto.

Ripeto, non bisogna essere frettolosi, perché in questo momento comunque non abbiamo nessuno con cui negoziare seriamente, vista l’instabilità del governo di Pristina, e ci vorranno almeno uno, due anni affinché le cose cambino. Se dovessimo agire in modo affrettato, non potremmo aspettarci altro che il pieno riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

Bruxelles, tuttavia, ha fretta e la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo è un fattore decisivo nel processo di integrazione europea della Serbia…

È vero, ma quello su cui dobbiamo innanzitutto concentrarci lungo il percorso di integrazione europea sono le riforme interne, per far sì che il nostro paese si avvicini ai paesi membri dell’Ue. Del resto, anche se riconoscessimo l’indipendenza del Kosovo domani, non potremmo entrare nell’Ue prima del 2025. Quindi perché sacrificare una cosa così importante per la nostra identità, solo per finire seduti per anni sul banco degli asini dell’Unione europea?

Ha recentemente dichiarato che la cosa migliore da fare sarebbe risolvere la questione del Kosovo secondo il modello cipriota. Perché pensa che questo sarebbe accettabile per Bruxelles, che continua a ripetere di non volere un’altra Cipro nell’Unione europea?

Il modello cipriota non è una soluzione, ma è un buon punto di riferimento per affrontare una questione così delicata. Le mosse affrettate potrebbero facilmente portare a un conflitto, e questo non è nell’interesse di nessuno.

So che loro [l’Unione europea] percepiscono il Kosovo come una bomba che potrebbe esplodere in qualsiasi momento, e attraverso il processo di normalizzazione vorrebbero al più presto disattivare il detonatore, ma potrebbe anche succedere che, invece del detonatore, disattivino l’interruttore di sicurezza, provocando la detonazione. Non bisogna giocare con una questione così delicata. Inoltre, finché la KFOR resterà in Kosovo non ci sarà alcun rischio di un serio conflitto serbo-albanese.

Non vedo alcun motivo per cui la situazione attuale, che non è ideale ma è stabile, non potrebbe essere mantenuta finché non si trova una soluzione permanente, anche se ci volessero altri dieci anni. In realtà, fretta ce l’hanno soltanto alcuni Stati membri e i burocrati di Bruxelles, mentre l’Ue non ha un approccio comune, e non lo avrà finché tutti gli stati membri non riconosceranno l’indipendenza del Kosovo.

Come lei stesso ha affermato all’inizio di questa conversazione, vi è il rischio che il Kosovo settentrionale crolli, a causa della malapolitica e della grave situazione economica che spinge i cittadini a emigrare. Pensa che tra dieci anni la comunità serba nel nord del Kosovo sarà sufficientemente numerosa per poter garantire la propria sopravvivenza?

Questo è un rischio reale, e ho deciso di rilasciare questa intervista nella speranza che venga letta da qualcuno e che lo stato cominci a trattare il Kosovo come una questione strategica, e non partitica. I comuni nel nord del Kosovo dovrebbero essere un esempio di legalità e buona amministrazione. Invece, il governo di Belgrado ha destituito, con un decreto, il rettore dell’Università [di Mitrovica], e questo non è consentito in nessuna parte del mondo. Se ne vanno intellettuali, medici, ingegneri perché non vedono alcuna prospettiva, così come non la vedono tanti altri.

Sembra che a Belgrado non capiscano che, a prescindere dalle differenze interne, i serbi del Kosovo non sono né potranno mai essere gli oppositori del governo serbo. Se continuano a trattarci come hanno fatto finora, potrebbe succedere che emigriamo tutti, e allora la Serbia avrà un problema molto più serio con il Kosovo. È tempo di smettere di giocare con le cose serie.


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